L’autostrada era immersa nell’oscurità
vellutata della notte.
La luce proiettata dai fari della Citroen C3
rimbalzava sull’asfalto scuro come il cielo, strappando al
buio assoluto soltanto una misera porzione di strada: una via infinita
in cui le auto erano solo schegge in transito, simili a fuochi fatui
impazziti.
Elisa schiacciò con più
decisione il piede sull’acceleratore, incurante dei limiti di
velocità: la A24 era deserta, e sebbene questo riuscisse a
darle un illusorio senso di pace, percepiva la spinta ad andare sempre
più veloce, quasi che quello fosse l’unico modo di
seminare i pensieri che le avvelenavano la mente.
Mentre macinava un chilometro dopo
l’altro, la donna si permise di lasciar vagare la propria
mente, tornando a quanto era successo solo due ore prima.
Fabio era stato il suo grande amore,
l’unico dopo quella prima, disastrosa relazione in cui si era
trovata invischiata da adolescente: per due anni erano stati insieme,
tanto da spingerla a mettere da parte sempre di più la paura
e la diffidenza che per lungo tempo le avevano impedito di avere un
rapporto sentimentale stabile. Lui era stato davvero
l’unico: l’unico ad avere avuto la pazienza di
rispettare i suoi tempi, l’unico ad avere avuto la voglia di
tirarla fuori dal guscio che si era costruita intorno,
l’unico a esserle apparso meritevole dei suoi sforzi, e di
rischiare di nuovo quel cuore malamente rappezzato che si portava
dietro.
Fabio era stato l’unico a entrarle sotto
la pelle tanto da farle ammettere di essersi innamorata.
Elisa scosse per un attimo la testa mentre
imboccava lo svincolo giusto, rallentando appena. Col passare dei mesi,
si era convinta che Fabio fosse l’uomo perfetto: si era
lasciata andare, ammorbidendosi tanto da stupire chiunque la
conoscesse, e la parte di lei più piccola e maltrattata,
quella che aveva relegato in un angolo per non soffrire mai
più, aveva ripreso gradualmente spazio, persuadendola che
magari in un futuro non troppo lontano avrebbe potuto avere ancora di
più – che un giorno Fabio sarebbe stato non
più solo il suo compagno ma anche il suo migliore amico, suo
marito, il padre dei suoi figli; che le sarebbe stato accanto sempre, e
che lei sarebbe stata come tutte le sue amiche e conoscenti, nonostante
per anni le avesse guardate sentendosi parte di un’altra
razza, aliena a quelle gioie che le sembravano precluse da quelle
vecchie cicatrici dell’anima mai del tutto rimarginate.
Dire che era rimasta sorpresa quando, solo tre
settimane prima, Fabio aveva bruscamente messo fine alla loro
relazione, era un eufemismo. Fino a quel momento era stata convinta che
tutto stesse andando bene: certo, il senso di euforia dei primi tempi
si era attenuato, ma aveva creduto che dipendesse soltanto dal fatto
che ormai si conoscevano bene, e che quello fosse il passo successivo
nella loro storia. Così, anche dopo che Fabio
l’aveva lasciata senza più farsi vedere
né sentire, Elisa si era detta che forse era stato solo un
momento di confusione, o di paura, e che sarebbe tornato presto da lei.
Quella sera, però, anche
quell’ultima illusione era andata in frantumi.
Uscire con alcune colleghe di lavoro le era
sembrata una buona idea per smettere di tormentarsi almeno per un paio
d’ore: continuare a rimuginare sul suo fidanzato non
l’avrebbe aiutata a stare meglio, né a farlo
tornare più in fretta sui suoi passi. Per un po’,
aveva funzionato: le chiacchiere allegre delle altre e un buon
bicchiere di vino l’avevano resa gradualmente più
allegra, e un senso di leggerezza, dapprima impercettibile, aveva
iniziato a gonfiarsi nel suo petto.
Era stato solo quando aveva visto entrare Fabio
nello stesso locale, sorridente e abbracciato a un’altra
donna, che quella parentesi di tranquillità era esplosa come
una bolla di sapone.
