Le Chimere di Salomone

di BabaYagaIsBack
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"Frozen inside, without your touch
Without your love, darling
Only you are my life
Among the dead"  

-Bring me to life (Evanescence)


 

 Alexandria poggiò sul tavolo una tazza fumante, lasciandosi andare sulla sedia. Si sentiva dannatamente stanca, aveva bisogno di riposare dopo le lunghe ore di veglia, eppure l'eccitazione di essersi trovata davanti a Levi e di aver avuto le sue mani strette intorno al collo ancora le vibrava dentro, adrenalina pura che le si muoveva tra le vene - come una sorta di melodia rimasta per troppo tempo taciuta: la ballata del sangue, avrebbe potuto intitolarsi. Ed era al contempo dolce ed estenuante quella sensazione, anche se non si sarebbe mai permessa di confessarlo, in particolare perché non aveva idea da dove scaturisse quel pensiero. Era forse il brivido di aver saggiato il suo estro assassino? Oppure si trattava di altro? Faticava a capirlo anche dopo tutto quel tempo, ma come in altre occasioni non volle approfondire - c'erano altre questioni d'affrontare.

 
Sicuramente, il fatto che in passato suo fratello fosse stato tra i soldati più valorosi degli eserciti dimenticati, che avesse imparato a padroneggiare quasi tutte le armi bianche conosciute nei secoli e persino nello scontro corpo a corpo avesse dato filo da torcere a molti avversari lo rendeva una creatura ancora più affascinante di quanto già non fosse. Dalla sua figura si disperdeva una sorta di aura  impalpabile, eppure terribilmente evidente, che l'aveva sempre affascinata - a tal punto da sviluppare una sorta di perversione nel provare sulla propria pelle la sensazione di essere in balìa della sua potenza, costretta tra le spire di un essere all'apparenza invincibile. 


Nakhaš nella guerra ci era nato e morto, risorgendo e continuando a mietere vite come una sorta di Dio sceso in terra; nelle arterie gli scorreva – oltre al veleno del boa più minaccioso del Re - la furia dei condottieri e lei ne era ammaliata al pari di una bambina con il suo eroe. Sì, Alex era affascinata da lui, era stregata dal primo uomo che avesse mai osato sfidare le leggi di quel mondo per tornare al fianco del suo sovrano; vedeva in lui una scintilla che in sé sentiva essersi spenta da troppo tempo.

Deglutendo, la Chimera-Lupo bevve un lungo sorso della tisana che aveva preparato sia per sé sia per l'ospite, avvertendo sulla lingua il sapore dolce della pesca insieme alla nota pungente dell'ɛvɛn - una delle ultime, si ricordò avvertendo finalmente il gusto di qualcosa che non fosse aria. Dopo lunghissime settimane di astinenza riusciva finalmente a concedersi uno sgarro, ma soprattutto l'illusione di essere ancora umana. Già, perché quella cosetta rossa poco più grande di un chicco di ribes era l'unico oggetto che potesse sostituire le cure di Salomone. 


E lei aveva quasi terminato la propria scorta, ritrovandosi a centellinarne ogni uso.


Mandò giù l'intruglio rossastro sperando di ingerire anche quei pensieri, poi, quando fu certa di non sentire più la sensazione delle dita di lui premute sul collo e l'amarezza di una condanna fin troppo imminente, alzò lo sguardo sul proprio interlocutore.

Levi si slacciò la felpa, rivelando una t-shirt fin troppo aderente e la muscolatura ancora guizzante con cui l'aveva colta alla sprovvista, un dettaglio che Alexandria, notandolo, trovò quasi fastidioso. Se negli anni lei aveva smesso di prestare qualsiasi tipo di attenzione al suo aspetto, anche in vista del fatto che non aveva più nulla per cui combattere, lui aveva continuato a comportarsi come sempre: non doveva aver smesso un solo giorno di seguire le pratiche imparate durante il lunghissimo addestramento militare a Israele. E a differenza sua infatti, il corpo non aveva lasciato posto nemmeno a una curva.

