Sorpassando Tutti gli Altri Dèi

di AquilanteMalabestia
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Davanti allo sdegno paterno e all'indifferenza umiliata della madre, chiusa a guscio nel suo pianto, Apollo lo Sventurato abbandonò il nido di pietra e si perse da qualche parte della capitale, tra il fragore delle luci al neon e gli schermi e lo sciamare di auto, turisti, puttane, drogati, ladri e punk dalla faccia corrosa e lo sguardo feroce; si perse naufragando in una dolce pozza di petrolio nauseante, lontano dalla stasi della vita per bene, in un locale nel cui retro avrebbe preso a dormire, lavorando la sera e proprio la sera guardando esibirsi Marsia. Marsia era il canto rauco delle viscere terrestri: ogni suo gesto forsennato, ogni nota della sua Squier rossa scheggiata e rattoppata era un invito a sciogliere la bestia dentro ciascun uomo. Apollo una notte trovò la forza di abbandonarsi alla corrente: fu Marsia ad intendere quello che il Suo sguardo, bloccato tra le mura famigliari e una pulsione a lanciarsi nel vuoto, sottaceva assieme alla voce tentennante. Non esitò a strappare il Febo dalla zavorra del suo timore. Vissero per anni nella stessa dimora che il mito riporta con le mura affrescate di sangue e graffiti e il cesso in comune in fondo al pianerottolo, tra le nebbie brune e fetide del quartiere del porto, in mezzo a demoni tristi divorati dallo stesso loto che smerciavano ad anime naufraghe affamate d'oblio, in mezzo al mercato della carne insaccata tra vesti succinte per meglio mostrare la merce. Nel gelido inverno di una stanza chiazzata, con un grosso futon rigido a molle come letto d'amore, per scaldarsi Apollo accettò il sangue ed il corpo di uno degli spiriti infami che animavano Marsia, sciolto in un cucchiaio annerito e nella carne tenera sparato come un fulmine, dentro le vene e fin dentro il cervello, dentro cui Apollo si sentì come il figlio di Gesù.




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