Un tremito d’incredulità
l’aveva scossa dalla testa ai piedi, e per un angoscioso
minuto, aveva comunque cercato di giustificarlo: magari quella
sconosciuta era soltanto un’amica, magari il fatto che
fossero da soli non significava niente…
Nel momento in cui aveva visto Fabio baciare
l’altra donna con evidente trasporto, Elisa si era dovuta
rassegnare all’evidenza: tra loro era davvero finita. Lui non
sarebbe tornato indietro; pur volendo concedergli il beneficio del
dubbio e non accusarlo di averla tradita, era chiaro che Fabio
l’avesse già dimenticata, e con una certa
facilità.
Quella nuova consapevolezza aveva fatto nascere in
lei un sentimento del tutto diverso, uno che fino a cinque minuti prima
non avrebbe mai creduto potesse esserle suscitato da Fabio: una rabbia
intensa e bruciante l’aveva riempita, concentrandosi in un
grumo duro e incandescente nel petto. La potenza di quella collera le
aveva mozzato il fiato; aveva capito che non sarebbe riuscita a restare
lì, come se nulla fosse, a guardare l’uomo di cui
era ancora innamorata baciare un’altra. Per questo aveva
balbettato una scusa qualunque alle sue amiche con voce distorta
dall’ira ed era scappata fuori, lontana da quella scena. Non
era bastato: il mostro rabbioso che le si agitava dentro non si era
placato, e in un attimo di lucidità, un bisogno inaspettato
e insopprimibile si era fatto strada fino alla sua mente: doveva andare
ancora più lontano, nell’unico luogo in cui si era
sempre sentita in pace con se stessa, e liberarsi di tutti quegli
oggetti legati a Fabio che aveva sistemato con cura in uno scatolone,
nascosto sul fondo dell’armadio.
Così, Elisa si era precipitata nella
propria macchina, e poi a casa; aveva recuperato in fretta e furia
alcune cose e si era di nuovo messa al volante. Aveva percorso varie
strade, un tratto del Raccordo, l’autostrada e infine quella
strada di montagna tutta curve e tornanti: ormai era quasi arrivata, e
poteva già scorgere la sagoma familiare del paesino quasi
disabitato in cui trascorreva le vacanze da tutta la vita.
Arrivata a destinazione, Elisa
parcheggiò l’auto sul margine della carreggiata e
osservò l’altro lato della strada: giusto di
fronte alla via che portava al paese, il grande albero di noce che
conosceva bene si ergeva a pochi metri da un dirupo. Da lì,
le città nella valle apparivano come agglomerati di luci
scintillanti sospesi nel buio totale: l’unica altra cosa a
spezzare le tenebre erano le innumerevoli stelle che punteggiavano la
volta celeste, raggruppate in modo tale da somigliare a un nastro
argenteo circondato da una manciata di diamanti sparpagliati ovunque.
Il centro dello spiazzo solitamente deserto al cui
margine era cresciuto il noce era occupato da una grande catasta di
rami e rovi: i residui della pulizia della vicina fonte, lasciati
là a seccare prima di essere raccolti e gettati.
Elisa recuperò una bottiglietta di
alcol denaturato, un accendino e lo scatolone che aveva preso da casa
prima di mettersi in viaggio, poi andò vicino al mucchio di
rami secchi. Posato lo scatolone a distanza di sicurezza,
spruzzò l’alcol sulla catasta, prese un pezzo di
carta dalla scatola e lo gettò nel mucchio dopo avergli dato
fuoco: le fiamme si propagarono rapidissime lungo le sterpaglie,
incendiandole. In silenzio, la donna rimase a guardare le lingue
ardenti guizzare nell’aria immobile insieme al fumo, le
orecchie piene soltanto dello scoppiettio dei rami. Non temeva che
qualcuno potesse vederla: salvo che in Agosto, raramente qualcuno
transitava lungo quella strada che terminava sulla montagna che
incombeva alle sue spalle, e in quel giovedì notte di
metà Novembre era certa di essere l’unico essere
umano a trovarsi là.