«Allora, che ci fai qui akh?» glielo chiese senza preavviso, cercando ancora una volta di distrarsi dai pensieri poco proficui del momento e mettendo fine al silenzio che dal vicolo in centro li aveva seguiti fino a casa. Per tutto il tragitto Z'èv aveva volontariamente evitato qualsiasi tipo di chiacchiera, conscia di non sapere né come gestire le emozioni che le si agitavano dentro, né di cosa aspettarsi da quella visita inaspettata.  Inoltre, come nella sua vita precedente, aveva preferito tacere piuttosto che intavolare discorsi vuoti atti solo a mascherare le sue ansie, timori che ogni istante si erano fatti più grandi e meno logici e che, inesorabilmente, le fecero tornare alla mente sua madre. Più volte, durante la fanciullezza, quella donna le aveva rimproverato il fatto di non saper intrattenere i propri commensali, allontanando amicizie promettenti o possibili spasimanti, ma Alex aveva compreso i vantaggi di tale atteggiamento solo molti anni dopo, quando l'esigenza era diventata una questione di vitale importanza e Willhelmina le aveva quasi rotto un braccio nel tentativo di spiegarle il suo errore. 

L'Alexandria di quell'istante era il ricordo sbiadito della contessina Vàradi, una fanciulla che tutto aveva in mente tranne che morire e tornare in vita sotto altre spoglie. Quella mocciosa cocciuta era stata la secondogenita di un nobiluomo troppo incline al gioco d'azzardo, un tipo che l'aveva obbligata a sposarsi entro la fine del 1743 con un Duca austriaco di poco conto, il cui patrimonio avrebbe potuto risanare i vari debiti e restaurare il nome della famiglia - ma nessuno, a quei tempi, avrebbe mai pensato che un'imposizione del genere potesse condurla alla morte. 

Nakhaš la fissò di rimando per un tempo che le parve infinito, forse sovrapponendo l'immagine che aveva di fronte con quella di quasi trent'anni prima, cercando in tutti i modi di scorgervi qualcosa di diverso e sconosciuto. Doveva essersi aspettato tutt'altro dalla giovane donna che aveva davanti, eppure lei non aveva fatto altro che tenere i capelli più lunghi e smettere di tingersi - dopotutto non aveva più senso nascondere il grigio caldo della sua chioma, visto ciò che l'aspettava. E così, quasi deluso, si concesse un sospiro: «Se ti sforzassi di essere carina otterresti molto di più dalle persone, sai?» la riprese facendo una smorfia ironicamente scocciata e rievocando il commento che le sorelle erano solite farle quando tornavano a casa dopo le lunghe passeggiate in città.

Z'èv però non gradì affatto il commento e, tagliente, troncò quella stupida conversazione prima che potesse spingersi verso altri, dolorosi ricordi: «Le ragazze carine sono le prime a morire». 
Il silenzio che calò nella stanza subito dopo fu pregno di palpabile imbarazzo; quella che nella testa di Levi avrebbe dovuto essere una battuta innocua si era trasformata in una lama sottile, capace di punzecchiare i nervi ancora scoperti di una ragazza che non aveva mai realmente accettato la propria dipartita. E lei ne era conscia, terribilmente, così come era consapevole del fatto che il fratello non avrebbe mai osato ribattere - per quanto quel tipo potesse apparire ingenuo, spontaneo e alle volte tra le nuvole, forse persino un po' burlone, conservava in sé tutt'altra persona e, proprio quella, gli avrebbe impedito di aggiungere altro.  

