Letteralmente
Salve
a tutti! Accidenti, è passato tanto di quel tempo che quando ho
aperto la pagina autore per caricare il testo ho dovuto soffiare via le
ragnatele.
Questa storia è
principalmente un esperimento sociologico(?), perché è
una traduzione. No, no, state calmi, non ho dimenticato l'avviso,
è la traduzione di una mia storia fatta da me medesima (nessun problema di copyright, quindi, non penso di farmi causa da sola).
La storia originale è in
inglese ed è pubblicata su Ao3 (Archive of our own, per coloro
che non sono del giro); se siete interessati vi raccomando di leggerla
in originale, e potete farlo qui: Literally Speaking
Vi lascio i dati tecnici(?), ci rivediamo al fondo per le note (sì, ci sono le note)
Titolo: Letteralmente
Autore: Lady_Firiel
Fandom: Tennis no Oujisama | Prince of Tennis
Personaggi: Atobe Keigo, Tezuka Kunimitsu
Pairing: Atobe/Tezuka
Avvertimenti: shounen-ai/yaoi (nulla di esplicito); pessime frasi da rimorchio (non usatele a casa se non volete soffrire: non funzionano)
Letteralmente
Atobe si staccò dal muro al quale era appoggiato e sorrise malizioso al ragazzo che gli veniva incontro.
Avvolto in un lungo
cappotto beige, Tezuka Kunimistu camminava lentamente verso il proprio
condominio; quando fu abbastanza vicino accolse l’altro con tono
gentile e un breve cenno del capo.
«Sei in ritardo, Tezuka» si lamentò Atobe, in quello che doveva essere il suo modo di salutare.
«L’autobus
è rimasto bloccato nel traffico, non potevo fare
granché» rispose Tezuka aprendo il portone del complesso.
«Mpf, se solo mi permettessi di accompagnarti…»
«Non faremo questo discorso ancora una volta, Atobe. Ti ho già detto che non mi serve un autista»
Il biondo mise il broncio e seguì il suo amico per le scale.
In realtà loro non erano proprio solo amici,
come se essere considerato uno degli amici di Tezuka non fosse
già di per sé una gran cosa, considerato quanto fossero
diversi.
Doveva essere iniziato
tutto con quel match durante l’ultimo anno delle medie. Atobe
aveva sempre considerato Tezuka come un suo pari e un suo rivale, una
persona da ammirare e al tempo stesso da surclassare. Quando
l’ammirazione fosse diventata qualcosa di più,
però, non avrebbe saputo dirlo; onestamente, in quel momento
neppure gli importava, era solo felice che Tezuka provasse le stesse
cose.
Uscivano assieme da quasi nove mesi, da dopo il diploma, e funzionavano piuttosto bene.
Entrambi frequentavano
l’Università di Tokyo e giocavano nella squadra di tennis
della scuola (e chi avrebbe mai detto che un giorno avrebbero giocato
nella stessa squadra), ma nessuno di loro pensava di diventare un
professionista: Atobe aveva un impero finanziario da ereditare (e non
vedeva l’ora di essere un Imperatore anziché un semplice Re)
mentre Tezuka era semplicemente giunto alla conclusione che il tennis
non sarebbe durato per sempre; raggiunta l’età di
ritirarsi avrebbe avuto i soldi, ma cos’altro? Certo non una
famiglia, non con tutti i viaggi all’estero. E magari neppure
degli amici, l’agenda troppo piena per trovare tempo da dedicare
loro. Se ad una vita di fama doveva associarsi una vita di
solitudine allora non ne voleva sapere. Il tennis andava praticato
soprattutto per divertimento, dopo tutto.
Raggiunsero il terzo piano
(«Perché non usiamo l’ascensore ogni tanto?»
«Salire le scale è un buon allenamento» «Sei
troppo serio Tezuka») e si fermarono davanti alla porta.
Atobe squadrò il suo
compagno dalla testa ai piedi e notò un rigonfiamento in una
delle sue tasche. Ora, non che potesse essere scambiato per tutto un altro tipo
di rigonfiamento, ma era passato un po’ di tempo
dall’ultima volta in cui avevano avuto rapporti e pensò
che un intero weekend trascorso assieme da soli avrebbe offerto un discreto numero di occasioni per entrare in intimità.
Ma lui era un uomo di buone
maniere, quindi perché andare brutalmente al sodo quando avrebbe
potuto girare elegantemente attorno alla questione con raffinate
allusioni?
«Ehi Tezuka»
disse sogghignando «è una pallina da tennis quella che hai
in tasca o sei semplicemente felice di vedermi?»
Tezuka si voltò a guardarlo e sbatté le palpebre con aria confusa.