Sempre con gli occhi fissi sul falò,
Elisa si chinò e prese dallo scatolone il primo oggetto che
le capitò sottomano: era una maglia rossa, il primo regalo
di Fabio. Ricordava ancora con quali parole il suo ex fidanzato aveva
accompagnato quel dono.
“Il
rosso è il colore più vistoso di tutti, e attira
subito l’attenzione: ti costringe a voltarti, a seguire
quella macchia vivace finché puoi. Per me, è come
se tu fossi sempre vestita di rosso; con questa maglietta, tutti ti
vedranno come ti vedo io.”
Elisa gettò la maglia nel fuoco senza
alcun rimorso. La stoffa venne divorata all’istante,
generando una fiammata più alta delle alte che, una volta
terminata la sua opera, fu subito riassorbita dalle sue sorelle.
Quel gesto distruttivo la fece sentire
inaspettatamente bene. Si era imposta di non rendersi ridicola di
fronte agli occhi del mondo, soprattutto a quelli di Fabio; non aveva
lasciato trapelare nulla, fingendo di essere superiore, e che quel
distacco improvviso non l’avesse ferita tanto in
profondità, ma la rabbia e la sensazione di essere stata
tradita erano sempre lì, ad agitarsi appena al di sotto
della sua maschera indifferente. Dare alle fiamme quella maglietta le
procurò la stessa soddisfazione che avrebbe potuto ricavare
dall’urlare in faccia a Fabio quello che stava provando, o
dal prenderlo a schiaffi; sapere che non restava più nulla
di quell’oggetto che in qualche modo la legava ancora a lui
la riempì di una ferocia e una soddisfazione tali da
inebriarla. Per un attimo si sentì libera e potente, quasi
una divinità.
Mentre l’esaltazione si mescolava al
rancore, Elisa pescò un paio di scarpe dalla scatola e le
spedì tra le fiamme. Anche quelle in poco tempo vennero
ridotte in cenere, subito seguite da una sciarpa e da un libro, e
vedere il fuoco impennarsi, alimentato da quell’inaspettato
combustibile, la riempì di una gioia perversa.
Ridendo amara, la donna afferrò un
mucchio di foto e lo lanciò proprio nel cuore della catasta:
fiammelle colorate si levarono mentre l’inchiostro bruciava,
e con un grido rabbioso e allegro al tempo stesso, Elisa
afferrò la scatola con tutto quello che ancora conteneva e
la buttò sul fuoco.
Ansimando come se avesse corso per chilometri,
rimase a guardare le fiamme ingrandirsi e ondeggiare, intente a
divorare la loro ultima vittima. Lentamente, il calore distrusse ogni
cosa: gli ultimi rovi bruciarono quieti, crollando in un mucchio
confuso, e il fuoco rimpicciolì sempre più, fino
a quando anche l’ultima particella legnosa non fu consumata.
L’ultima fiamma si spense e a terra rimase soltanto una
distesa di cenere e braci morenti, unici testimoni del banchetto
sacrificale appena consumatosi.
D’improvviso, Elisa si sentì
svuotata di tutto e l’ira che l’aveva spinta fin
là tornò ad agitarsi prepotente dentro di lei,
colmandola per intero. Mentre il fuoco bruciava, alimentato dalle
sterpaglie e da quella catasta di oggetti di cui s’era voluta
liberare, tutta la furia che provava era passata dallo schiacciarla al
sostenerla; le fiamme e la loro opera distruttrice avevano preso
sottobraccio la sua rabbia per guidarla in una danza macabra,
selvaggia, e tanto stordente da far nascere un distorto senso di gioia
da tutto quel rancore. Ma nel momento in cui l’ultima
fiammella s’era spenta, mettendo tutto ciò che
restava della sua vita in un piccolo guizzo ostinato, la danza era
cessata; la rabbia era stata lasciata sola, senza nulla che la
distraesse; e il senso di oppressione era tornato.
