QUESTA
STORIA NON E' DEGNA DI ESSERE RACCONTATA
Penso
di dover chiarire alcune cose, prima di lasciarvi alla lettura (?) di
questo delirio: questo testo nasce come sfogo. Ero molto, molto, molto
arrabbiata e le parole sono uscire senza che me ne accorgessi (qualcosa
del genere). E' un po' particolare - molto particolare - e dubito che a
voi possa piacere. Non rispetta i canoni delle solite fanfiction,
nè
desiderava assomigliarci. E', come detto prima, delirante, ma
soprattutto
stracolma di allusioni critiche nei confronti di soggetti vari ed
eventuali, nonchè della società stessa (almeno,
alcuni aspetti), con qualche accento ironico qua e là. Spero
che possiate apprezzarlo almeno in parte, e... ettendo commenti!
Quella
che mi presto a raccontarvi, cari lettori, non è una storia,
benchè possa sembrarlo.
Uno squarcio
di saggistica che potrebbe essere un insulto alla definizione stessa.
E non voglio
far morale, giammai! In tanti hanno provato a buttare dentro i loro
testi butterati di cazzate qualche filastrocca melensa su cosa
è giusto e cosa non lo è, finendo solo col
trasmettere idee sbagliate.
Sì,
la mia storia - passatemi tale modesto nomignolo - è
stracolma di sangue, zampilla da ogni spazio vuoto fra una parola e
l'altra, nonostante voi non possiate vederlo.
Tra le righe
vi sono altre parole scritte in inchiostro simpatico, stronzate su
qualche pover uomo che s'è perso per il mondo, scherzetti
grotteschi di non so quale divinità che gioca con le sue
pedine di carne e sangue e amori dal finale drammatico che non meritano
un briciolo della mia labile memoria.
A volte
capita che il sopracitato protagonista di questa storia inesistente
penetri, come un lombrico nel terreno, nella trama assurda dei miei
innominabili pensieri; in ogni caso, può andare in fondo
quanto vuole: non troverà nulla.
Se - e dico
se - una qualche tragica storia d'amore s'apprestasse a trafiggere il
vostro sensibile ego, ebbene, non troverete che sputi sul mondo, qui
dentro.
Tuttavia, mi
piacerebbe parlare di sangue e morte, perchè evidentemente
è tutto qui quello che la mie fiacche dita sono in grado di
sputare fuori, come sentenze che nessuno ha voglia di ascoltare -
quante cazzate -.
Ormai se ne
sono dette di tutti i colori, ma ecco a voi un po' di morte che vi si
attorciglia amabilmente intorno alle budella: potrei raccontarvi della
tragica fine di Didone, ma è stato detto e ridetto;
nonostante ciò potrei modificarla, cambiare qualche nome,
inserire dettagli cruenti ed ecco qui: ciò che la gente
vuole.
Raccontare
ciò che è stato già detto non
è così difficile, dipende tutto dall'ignoranza di
chi ascolta - o no?-; mi duole ammetterlo, è possibile
plasmare a nostro piacere intere opere epiche senza che nessuno se ne
accorga.
Io,
personalmente, potrei definirmi socratica in questo: affermo di non
sapere; ebbene, non è poi un'affermazione del tutto
infondata, ma mi crogiolo nel mio buco nero di conoscenze mancate,
pensando a quanto il resto del mondo ci stia sprofondando
più di me.
A conti
fatti, ciò che ho detto fino ad ora non ha alcun senso. La
trama non è importante, direi bene.
Non che sia
rilevante il contenuto, s'intende: io sto facendo letteratura -
probabilmente migliore di molte altre puttanate che spacciano per tale
-.
Ora, invero,
vorrei passare al mio tragico, malinconico, violento racconto,
prestando particolare attenzione a ciò che la gente vuole.
Non siamo in
una città, nè tantomeno sulla terra - per
carità, troppo scontato!
E'
così che, invece, per vostra grande sorpresa, ci troviamo al
centro della terra - incancescente, brulicante di lapilli bronzei e
distruttivi anche se presi singolarmente.
Dormono ivi,
sommersi da un mare rovente, due uomini, e il sonno li protegge dal
vomito caldo che consuma ogni cosa.
E mentre
riposano, accompagnati dal rombare delle esplosioni intorno ai loro
corpi nudi, sognano l'uno l'altro, in un'infinita stretta di mano
fredda e intangibile.
Giorni e
giorni passarono in questo modo, mentre i due galleggiavano in mezzo a
questo sconfinato manto cremisi, avvolti dalla maledizione eterna della
solitudine.
Non
desideravano altro che poter concretizzare quel sogno di potersi
sfiorare, almeno una volta, le dita.
Ahimè,
il prezzo da pagare era alto: se si fossero destati da quella morte
apparente, la lava li avrebbe inghiottiti.
Dormirono
per anni, crogiolandosi nella loro impotenza, avvertendo in lontananza, a migliaia di chilometri di distanza, le grida
entusiaste di coloro che erano stati relegati sulla crosta di quella
sfera imperfetta.
I fortunati
s'amavano, con la consapevolezza di poterlo fare senza che nessun
pericolo galleggiasse sopra alle proprie teste.
E un giorno,
uno dei due raggiunse l'altro in sogno, mormorandogli nella mente che
non c'era ragione d'esistere, se non potevano anche loro essere
accontentati da quella gioia che impregnava il terriccio lontano, lontano
da loro.
Sussurrò
molto piano, mentre gli scoppi intorno a loro tuonavano come
divinità impazzite.
Sussurrò
davvero piano, ma l'altro lo sentì, e gli rispose che la
morte lo teneva nel grembo proprio in quel momento, che no, non c'era
ragione di vivere, se non poteva venire alla luce.
Eppure,
preso atto di questo desiderio opprimente, continuarono a sognare l'uno
le parole dell'altro, l'uno le mani dell'altro, senza riuscire ad
aprire gli occhi una volta per tutte.
Rimasero
altri anni così, addormentati, scontenti, fino al giorno in
cui, per la seconda volta, l'altro lo supplicò di seguirlo
fino alla fine dei loro dolori.
Eruttarono
mari di lava intorno a loro, come a voler intonare la loro marcia
funebre, infine aprirono gli occhi: erano svegli.
Riuscirono
finalmente a raggiungersi, a toccarsi, ma solo allora compresero che il
contatto delle loro mani, rispetto al calore asfissiante del mare
incandescente, non era altro che una morsa fredda, più
fredda dei loro sogni.
Annasparono
violentemente quando cominciò a zampillare sulla loro pelle
candita la lava, corrodendola.
Credettero
davvero che, se si fossero riaddormentati, tutto sarebbe tornato
com'era prima, ma ormai non potevano tornare indietro.
Come
cemento, il liquido denso si strinse intorno ai loro corpi,
penetrò nella bocca, nelle orecchie, nei pori, e lentamente,
troppo lentamente, li stava uccidendo.
Ora che non
c'era più il sonno a proteggerli e cullarli, maledissero la
veglia, causa di tutta quella morte, di tutto quel dolore.
Non solo:
maledissero l'uno l'altro, per la misera fine a cui si erano arresi
senza trovare quell'agognata soddisfazione.
Triste fu la
loro sorte, non rimase che polvere, ma presto anche quella
sparì.
Amanti solo
per pochi secondi, ed ora dannati per l'eternità - questo è ciò che gli fu concesso.
Tutto per
accorgersi di quanto fossero tiepidi, dolci, accoglienti il sonno ed il
miraggio.
Anche se lo
compresero troppo tardi.
Questa storia
non è degna di essere raccontata.
FINE
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