«Veramente queste sono solo le mie chiavi» rispose, facendo scivolare la mano sinistra nella tasca per estrarle.
“Non l’ha capita, mm?”
pensò Atobe mentre lo guardava armeggiare con le chiavi prima
per qualche istante prima di trovare quella giusta e infilarla nella
serratura.
«Sai, io dentro di te
ci starei perfettamente come una chiave nella sua serratura»
provò ancora, con un riferimento migliore, che Tezuka proprio
non avrebbe potuto non cogliere.
«Stai dicendo di
nuovo cose senza senso» fu la risposta e sebbene il suo
interlocutore gli stesse dando la schiena poteva quasi vedere con
chiarezza le sue sopracciglia arcuarsi con fare scettico mentre apriva
la porta dell’appartamento.
“Niente da fare, eh? Non importa, troverò qualcos’altro”
Atobe sorrise compiaciuto, seguendo l’altro all’interno. Se
si trattava di una sfida chi era lui per tirarsi indietro? Avrebbe
tentato e ne sarebbe uscito vincitore, com’era giusto che fosse.
Si tolsero le scarpe e i
cappotti, che Tezuka provvide ad appendere mentre il suo ospite
borbottava un «Permesso» più dovuto
all’abitudine che ad un reale interesse.
Si diressero in camera da
letto senza parlare finché il padrone di casa non si
voltò per domandare all’altro perché lo stesse
seguendo. Atobe fece spallucce, qualcosa che faceva solo quando si
trovavano soli, a dimostrazione di quanto a suo agio si trovasse: gli
era sempre stato detto che “fare spallucce” era poco
elegante, ma sapeva con certezza che all’altro non importava di
certo.
«Che dovrei fare da solo in soggiorno?»
Tezuka dovette ritenerla
un’osservazione legittima perché si limitò a
borbottare qualcosa prima di entrare nella stanza. Andò verso
l’armadio per prendere degli abiti puliti, poi si girò
verso il letto, sul quale il suo amico si era già seduto, per
domandare se ne servissero anche a lui.
«Sono a posto, grazie»
L’ex capitano della
Seigaku annuì brevemente e iniziò a svestirsi,
apparentemente ignaro dello sguardo affamato del suo compagno
«Sai Tezuka»
disse una voce roca e profonda «vorrei essere una delle tue
gambe, così potrei entrarti nei pantaloni»
Tezuka smise di sbottonare i jeans per fissare i profondi occhi blu di Atobe.
«I miei pantaloni non
hanno nulla di speciale. Non capisco il senso di questo tuo
desiderio» rispose, prendendo gli abiti puliti e dirigendosi
verso il bagno. «Vado a fare una doccia, non ci vorrà
molto»
Atobe arcuò entrambe le sopracciglia: così era proprio facile.
«Bravo, datti una
bella pulita perché le cose potrebbero diventare parecchio
sporche…» suggerì abbassando il tono di
alcune ottave e lasciando la frase vagamente in sospeso.
Il padrone di casa non sembrò entusiasta.
«Atobe» lo
rimproverò, rivolgendogli al contempo uno sguardo severo
«gradirei che evitassi di creare scompiglio nel mio appartamento
mentre sei qui» concluse prima di lasciare definitivamente la
stanza.
Il biondo si lasciò
cadere sul materasso con un sospiro di frustrazione. Si stava rivelando
un’impresa più ardua di uno dei loro incontri di tennis.
Si concentrò sul soffitto, immerso nei suoi pensieri.
Era un uomo affascinante e di buone maniere, ricco, un fantastico giocatore di tennis e insomma, era un partito dannatamente buono, che problema aveva Tezuka.
Pensava fossero concordi
nell’avere una relazione sentimentale e fisica, quindi
perché non coglieva le sue allusioni? Possibile che non lo
trovasse più attraente?
«Impossibile» concluse ad alta voce.
«Cosa è
impossibile?» fu l’improvvisa domanda che lo fece
sobbalzare: assorto completamente nei suoi pensieri non aveva
realizzato che l’acqua aveva smesso di scorrere e che il padrone
di casa era riapparso, pulito e vestito di tutto punto.
«Nulla» rispose mettendosi a sedere «stavo solo pensando»
Tezuka non domandò altro; prese la borsa ed estrasse i compiti. Ciò diede al suo ospite un’altra idea.
«Sai, se tu fossi uno dei miei compiti ti sbatterei sulla scrivania e ti farei per tutta la notte»
Il moro gli rivolse uno sguardo di disapprovazione.
«Dovresti essere
più rispettoso verso i compiti. Sono pensati per il nostro
miglioramento, non c’è davvero bisogno di trattarli con
questa brutalità. Inoltre lavorare tutta la notte e rovinare il
proprio bioritmo non fa bene alla salute» disse.
