Capitolo
2
Over the Window
Anche quella notte Harleen non era riuscita a dormire
a causa degli incubi.
Aveva sognato di correre per la strada, senza arrivare
mai, salvo poi ritrovarsi bloccata in un vicolo cieco, e poi lo sparo.
Lui l’aveva colpita dritta in fonte.
A quel punto si era svegliata, col fiato corto e il
pigiama madido di sudore, e si era resa conto che si trattava di un altro
incubo. Oggi ci sarebbe stata la prima vera visita psichiatrica col suo nuovo
paziente.
Sarebbero stati nel suo ufficio, da soli, senza
telecamere ad osservare la sua follia omicida.
Era un po’ intimorita.
Il giorno prima, per fortuna, era andato tutto a
meraviglia nella cella del Joker.
Avrebbe dovuto portare con sé qualche arma per
difendersi?
Istintivamente i suoi occhi guizzarono verso il
comodino dove teneva la sua revolver.
Si trattava di una Chiappa Rhino 60DS nera con canna
da 6”, caricata con sei colpi in calibro 357 Magnum a punta cava. Non l’aveva
mai usata, a dire il vero.
L’aveva comprata, solo per difendersi da possibili
aggressioni notturne.
Gotham non era di certo rinomata per la sua
vivibilità.
Ridestandosi dai suoi pensieri, Harleen si preparò per
un’altra intensa giornata di lavoro.
Arrivata nel suo ufficio indossò il solito camice,
perfettamente bianco, in pendant con il resto di quella stanza spoglia,
prendendo poi ad affilare le sue matite, perfettamente appuntite ed ordinate l’una
accanto all’altra.
Dopo aver sistemato le
ultime scartoffie, la donna chiamò le guardie che, prontamente, dopo nemmeno
dieci minuti fecero accomodare il
signor Napier nel suo ufficio, togliendo la camicia di forza e ammanettando il
suo polso sinistro al tavolo, dileguandosi subito dopo.
Era una regola non
scritta.
La dottoressa non voleva essere disturbata durante il
suo lavoro; questa era l’unica regola che aveva imposto ai subordinati dell’Arkham
Asylum fin dal primo giorno in cui le era stato affidato il posto di psichiatra
presso quel centro.
Chiuse la porta a chiave, in modo che nessuno potesse
entrare, sotto lo sguardo sorpreso e divertito del detenuto, che esordì, con
fare teatrale, a mo’ di riverenza:
«Buongiorno bambolina!»
«Benvenuto Mr. J -ricambiò lei con un sorriso di
circostanza, sedendosi di fronte a lui, tirando fuori dal cassetto della
scrivania un block-notes ed una penna, e raccogliendo i capelli in un morbido
chignon, fermato da una matita temperata per l’occasione - Oggi ha inizio la
nostra prima seduta. Mi parli un po’ della sua vita. Inizi da dove preferisce»
«D’accordo
bambolina. Avevo una moglie, era bellissima… proprio come te!
Lei mi diceva
sempre che mi preoccupavo troppo, mi diceva che dovevo sorridere di più, che
giocava d’azzardo e si metteva in un mare di guai con gli strozzini…
Hey! Un giorno le
sfregiano il viso. Ma non abbiamo i soldi per la plastica.
Lei non lo
sopporta. Ma io voglio solo vederla tornare a sorridere!
Hm? Voglio che lei
sappia che non me ne importa delle cicatrici! E allora, mi ficco il rasoio in
bocca -recitò, estraendole la matita
dai capelli con un gesto repentino e ficcandosela in bocca, iniziando a
squartarsi la carne, partendo dall’angolo destro della bocca, con la punta- e mi riduco così… da solo. E sai che
succede? Non ce la fa neanche a guardarmi! E mi ha lasciato. Ora ne vedo il
lato buffo: ora sorrido sempre!»
Concluso il racconto dell’uomo la dottoressa si portò
una mano alla bocca, come per trattenere un conato di vomito. L’aria era
diventata pesante.
Improvvisamente le mancava il respiro.