«Ad ogni modo,» la padrona di casa puntò il proprio sguardo in quello di lui, studiandolo: «vuoi rispondermi?»  Le sarebbe piaciuto capire cosa frullasse nella mente millenaria di quell'uomo, accaparrarsi ogni suo pensiero per non dover soffrire l'attesa, ma sul viso dell'israelita Z'èv incontrò solo una maschera di divertimento che non pareva volerla aiutare. 
La cicatrice chiara che segnava lo zigomo di Levi si raggrinzì appena e il suo sguardo serpentino, fiero e al contempo indagatore, cercò di metterla a disagio insieme a quella smorfia ambigua - espressione che nel suo insieme le fece torcere lo stomaco.

Il Generale del Re era un'enigma su due gambe e lei non aveva ancora imparato a decifrare nessuna delle sue azioni, anche se lo desiderava con tutta se stessa.

«Quanti anni sono passati dalla morte di Salomone?» la domanda gli uscì di bocca con una strana nota di malizia, poi, lento, prese un sorso dall'intruglio che lei gli aveva porso senza però smettere di fissarla. Perché la stava scrutando a quel modo? E per quale perversa ragione doveva tirare in ballo una questione tanto delicata? Alexandria non ne aveva alcuna idea e, se avesse potuto, avrebbe preferito non farsela mai.
«Cosa c'entra akh? Sei venuto fin qui nella speranza di poter sfogare tutte le tue frustrazioni represse? Beh, se speri che pianga o chieda scusa, sappi che hai fatto un viaggio a vuoto» e appena quelle parole le uscirono di gola i ricordi provarono ad aggredirla, violenti come sempre, impietosi al cospetto di una peccatrice che non sapeva in che modo trovare la redenzione anelata. Un nome, solo un ammasso di lettere pronunciate dalla Chimera di fronte a lei e inesorabilmente il suo equilibrio emotivo aveva preso a vacillare, facendole alterare i connotati del viso e tradendo ciò che aveva appena affermato con tanta falsa sicurezza. 
La pelle alla base del setto prese a raggrinzirsi appena, le labbra le si assottigliarono in una linea scura e i canini si fecero affilati quanto lame, portandola a un passo dall'assumere un primo abbozzo della creatura che era realmente - e se davanti a lei non ci fosse stato il primo di loro a sperimentare tanto orrore, dubitava sarebbe rimasto impassibile.

Nakhaš però, a differenza di altri, non aveva mai osato distogliere lo sguardo dal suo viso, nemmeno una volta. L'aveva vista nelle condizioni peggiori, eppure nei suoi occhi non era passata altra scintilla se non quella della meraviglia. Lui guardava i suoi fratelli nel modo in cui si osservano le cose belle e, seppur Z'èv sapesse di non essere mai stata graziata con un simile dono, neppure nella vita umana, quel modo che Levi aveva di fare l'aveva rincuorata nei giorni in cui specchiarsi era apparsa come la cosa più meschina del mondo. 

E poi, in passato, le aveva detto di trovarla molto più affascinante in morte che in vita.

D'un tratto l'ospite spostò le proprie attenzione, quasi ricordandosi qualcosa e, mordendosi il labbro inferiore, prese a soppesare con una certa evidenza le parole da usare. 
«No, akhòt, non potrei mai desiderare qualcosa del genere, lo sai» ammise, indurendo lo sguardo sul vuoto, quasi a rimproverarla per aver anche solo pensato a una simile eventualità. E in effetti, se non in situazioni che avevano rasentato l'estremo, suo fratello non aveva mai osato né alzare la voce nei suoi confronti, né ferirla: con chi amava, Levi era buono come il pane.


«Ventisei anni».

La voce di Alexandria spezzò il silenzio solo dopo alcuni istanti, intenerendola a tal punto da farla sentire una sciocca. Già, perché rispondere a quella domanda equivaleva ad accettare le persecuzioni della memoria che tanto aveva cercato di sopprimere - peccato che, con il suo arrivo, Nakhaš avesse già allentato la sua resistenza a quelle continue vessazioni.

«Quanti corpi si possono cambiare in trecentododici mesi?» 