Atobe ricadde sul letto con un lamento frustrato; figuriamoci se Tezuka non doveva preoccuparsi della salute dei compiti.
«Stai dicendo cose
assurde da quando ci siamo incontrati, stai bene?» gli
domandò il padrone di casa, preoccupato per il suo comportamento
insolito.
Sospirò, senza muoversi di un millimetro dalla sua posizione.
«Sì, tranquillo, sto benissimo, grazie»
Tezuka non sembrò
convinto da quella risposta ma decise di lasciar perdere: se si stava
comportando in quel modo doveva avere le sue buone ragioni.
Dal momento che il suo
ospite non sembrava avere intenzione di alzarsi dal letto decise di
dedicarsi ai suoi compiti, così sedette alla scrivania e
iniziò a leggere attentamente.
Atobe girò la testa
per fiassargli la schiena, dritta contro lo schienale. Persino le sue
spalle sembravano un po’ troppo rigide.
“Ma si rilasserà ogni tanto? È davvero troppo serio” pensò.
Quelle spalle, però. E, diamine, quella schiena.
Atobe liberò un
sospiro pieno di desiderio; oh, quanto avrebbe voluto far scivolare le
sue mani su quelle spalle, accarezzando la pelle, per poi farle
scorrere su e giù lungo la sua schiena sedendogli in grembo e
guarandolo in quei suoi occhi marroni e buon dio la cosa si stava scaldando.
L’immagine mentale però gli fornì una nuova idea.
«Ehi Tezuka»
disse, ancora sdraiato sul letto con il viso rivolto alla scrivania
«Sei per caso un cavallo? Perché muoio dalla voglia di
montarti»
Il moro posò i fogli e si voltò a fissarlo.
«Hai sbattuto la
testa? O forse hai bisogno di una visita oculistica perché non
vedo proprio in che modo potrei somigliare ad un cavallo. A meno che tu
non abbia una cavallo con gli occhiali, si intende»
Il biondo arcuò un sopracciglio: voleva essere una battuta?
«Mi prendi in giro?»
«Facevo solo una constatazione» disse, tornando al suo lavoro.
Atobe si rimise a fissare il soffitto, cercando di pensare a qualcosa di più efficace.
Dopo qualche minuto
trascorso senza nessuna buona idea si voltò ancora una volta
verso il suo compagno e lo osservò sedere rigidamente sulla
propria sedia. Si conterò sui suoi capelli, castano scuro e
apparentemente spettinati, così adorabili, non che
l’avrebbe mai ammesso ad alta voce; il modo in cui solleticavano
appena la base del collo era affascinante. Quel collo era affascinante, sexy, così eccitante e porca miseria le cose si stavano scaldando di nuovo. Era tutta colpa sua, quell’uomo lo mandava letteralmente a fuoco.
I suoi occhi si spalancarono: quella era buona.
«Ehi Tezuka» lo
chiamò, mettendosi a sedere «per caso hai la febbre o sei
sempre così bollente?»
L’altro non si mosse neanche.
«Ti assicuro che la
mia temperatura corporea è come dovrebbe essere, ma apprezzo
l’interessamento» rispose; poi i suoi occhi scivolarono
sull’orologio all’angolo.
«Oh, è
già così tardi?» constatò. Erano quasi le
sette e mezza. Si alzò in piedi, rivolgendosi al suo ospite:
«Cosa vorresti per cena? Non ti aspettare nulla di troppo
sofisticato»
Atobe sorrise sornione.
«Posso avere te per cena? Perché mi sembri proprio un gran bel pezzo di carne»
Tezuka si sistemò gli occhiali, impassibile.
«Quello sarebbe cannibalismo, Atobe. Ma se vuoi della carne posso farti qualcosa di simile ad una bistecca»
Il biondo sospirò, sconfitto.
«Non ti preoccupare Tezuka, cucina quello che vuoi, purché sia buona mangerò qualsiasi cosa»
Il padrone di casa annuì e andò in cucina a verificare cosa ci fosse nel frigo.
«Ti va bene del
curry?» domandò al suo ospite quando lo vide entrare nella
stanza «Non mi è rimasto molto in frigo, domani dovremmo
fare della spesa se vogliamo mangiare qualcosa di decente»
«Va benissimo»
rispose, poggiandosi al bancone con le braccia incrociate.
«C’è qualche cosa che posso fare per aiutarti? Mi
sento in vena di usare le mie maestose abilità per la gente
comune» aggiunse con un sorriso compiaciuto.
«Che onore. Puoi impostare il cuociriso allora?»
Il biondo corrugò le sopracciglia.