Si alzò, per aprire una finestra, ma immediatamente si
ritrovò un corpo molto più possente di lei afferrarle la gola da dietro, con una
matita puntata contro la carotide.
Prontamente Harleen afferrò la revolver, estraendola
dalla fondina e puntandogliela contro il fianco.
Subito Jack allentò la presa, tornando a sedersi al
suo posto e lasciando cadere, il pastello, ancora insanguinato sul pavimento
freddo.
«Hai fegato da vendere bambolina! Sai che dovresti
stare attenta a maneggiare certe cose? Potresti farti male, molto male.
Soprattutto se sfortunatamente quella
pistola dovesse finire nelle mani sbagliate… Non sei d’accordo con me?»
concluse il Joker, in tono ironico.
La dottoressa tornò immediatamente al suo posto,
ignorando le sue parole e riponendo l’arma nella custodia.
«Gradisce un caffè?» chiese, infine, accendendo la
macchinetta e prendendo due tazzine a un cenno affermativo del paziente.
Prese poi le due bevande, appoggiandole sul tavolo e
domandandogli: «Zucchero?»
Il joker non rispose, limitandosi a giocherellare con
gli aghi della pianta grassa sulla scrivania della dottoressa.
«Mi parli della sua infanzia» gli intimò lei, con fare
freddo e professionale.
«I miei genitori erano molto amorevoli. C’erano mia
madre, mio padre e Jack. Era la
classica famiglia Mulino Bianco.»
disse lui, con un sorriso quasi… nostalgico?
«E allora perché li ha uccisi?» continuò con un filo
di disprezzo nella voce lei.
«Vuoi sapere
come mi sono fatto queste cicatrici? Mio padre era un alcolista e un maniaco e
una notte dà di matto ancora più del solito…
Mamma prende un
coltello da cucina per difendersi, ma a lui questo non piace neanche un pochetto!
Allora mentre io li guardo, la colpisce col coltello, ridendo mentre lo fa… Si
gira verso di me e dice: “Perché sei così serio?!”. Viene verso di me con il
coltello e mi ficca la lama in bocca. “Mettiamo un bel sorriso su questo
faccino! Perché sei così serio!”»
Harleen, adirata per la sua presa in giro, battè il
palmo delle mani sul tavolo.
«Basta così Mr. J., è chiaro che lei non vuole
collaborare. Smettiamola di prenderci in giro a vicenda!» disse la dottoressa,
alzando per un attimo il tono della voce, sempre così pacata.
«Non ti stavo affatto prendendo in giro bambolina.
Smettila di entrarmi nel cervello. Attenta: la
follia è come la gravità… basta solo una piccola spinta -le sussurrò lui
all’orecchio -lentamente la accoglierai di tua spontanea volontà. Sarà allora
che si impadronirà di te… e ti consumerà!» concluse il clown ridendo
sguaiatamente, con quel lampo folle negli occhi che lo contraddistingueva.
«Non ho paura Mr. Joker, perché si ostina a rifiutare il
mio aiuto?» chiese, ancora nervosa, la dottoressa iniziando a mordicchiarsi le
unghie, sempre perfettamente curate e sbeccandone lo smalto rosso.
«Mi hanno trattato come un mostro, e sono diventato un mostro. -rispose l’uomo con
un bagliore perverso ad illuminargli gli occhi- Non sono qualcuno che può
essere amato. Io sono un’idea, uno stato d’animo. Sono un’ombra, che si insinua
nella mente, come un parassita, corrompendoti prima che tu possa accorgertene.
Ah! Ah! Ah! Ah! Ah!» concluse, esternando la propria devianza, prima di tornare
nella sua cella lanciandole uno sguardo intimidatorio e dicendole «Avevo
ragione dottoressa Quinzel, lei è proprio deliziosa» scomparendo dietro la
porta, scortato dalla vigilanza.
Quella notte la dottoressa restò di turno al
manicomio.
Quel posto non era bello nemmeno di giorno,
figuriamoci quando veniva avvolto dalle tenebre.
Harleen restava chiusa nel suo ufficio scrivendo la
cartella clinica del Joker e prendendo spunto per il suo libro.