La Chimera-Lupo aggrottò le sopracciglia. Cosa si nascondeva dietro a quella sorta di inutile interrogatorio? Dove voleva arrivare? Si stavano rivangando argomenti la cui natura era più dolorosa e oscura di molti altri e non aveva idea del motivo per cui suo fratello volesse così tanto sfidare la sutura che si era malamente cucita sul cuore.
Strinse le mani in grembo, imponendosi di farsi vedere meno interessata di quanto in realtà non fosse: «Cosa stai insinuando Levi?» 

Lui sorrise, tornando a fissarla.

«E' vivo, Z'èv» esordì in un sibilo, leccandosi via dalle labbra il sapore di quelle parole: «Lui non ci ha mai lasciati» continuò, facendola improvvisamente irrigidire sulla sedia. Lo sguardo gli brillò in modo febbrile e il sorriso sul volto s'allargò quasi senza volerlo. L'euforia, al pari del veleno, gli stava intossicando il sangue e la mente - pensò la sorella. Il Generale doveva sentire l'eccitazione montare al solo pensiero di potersi ricongiungere con l'uomo che aveva considerato il proprio migliore amico, unico e vero fratello sia nella vita prima, sia in quella e la cosa gli stava ovviamente facendo perdere il lume della ragione.
La Chimera-lupo poteva avvertire la sua eccitazione persino dall'altro capo del tavolo, ma, al posto di condividerla, ne rimase impaurita. E se Levi fosse impazzito, durante quegli anni? Dopotutto si trattava pur sempre di una creatura millenaria a cui era stata tolta l'unica persona a cui fosse mai stato fedele, la solitudine poteva realmente aver leso la sua psiche. Ovviamente, non c'era solo quella convinzione a dargli tanta gioia. Il suo buonumore doveva essere dettato anche dal fatto che, finalmente, avesse trovato qualcuno a cui parlare di quella follia, una complice; in fin dei conti doveva aver cercato tutti e sei i fratelli, pur di rimettere insieme qualcosa andato distrutto, e il primo di loro che aveva trovato doveva essere stata lei - dubitava fortemente di poter essere la sua unica scelta.

Il Generale si sporse in avanti, trepidante. Lei lo avrebbe compreso, gli sarebbe stata accanto e, di ciò, ne era terribilmente certo, Alex poteva leggerglielo in viso; peccato che visti i trascorsi non era pronta a dar più fiducia a qualcuno che non fosse se stessa, anche se si trattava di Levi.

«Perché diavolo sei venuto, akh?» 
«Come?» il ragazzo batté le palpebre: «Alex... Salomone è vivo, lo capisci?» le sue braccia si allargarono quasi a dirle "guardami, non ti sto nascondendo nulla", eppure più istanti passavano, meno la pazienza di lei pareva essere temprata a sufficienza d'affrontare simili sciocchezze - perché non poteva trattarsi d'altro.

Davvero Levi aveva scordato ciò che era successo? Possibile che dopo tutto quel tempo la sua speranza fosse ancora così viva?

La contessa Varàdi ringhiò: «Salomone è morto, Nakhaš!» Dentro di lei il sangue aveva preso a ribollire. C'era qualcosa di crudele nella convinzione ottimista di quell'essere, una sorta di malignità sottile che la sorella non si sarebbe mai aspetta. Quelle parole le entrarono nella carne al pari di lame, lacerarono in lei ciò che aveva cercato di rinchiudere nelle profondità della propria mente: «E se tu lo avessi dimenticato, sono stata io a far sì che accadesse» sentenziò infine, alzandosi furibonda dalla sedia. 


Lei era l'origine del dolore che aveva spezzato la famiglia e lui, con quell'affermazione, glielo stava ricordando.
Era stata lei  a far sì che quei pazzi del Cultus Sanguinis  riuscissero a sparare un colpo dritto in mezzo al petto di Salomone. Lei che aveva dovuto guardarlo precipitare nel vuoto mentre il suo sangue veniva sparso sulle frange dell'erba.