«Ohi, Tezuka, non
starai sottovalutando le mie abilità? Ahn?» disse,
lasciando che la stizza riportasse a galla vecchie abitudini
espressive*.
«Preferiresti tagliare le verdure?»
Contemplò l’idea per qualche istante prima di decidere che sarebbe stato troppo rischioso per le sue dita.
«Imposterò il cuociriso allora»
Il moro annuì e
iniziò a preparare gli ingredienti per il curry di pollo mentre
il suo compagno cercava di capire come funzionasse quell’affare.
Non poteva essere
così difficile, no? La gente comune lo faceva continuamente, non
era possibile che qualcuno come lui non fosse in grado di-
«Devi aggiungere
dell’acqua, poi metti il riso, chiudi e imposti il timer e quindi
lo fai partire» gli spiegò l’altro.
«Lo sapevo» borbottò, seguendo le istruzioni ricevute.
Quando ebbe finito di
impostare il cuociriso si mise a fissare Tezuka con attenzione,
incuriosito e ammirato dalla sua abilità nell’affettare
(non che fosse chissà cosa, ma non era abituato a vedere cose
del genere).
Quando arrivò alle cipolle e alcune lacrime scivolarono dai suoi occhi Atobe si preoccupò.
«Ohi Tezuka, stai bene? Ti sei tagliato?»
«Sto bene Atobe, è normale piangere affettando cipolle»
«Davvero?» domandò, sorpreso.
Avrebbe giurato di vedere, e sentire, l’altro trattenere una risata.
«Stai ridendo di me?» chiese, vagamente infastidito.
«Non lo farei mai»
Decise di lasciar correre e
continuare con la sua osservazione, muovendosi di tanto in tanto quando
gli veniva richiesto di fare qualcosa («Potresti apparecchiare la
tavola?» «Certo che posso… Ma i piatti dove
sono?» «In quella credenza lagg-… Ti sembrano piatti
quelli?»).
Quando tutto fu pronto si
accomodarono e mangiarono, parlando del più e del meno; quando
ebbero terminato Atobe ringraziò il suo compagno per il cibo.
«Com’era?» chiese Tezuka, alzandosi per raccogliere i piatti da mettere nel lavandino.
«La cena era
deliziosa» rispose. «E sai cos’altro sarebbe
delizioso? Tu, sudato e ansimante» aggiunse con tono
seducente.
Il moro posò i piatti e si voltò verso di lui.
«Vuoi dire come dopo
un allenamento? Cosa c’è di delizioso, di solito sono
sudato, appiccicoso e probabilmente puzzo. Che ci trovi di
buono?» domandò, perplesso.
Ok, adesso ne aveva avuto abbastanza.
Si alzò in piedi a sua volta e sbatté i palmi delle mani sul tavolo.
«Che cavolo
Kunimitsu!» disse, così frustrato da passare al nome
proprio «È tutta la sera che cerco di fartelo capire ma tu
niente! Non cogli nessuno dei miei segnali! Perché devi essere
sempre così serio? Cavolo, sono così frustrato adesso. Fottiti, Tezuka» concluse prima di sedersi.
Dall’altra parte del tavolo Tezuka arrossì.
«Oh» disse,
girandosi appena nel tentativo di nascondere il rossore sulle sue
guance. «Se era questo che avevi in mente potevi dirlo
subito»
«Cosa?»
Il rossore si fece più inteso.
«Ha-hai detto» balbettò «“fottiti”. Pensavo che intendessi letteralmente…»
Atobe lo fissò incredulo.
«Tu interpreti tutto ciò che ti dico letteralmente?»
«Come altro dovrei interpretarlo?»
Sorrise compiaciuto. “È davvero troppo serio”.
«E va bene
allora» disse, alzandosi nuovamente «Dal momento che
è stata una tua idea facciamolo: vediamo di fotterti, Tezuka Kunimitsu».
*sebbene tutte le pick-up lines
siano studiate per funzionare in italiano ho comunque assunto che
parlassero in giapponese; dal momento che la storia è ambientata
quando i personaggi hanno all'incirca 20 anni ho ritenuto che Atobe
avesse quantomeno abbandonato il "-sama" del suo consueto "ore-sama" e
che l'essere sottovalutato da Tezuka abbia estratto quel po' di
arroganza necessaria a farglielo usare di nuovo. Lo so, è una
cosa contorta, perdonatemi, è una delle mie paranoie(?). Se
nulla di quanto ho appena detto ha per voi un senso va bene
così, mi spiace avervi fatto sprecare due minuti.
Detto questo vi saluto, cari lettori. Un giorno ci vedremo ancora, forse.
Critiche e commenti sono apprezzati come la mancetta natalizia~.
See you~!
Lady_Firiel
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