Una lacrima di esasperazione e disappunto
oltrepassò la barriera di ciglia e scivolò senza
controllo lungo la guancia, fino al mento. Restia ad ammettere quanto
quella rabbia stesse avendo la meglio su di lei, Elisa
asciugò quella traccia salata con un gesto brusco: nel farlo
si sfiorò inavvertitamente le labbra, sbavando appena il
rossetto, e una debole striscia color ciliegia le imbrattò
la mano e l’angolo della bocca. Di colpo, sentì di
non poter più restare lì: quel calore sprigionato
dai resti del falò aveva l’odore soffocante della
sua ira, e la faceva sentire schiacciata, come se quei sentimenti la
opprimessero contemporaneamente dall’interno e
dall’esterno.
Voltando le spalle al magnifico spettacolo delle
luci nella valle, Elisa si diresse verso la strada che conduceva al
paese e la imboccò: affrontò la salita con passi
regolari, come aveva fatto infinite volte nella vita, e ben presto fu
nella piazza deserta; senza rallentare, si inerpicò su
un’altra salita e poi su un’altra ancora, ognuna
più ripida della precedente, fino a quando non raggiunse la
propria meta.
La piccola chiesetta rinascimentale, abbarbicata
sul punto più alto del paese, osservava con quieta
indifferenza il mondo che la circondava: con le mura spoglie, segnate
dal sole e dalla neve, dava l’idea di poter restare
lì, uguale a se stessa, fino alla fine dei tempi.
Trovarsi lassù –
probabilmente il luogo che preferiva in assoluto – non
servì a far sentire meglio Elisa: il mostro nel suo petto
continuò ad agitarsi, a ferirla e squarciarla coi suoi
artigli affilati, alimentando se stesso con ogni colpo che le
infliggeva.
Gli occhi della donna scattarono verso la canonica
abbandonata, e un’idea la colpì. Incurante del
fatto che fosse proibito, salì sul piccolo sperone di roccia
su cui sorgeva quel secondo, minuscolo edificio collegato alla chiesa e
si arrampicò agilmente sul balconcino coperto attraverso i
vetri rotti da generazioni di adolescenti che si erano intrufolati
lì dentro. Riuscire ad aprire la persiana malconcia e la
portafinestra rotta fu altrettanto facile: in meno di due minuti Elisa
fu nelle stanze spoglie, e facendosi luce col cellulare,
andò verso le uniche scale della costruzione. Salendo con
attenzione i gradini, ben presto fu in cima al campanile: attraverso le
aperture prive di vetri presenti sui quattro lati, poté
osservare ogni cosa da una posizione privilegiata. Stare lì
era come trovarsi in cima a un piccolo mondo: lo dominava con lo
sguardo, poteva lasciar vagare gli occhi in ogni direzione –
dalla sagoma nera della montagna che incombeva sul paese alla sua
destra, alla valle alla sua sinistra, alla collinetta dietro cui
spariva la strada che aveva alle spalle – e da
lassù, lo spiazzo su cui aveva celebrato quella sua vendetta
simbolica e insufficiente le apparì come un minuscolo
riflesso del cielo notturno, in cui però le stelle
brillavano, invece che d’argento, di sfumature gialle e rosse
ormai quasi invisibili. Mentre era lì, sola in quel
campanile rischiarato unicamente da uno spicchio di luna, quel vago
senso di onnipotenza la colse di nuovo: forse dipendeva dal trovarsi
proprio lì, o magari era stato l’essersi fatta
trascinare dalla rabbia al punto da gettare alle ortiche ogni prudenza
e fare tutte quelle cose che di solito le leggi e il buonsenso le
precludevano. In realtà il motivo non aveva importanza,
quale che fosse: per lei tutto ciò che contava era che, dopo
tanti anni, in quel momento riusciva di nuovo a sentirsi vicina a Dio.
Elisa sfiorò l’antica campana
con la punta delle dita e, per la prima volta da quando era arrivata,
una brezza gentile prese a soffiare, accarezzandole il volto e i
capelli; e finalmente, la morsa della sua rabbia si allentò.
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