Aforisma del giorno:
Se
non ci fosse chi guarda i personaggi che amiamo
con occhi diversi dai nostri
avremmo fan fiction tutte uguali.
SUNDAY
For those
who wake
With a blind
headache
Who must be
still
Who will sit
and wait
For Sunday, to be Monday
Sia
- Sunday
L’amore di una figlia per il
proprio padre è una forza indistruttibile anche se col tempo un insistente
stillicidio di delusioni può finire per corromperlo.
*
Il primo sentimento che ho
provato per mio padre fu di incontenibile fierezza, una sorta di riconoscenza
per il fatto che proprio quell’uomo fosse mio padre: era il più bello ai miei
occhi, il più intelligente di tutti i papà. Sapeva un sacco di cose che non
erano scritte sui libri. Imparava a memoria formule guardate per pochi secondi
che non entravano nello spazio di una lavagna e ad eseguire a mente computi
complicatissimi senza sbagliare un risultato. Era di quegli uomini burberi e
scostanti, intransigenti con se stessi più di quanto non lo fossero con gli
altri, un maestro severo ma straordinario che non lesinava le punizioni
all'occorrenza. Quello che riusciva a fare con la sua alchimia, poi, era un
qualcosa di tanto straordinario da sembrarmi una magia, al punto che la prima
volta in cui lui, così geloso dei suoi studi da non condividerli neppure con la
donna che amava, mi permise di entrare nel suo laboratorio ne fui tanto
emozionata che sulla soglia mi misi a tremare.
Ricordo l’orgoglio con cui le
prime volte mi aggrappavo a un lembo dei suoi pantaloni, la sensazione di
sentirmi piccola piccola, il timore reverenziale con cui presi in mano il mio
primo testo di studio: ancora oggi nell’alzare gli occhi da un libro ho vivida
in mente della sua schiena curva sulla scrivania alla luce tremula di una
candela. A volte, poi, entrando in una stanza avverto l’odore di zolfo che
impregnava casa mia.
Anni dopo, all’Accademia, nel
vedere quei padri che salutavano i nuovi arrivi con le solite, banali, patetiche
parole d’incoraggiamento e orgoglio, avrei dato qualsiasi cosa per un abbraccio.
Un lunedì d’inverno come tanti
altri, mi pare che avessi non più di una decina d’anni, me ne stavo seduta da
sola sul bordo del laghetto ghiacciato, in disparte. Seduta sulla neve morbida
con le braccia strette attorno alle cosce e il mento poggiato sulle ginocchia
osservavo giocare gli altri bambini, in piccoli gruppi o coi loro genitori,
senza nessuna emozione particolare. Non morivo dalla voglia di andare lì con
loro e non desideravo neppure che i miei genitori venissero a farmi compagnia:
mio padre era ormai assorbito dalle sue ricerche in modo tanto maniacale da
saltare spesso e volentieri i pasti, e mia madre neanche si alzava dal letto.
L’ultimo dei loro problemi era occuparsi di me, e lo capivo.
Erano noiose, quelle persone.
Coi loro bei vestiti e le loro risate spensierate, con le loro corse sul
ghiaccio e le battaglie a palle di neve degne di un romanzetto, erano come quei
film che non ti emozionano come avresti pensato quando hai deciso di andare al
cinema ma che resti a vedere fino alla fine per non perdere i soldi del
biglietto.
Poi cominciò a soffiare il
vento freddo del pomeriggio inoltrato.
E io, col sedere immerso nella
neve e con addosso solo una lunga sciarpa a farmi da cappotto, ebbi freddo. La
gente cominciava a tornare a casa, io invece non ne avevo voglia. Fu allora che,
nel poggiare una mano per terra alla ricerca di una posizione che mi permettesse
di rannicchiarmi di più, notai che la neve era abbastanza compatta da far
restare l’impronta nitida del mio palmo.
Come inchiostro sulla carta.
Come gesso sul pavimento dello
studio di papà.
In fondo l’avevo visto fare
tante volte, non mi pareva complicato.
Tracciai il cerchio alchemico
e feci tutto esattamente come l’avevo visto fare mille volte nello studio del
seminterrato: ma evidentemente non ero stata abbastanza attenta, o una ciocca
dei capelli di papà doveva aver coperto un passaggio fondamentale, perché non so
cosa successe esattamente, ma quella spirale di fiamme che si sprigionò contro
di me non era davvero prevista. Caddi all’indietro con uno strillo acuto e
atterrito, mentre questa piroettò tra i rami del grosso albero che mi
sovrastava, scivolò sopra di me con l’eleganza di una pattinatrice, per poi
spegnersi in uno sbuffo di niente. E io rimasi immobile lì dove mi trovavo,
tremula e ansante, immersa nella neve a faccia in su, con uno strano odore di
bruciato nelle narici anche se non sentivo dolore, ad osservare il cielo
pervinca della sera. Ero rimasta così sconvolta dall’accaduto che, nel disperato
tentativo di rimuoverne il ricordo il prima possibile, avevo cercato di
concentrare i pensieri solo sul fatto che “pervinca” fosse una parola molto
stupida. Non mi accorsi dell’arrivo di papà finché non mi sentii sollevare
brutalmente per le braccia e rimettere in piedi. Me lo ritrovai davanti senza
cappotto, con un fiatone che lo scuoteva tutto, e non resistetti.
Gli gettai le braccia al collo
e cominciai a piangere.
Per qualche anno fui convinta
che il ricordo di quel giorno mi fosse rimasto tanto impresso nella memoria per
via della paura, e della sonora e mortificante sculacciata che presi arrivata a
casa. La prima e l’unica della mia vita, credo. Poi in seguito capii che quella
fu l’unica volta in cui lo vidi comportarsi da genitore.
Eppure a dispetto di tutto un
padre rimane il primo amore di una figlia, e io ho sempre preso le sue difese:
quando le pareti della nostra casa si sono riempite di crepe e la notte rimanevo
sveglia perché i tarli mi stavano mangiando il letto. Quando le visite di
parenti e amici si sono fatte via via meno frequenti finché l’unico a bussare
alla nostra porta fu il signor Mustang. Quando vidi gli occhi di mia madre
spegnersi invocando il suo nome, mentre lui portava a compimento i suoi studi.
Crebbi, mi feci donna, ma anche quando con l’età della ragione fu chiaro a me e
al signor Mustang che il “Maestro Hawkeye” fosse una persona da cui avrei fatto
meglio a tenermi alla larga, non riuscivo ancora a smettere di volergli bene.
Dio,
per odiarlo non sarebbero bastate tutte le prove del mondo.
Neppure la notte in cui mi
trascinò giù dal letto e, con gli occhi smunti e tirati all’indietro che gli
brillavano di follia, mi convinse a diventare parte della sua alchimia. - Ora
sei parte di me… - mi aveva detto alla fine asciugandomi le lacrime dagli occhi
con una carezza affettuosa.
E io avevo pianto più forte.
Per tutto quel tempo non era
bastato essere sua figlia.
*
Il padre è il primo esemplare
di uomo con cui una donna interagisce.
Ma se l’esemplare è
danneggiato o imperfetto si viene rimborsate in qualche maniera?
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