The Rise and Fall of a Blitz Kid

di corvinia
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DISCLAIMER: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere o dell'orientamento sessuale delle persone presenti nella storia, nè offenderle in alcun modo.

Blitz Club, Londra, 1980.

Erano circa le undici e mezzo e la serata stava per entrare nel vivo, al Blitz Club. I clienti abituali avevano iniziato a fare capolino dalla porta da alcuni minuti, accolti dal cipiglio irriverente e dal rossetto acceso di Steve Strange.

Avremmo fatto il pieno al locale, come ogni weekend: la gente più stramba (leggi cool) della periferia londinese si riversava tutta qui di venerdì e sabato sera, per un po' di sano e scatenato divertimento disco-dance.

Steve si godeva la processione di parrucche, lustrini e creste punk dall'ingresso, senza dimenticarsi di fare qualche capatina dentro il locale di tanto in tanto, per scolarsi un due drink o per scrutare qualche pettorale scolpito. In quanto a me, invece, mi godevo la serata da dietro le quinte, ovvero nel guardaroba, a fare la guardia ai giubbotti dei clienti e rubacchiare qualche fiver. Naturalmente, sgattaiolavo nell'anima della serata ogni dieci minuti, più o meno per gli stessi motivi di Steve.

Avevo accettato il lavoro al guardaroba solo per tenere buoni i miei genitori, dal momento che entrambi mi stavano parecchio col fiato sul collo da quando avevo lasciato la scuola, a quindici anni.

Abituato al solito viavai disordinato e chiassoso di gente, quella sera non mi accorsi subito che stesse accadendo qualcosa di insolito. Iniziai a sospettare qualcosa quando mi resi conto che la gente stava abbandonando in massa la pista per dirigersi verso la porta. Normalmente, il flusso andava nella direzione opposta.

Mentre cercavo di capirci qualcosa, sentii chiamare il mio nome in tono concitato.

“George!”

Mi voltai giusto in tempo per vedere Marilyn, chioma bionda con un chilo di lacca e sigaretta tra le dita, schiantarsi contro il bancone del guardaroba. “Vieni a vedere!” strillò.

Alzai un sopracciglio. “Cos'è, la terza guerra mondiale?”

“Più o meno!” gridò in risposta, come se fossi a un miglio di distanza da lui anziché a due passi. “C'è Bowie!”

Bastarono quelle due parole a farmi schizzare il cuore in gola.
Tutto a un tratto, quella fuga concitata di gente fuori dal locale acquistò un significato.

Iniziai a iperventilare. Mentre facevo di corsa il giro del bancone e mi precipitavo fuori, spingendo qua e là per passare, riuscivo a pensare soltanto a una cosa. Anzi, un nome.

David Bowie.

Da sempre, il mio idolo.

Il problema era che, oltre che il mio, era anche l'idolo di tutti gli altri, lì dentro.

 

Mi beccai un bel po' di gomitate sulle costole, pestoni ai piedi e spintoni in tutti i punti del corpo mentre mi avventuravo nella ressa per raggiungere il punto fatidico, appena fuori dal locale, dove era stata parcheggiata una limousine. Pensai che fosse un prezzo più che ragionevole da pagare per vedere da vicino il mio mito. Forse sarei riuscito persino a scambiarci due parole!

Mi sollevai sulle punte, cercando di scorgere qualcosa tra le teste. E, mentre i miei occhi saettavano in tutte le direzioni, all'improvviso scorsi una figura che avrei riconosciuto tra mille. Che dico, tra millemila. Una figura smilza, due gambe lunghe e magrissime, un cappello panama e un paio di occhiali da sole. Era lui. Si stava dirigendo, per quanto possibile in mezzo alla folla urlante, verso il locale, scortato da alcune guardie del corpo e, guarda un po' che strano, da Steve Strange. Che sarebbe andato in giro vantandosi di aver scortato David Bowie dentro il “suo” locale per almeno un secolo a venire.

La rockstar delle rockstar venne scortata verso il retro dell'edificio, per entrare da una delle porte di emergenza. Mossa abbastanza inutile, pensai, dal momento che l'arrivo di sua maestà Bowie aveva già dato molto nell'occhio. La gente si mosse con lui. Scorsi i miei amici Marilyn e Pinkietessa e mi avvicinai a loro.

“Dite che Steve sapesse che sarebbe venuto?” chiesi, mentre rientravamo nel locale.

Pinkietessa, il look da dama ottocentesca con una riga troppo spessa di eyeliner, cappellino e fiocchetti viola tra i boccoli biondi, scosse la testa. “Certo che no, non lo sapeva nessuno”

“Ragazzi, muovetevi o lo perdiamo!” si agitò Marilyn, che scalpitava. Io non affrettai il passo. Era giusto essere eccitati, ma un branco di ochette starnazzanti avrebbe avuto il solo effetto di far scappare Bowie, anziché avvicinarlo.

 

Guadagnammo insieme la pista, senza perdere di vista il cappello panama, che ora si stava dirigendo verso le scale. Evidentemente Steve stava cercando di trovare a Bowie un posto tranquillo. Alcuni della security dovettero fare da barriera per impedire alle persone di salire le scale.

Rimasi a guardare mentre il mio idolo saliva di sopra e vidi il mio piccolo sogno spezzarsi lentamente.

Non sarei entrato a far parte della cerchia ristretta di gente che avrebbe avuto la fortuna di incontrarlo.

A quel punto, qualcosa scattò dentro di me. Non potevo arrendermi così. Poteva essere l'occasione della mia vita. Ignorando la morsa che mi chiudeva lo stomaco, mi misi a correre all'impazzata verso le scale.

Contavo sul fatto che gli energumeni della security sarebbero stati occupati a trattenere qualcun altro. Raggiunsi le scale e mi piegai in avanti, infilandomi tra un membro dello staff e un ragazzo alto con una cresta punk. Trattenni il respiro, aspettandomi di venire braccato da un momento all'altro, ma non successe nulla. In un battibaleno fui in cima alle scale.





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