CARTELLA
CLINICA
Elizabeth Arkham Asylum
for the Criminally Insane
Detenuto
n° O
Nome: Jack
Cognome: Napier
(?)
Alias: Il Joker
Età: //
Altezza: 183 cm
Peso: 73 kg
Occhi: Verdi
Capelli: Verdi
Diagnosi critica del disturbo:
Il paziente è
affetto da diverse psicosi caratterizzate da sociopatia, alterazione del
pensiero, e del comportamento. Ha difficoltà a relazionarsi col prossimo,
e
tende ad alternare fasi di bipolarismo cronico.
Pare che la
malattia si sia manifestata d’improvviso, fin dalla più tenera età.
Tali accessi di
durata più o meno lunga erano intercalati da periodi di quiete.
La sfrenata
libidine lo rendeva spessissimo oggetto di scandalo per la pubblica morale.
Qualche volta minacciava anche i parenti.
Il soffocamento di
questi istinti primitivi ha portato il sig. Napier a sviluppare una visione
distorta e perversa del mondo.
Talora presenta
dei leggieri delirii che si estrinsecano in una forte tendenza all’autolesionismo.
Conserva memoria
della maggior parte delle cose passate più o meno lontane, ma talora pare che
abbia dimenticato tutto.
Si è riconosciuta
la necessità di un urgente ricovero all’interno dell’istituto.
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Mentre la dottoressa scriveva il verdetto di quel
folle incontro, diverse voci continuavano a rimbombare nei corridoi del
carcere.
Tra tutte, seppe distinguere una risata sadica che le
era familiare.
Immediatamente si avviò, col cuore in gola, verso la sua cella, accasciandosi contro la
porta, unico ostacolo che li separava.
«Chi è la?» sentì poi.
Un sussulto.
La sua voce
quella sera era particolarmente sofferente.
«Sono… Sono io Mr J! -disse, con una nota di
incertezza nella voce- Volevo chiederle se aveva bisogno di qualcosa, magari
del cibo. So bene che la sbobba della prigione, non sia propriamente
equiparabile al caviale.
Magari, essendo nuovo ha ancora bisogno di
ambientarsi. Cosa posso fare per metterla a suo agio?»
«Dottoressa, lei mi delude -rispose il Joker, nel
chiaro tentativo di provocarla- Non credevo che si facessero favoritismi tra
detenuti»
«Io non volevo dire questo. Cioè… Insomma, se ha bisogno
di qualcosa mi chiami pure» continuò cautamente.
«Avrei bisogno di fumare» si sentì rispondere.
«Va benissimo. Vedrò di fare quello che posso!» concluse,
sorridendo tra sé e sé e dirigendosi a velocità inaudita nell’ufficio del
direttore.
Conquistare la fiducia del detenuto era il primo passo
verso una completa e totale guarigione.
Se fosse riuscita ad esplorare i cunicoli più stretti
del subconscio del sig. Napiel, era certa che quest’ultimo ne avrebbe tratto
solo beneficio.
La serratura della porta era leggermente arrugginita.
Fu facile scassinarla.
Prese un paio di sigari, riposti accuratamente in una
scatola di legno in bella mostra sulla massiccia scrivania in massello e un
accendino, tornando velocemente indietro.
«Mr. J, sono tornata! -esordì- ho preso quello che mi
ha chiesto…»
«È un piacere fare affari con lei, dottoressa Quinzel!
Ha portato anche un accendino?» chiese con voce solenne.
Esitò un istante, rispondendo subito dopo con un filo
di preoccupazione nella voce «Si, sto aprendo la finestra del cibo, le passo
tutto da lì».
E così fece. Aprì la finestrella della cella con uno
scatto e, tremando, con le sue esili mani affidò il bottino al detenuto che le
sorrise ammiccando.
In fondo cosa
avrebbe mai potuto fare un assassino pluriomicida con un misero accendino?
Il sig. Arkham aveva ragione.
Stava cadendo in balìa del clown.
Lei pensava di
curarlo,
invece si stava
innamorando di lui.
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