Era per colpa di Alexandria Orsòlya Varàdi se l'impatto tra il proiettile e il torace del Re era stato così forte e imprevisto da spostarlo fino al ciglio della scogliera, lì dove aveva perso definitivamente l'equilibrio ed era caduto in mare. Il suo corpo, ricordava ancora, era stato inghiottito dall'acqua con un suono strano, come un sasso buttato in un pozzo - e nonostante gli anni continuava a sentire quel suono vibrare con estrema nitidezza fino ai suoi timpani. Rimembrava ancora di essersi buttata tra le onde subito dopo di lui, in fin dei conti non aveva nemmeno dovuto pensare a cosa fosse più importante tra la sua vita o quella di lui.  Aveva seguito il suo Signore oltre il limitare del terreno senza concedersi alcuna esitazione, esattamente come aveva fatto in ogni istante dal momento in cui le aveva donato quella nuova esistenza. Per Salomone avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, anche rinunciare a tutto ciò che aveva sempre desiderato. Quello che Z'èv provava per l'antico Re degli Ebrei non era semplice gratitudine, ma totale lealtà, inimmaginabile fiducia, asserzione e annullamento totale.

Alex aveva cercato il suo Sovrano per interminabili e terrificanti minuti, annaspando in quell'ambiente che tutto era, tranne che consono a un lupo come lei, eppure non ottenne nulla se non tossiti e occhi brucianti. Persino Zenas si era tuffato per cercare l'uomo a cui era fedele, ma alla fine, dopo un tempo che era parso infinito, aveva costretto la ragazza fuori dall'acqua prima che potesse annegare anche lei.

«Domani mattina ti voglio fuori da qui, akh».
 Il suo fu un ordine, il primo che si fosse mai permessa di rivolgere a una creatura nettamente superiore a lei e, con la stessa convinzione con cui si rivolse al fratello, cercò subito dopo di scacciare quei terribili ricordi volgendo lo sguardo altrove. Non li voleva con sé, né lui né loro; ciò che desiderava era solo scordare quella colpa, dimenticarsi della presenza opprimente della spada di Damocle che aveva fatto calare sulle teste dell'unica famiglia che le era rimasta, condannandone tutti i membri. E se Levi credeva di poterla persuadere a fingere che nulla fosse realmente accaduto si sbagliava di grosso. Era inutile riempirsi la testa d'illusioni, non c'era più modo di riportare indietro ciò che avevano perduto, soprattutto se quel qualcosa - o meglio qualcuno - era l'unica persona in grado di aprire i cancelli dell'aldilà.

Nakhaš si alzò a sua volta, provando goffamente ad afferrarle una mano: «Ti giuro che è la verità, akoth» ancora una volta si morse il labbro, esitando: «Io... io l'ho visto, Z'èv! O meglio... l'ho sentito».

Silenzio.
Nella stanza si poté udire solo il respiro affannato del Generale che, come una litania, attirò nuovamente a sé lo sguardo della giovane.

Con circospezione lei scrutò i lineamenti dell'interlocutore, soffermandosi sulle labbra che avevano pronunciato quelle parole. Giurare, che termine effimero, pensò. Di quei tempi un giuramento aveva lo stesso valore della polvere, le parole erano solo parole, non valevano più quanto l'onore o qualsivoglia morale di un uomo. L'avvento del ventunesimo secolo si era portato via tutto ciò in cui lei e i fratelli avevano sempre creduto, dando spazio ad una superficialità quasi nauseabonda. Eppure, mentre pensava a quanto effimero fosse il significato di un tale verbo, si ricordò che era stato Levi a dirlo, a giurare. Lui che era nato in un'epoca in cui una promessa valeva quanto la vita, che una volta data la propria parola si batteva fino allo stremo per onorarla. Lui non usava certe frasi solo per gioco, ci credeva veramente.

E se fosse stato davvero, vero? 
Se ciò che suo fratello stava dicendo fosse stato reale? Lei cosa avrebbe fatto? 

Tutto. Avrebbe persino lacerato il mondo dall'interno, pur di riavere Salomone.

«Spiegami» incitò tenendosi lontana, pronta a reagire in caso si fosse trattato dell'ennesima cavolata, eppure sentendo le viscere stringersi e la cicatrice sulla bocca dello stomaco dolere come se avesse vita propria, richiamata improvvisamente dalla voce di colui che gliel'aveva procurata. 
Lo sguardo di Levi brillò, ma l'espressione rimase quanto più seria possibile, preannunciando un discorso tutt'altro che semplice da condividere - forse nemmeno lui era così certo della propria memoria, forse sapeva di non avere alcuna prova a confutare il suo racconto.
«E' successo qualche mese fa» iniziò poi, schiarendosi la voce: «Stavo passeggiando nei pressi di Ponte Carlo, in direzione della città vecchia. Come sempre il percorso pullulava di turisti e gentaglia varia; la conosci anche tu, Praga» Z'év annuì. Sì, la conosceva abbastanza bene da rammentare quei dettagli, dopotutto era sempre stata uno sbocco commerciale utile a ottenere informazioni e scambiare oggetti dalla dubbia provenienza e, sin dal giorno in cui vi aveva messo piede per la prima volta, sapeva quanto copiosa fosse l'affluenza da tutta Europa. 
Il fratello si bagnò le labbra: «Insomma, ero appena sceso dall'autobus e mi stavo incamminando verso casa quando... qualcosa mi ha fatto fermare» fece un breve pausa, afferrando tra i pensieri quello giusto: «Ero lì, fermo come un imbecille sul limitare del Ponte e sentivo il bisogno di voltarmi. Era qualcosa di trascendentale, una sorta di invocazione... e ho risposto. Alex... io non so cosa mi abbia spinto a farlo, mi sentivo come in trance, non avevo più volontà sul corpo e più secondi passavano più la situazione peggiorava e-»
«Ti eri drogato per caso?» gli domandò lei sperando di trovare una vera spiegazione a quella storia. 
Levi ringhiò. Nonostante fosse un verso completamente estraneo alle serpi provò a minacciarla nell'unico modo che un lupo potesse considerare pericolo. 

«Ascoltami, ti prego. Alex, mi sono ritrovato in mezzo a una marmaglia di studentelli del cazzo, capisci? E la cicatrice...» con una mano Levi toccò il pettorale destro, lì dove nella carne era inciso il simbolo di Salomone, il tributo pagato per riavere indietro la sua anima: «il marchio ha pulsato. Lo ha fatto con una forza pari solo a quella del momento in cui sono stato riportato in vita. Non capivo. Il mio corpo stava reagendo a qualcosa che non aveva forma e le mie mani tentavano di agguantare qualcosa a cui non sapevo dare un nome... ma io lo sentivo, percepivo il suo richiamo! E poi» fece un'altra pausa e subito dopo Z'èv  lo vide mettersi a frugare nelle tasche del cappotto al pari di un forsennato. Ci volle qualche istante, poi Nakhaš tirò fuori una targhetta grande quanto un cellulare e gliela porse, costringendola ad avvicinarsi.
 «E' lui, Alexandria. Non può essere altrimenti».
Quando il suo sguardo tornò sul viso del fratello, alla ricerca di una spiegazione più approfondita, ciò che vi scorse fu una supplica tale da farla tremare: Levi le stava chiedendo un ultimo atto di fede.


 

ẖayá̇h : creatura/creature
Akh : fratello
Akhòt sorella
Ponte Carlo : ponte che collega Praga vecchia con la città nuova
ɛvɛn : pietra - nel testo il termine è utilizzato per indicare un elemento derivato dall'alchimia e in grado di sanare il corpo delle Chimere.

(il testo potrebbe subire modifiche o correzioni lungo la stesura. I dati storici non sempre rispecchiano la realtà, ma vengono riadattati per far funzionare meglio la narrazione.)

 

 
 




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