Disclaimer:
Non è mio ed è tristemente palese che da tutto
ciò non ci ricaverò
neanche uno zellino.
La
storia la dedico ad Amantide, che la voleva tanto <3
On
the head of a pin
Sherlock
in quel momento si sentiva bruciare le mani. Non aveva importanza che
il ragazzo della caffetteria che l’aveva servito (studente
universitario che cercava disperatamente di restare al passo con gli
esami, a giudicare dal profondo livello di occhiaie e le macchie di
inchiostro sulla mano destra, segno evidente di una notte passata
quasi insonne a studiare) avesse messo un pezzo di cartone attorno ai
bicchieri: quelli bruciavano come il fuoco. E il liquido
all’interno,
nonostante l’aria frizzante londinese, non sembrava
minimamente in
procinto di raffreddarsi.
Aprì
goffamente con la schiena la porta delle scale del St Bart’s
che
conducevano all’obitorio e scese lentamente i gradini, stando
ben
attento a non rovesciarsi il caffè bollente sulle mani.
L’odore
familiare del disinfettante lo raggiunse non appena non aprì
l’ennesima porta con il maniglione antipanico...
probabilmente
nessuno di normale avrebbe mai bevuto un caffè in un luogo
del
genere saturo di morte e di alcool che avrebbero fatto scappare
chiunque a gambe levate. Non lui però. E nemmeno Molly, che
quel
lavoro lo aveva scelto consapevolmente, forse perché i
morti, alla
fine, le davano sempre molte più risposte di tutti gli
essere umani
che la circondavano e che, in qualche modo, erano sempre riusciti a
farla sentire goffa e inutile. Lui per primo, anche se doveva
ammettere che non lo faceva perché era lei, lo faceva con
tutti e
basta. Non era certo che questo però migliorasse le cose.
Ripensando
a tutte le volte che Molly aveva cercato di comunicare con lui, di
fargli capire qualcosa, si rese conto che, con tutta la buona
volontà
e con tutte le sue meravigliose capacità deduttive, non
sarebbe mai
stato in grado di comprendere. Però Sherlock non era
più lo stesso
di un tempo, ora capiva. Se non bene, almeno meglio. E si rese conto
di quanto odioso e insensibile era stato e di quanto Molly,
nonostante tutto, fosse buona perché mai una volta si era
rifiutata
di aiutarlo. Anche prendendolo a schiaffi (nonostante poi lui si
fosse sentito in dovere di ferirla a sua volta sottolineando
l’assenza dell’anello di fidanzamento che le aveva
regalato Tom).
L’obitorio
era silenzioso… niente di sorprendente, ma di solito
c’era più
rumore: che fossero le macchine per le analisi in funzione, o le
varie seghe che utilizzava Molly per aprire crani e casse toraciche,
o più semplicemente gli organi che venivano appoggiati con
estrema
delicatezza sulla bilancia. Perché Molly era delicata in
tutto
quello che faceva, anche se divaricava una cassa toracica. Di norma
le persone non fanno volentieri visita a Molly, solo lui è
uno dei
pochi esseri viventi che si reca lì con piacere, ma solo
perché per
lui l’obitorio è sempre stato a metà
strada tra un luogo di
studio e ricerca e un Luna Park.
Adesso
però non poteva divertirsi, l’ultima volta che
aveva sentito Molly
era stato in uno dei momenti più difficili della sua vita,
anche
peggio di quando era in procinto di saltare dal tetto del
Bart’s
perché, quell’ultima volta, la vita in gioco era
quella di Molly e
se lui non avesse soddisfatto la richiesta di Euros, se non fosse
stato in grado di far fare a Molly ciò che lui (o meglio,
sua
sorella) voleva, la donna sarebbe morta. O almeno così
credeva.
Ricordava ancora quando gli si era gelato il sangue alla vista della
bara… per un istante aveva pensato a Mrs Hudson, ma poi il
volto di
Molly gli era apparso davanti e quando aveva letto quel I LOVE YOU
non aveva più avuto dubbi. Le aveva spezzato il cuore, e lo
sapeva,
ma distruggere quella bara per lui era stato un atto liberatorio. Era
stato certo di averle salvato la vita, probabilmente se non avesse
fatto o detto nulla (o se Molly non avesse risposto) non sarebbe
cambiato nulla. Ma non poteva permetterselo. Non poteva permettere
che Molly morisse… non per colpa sua. Quella bara non
sarebbe mai
stata per lei.
Fece
qualche passo, incerto ma al tempo stesso sicuro che Molly fosse
lì…
dove altro avrebbe potuto essere altrimenti? E poi la vide, seduta
alla scrivania che compilava una cartella o qualunque altro documento
necessario all’ospedale e alla polizia conoscere le cause
della
morte del suo paziente. Quelli molto più sani di lui, almeno
fino a
qualche mese prima. Si avvicinò lentamente, cercando di fare
meno
rumore possibile, ma sapeva che Molly l’aveva già
visto e sentito
solo che – giustamente – faceva finta di nulla. E
continuò a far
finta di nulla anche quando Sherlock fu davanti a lei. Molly
sembrò
non essere affatto in soggezione, e Sherlock poteva forse capirla:
dopo quello che era accaduto non credeva che la donna potesse essere
in qualche modo ben disposta nei suoi confronti. Nel migliore dei
casi provava un odio cieco verso di lui. O indifferenza e fastidio,
nel peggiore.
Sherlock
provò a schiarirsi la voce e in effetti per un attimo Molly
smise di
scrivere, ma fu solo per una frazione di secondo, perché
ricominciò
subito, anche se il tratto pareva meno sicuro e deciso di quello
precedente. E per la prima volta, fu Sherlock a dover fare il primo
passo.
“Caffè?”
domandò l’uomo con un tono dolce che non ricordava
di aver mai
veramente usato, forse solo con Euros per qualche istante, ma era
diverso. Tutto ciò che riguardava gli Holmes era diverso da
quello
che valeva per il resto del mondo. E anche quello che riguardava
Molly.
La
donna si bloccò e allontanò la stilografica dal
foglio. Se c’era
una cosa che Sherlock aveva sempre apprezzato diMolly, era la
precisione con cui compilava i suoi rapporti e l’uso della
stilografica le dava quell’aria più sofisticata ed
elegante che in
genere non sono gli aggettivi migliori per descrivere il rapporto di
un’autopsia per omicidio, ma lui era sempre stato fuori dal
comune
ed era affascinato da questo dettaglio. Tutti usavano le penne a
sfera, più veloci e sbrigative, invece la stilografica
richiedeva
più tempo, pazienza e precisione.
Molly
fece un respiro profondo e senza di alzare gli occhi gli rispose con
un secco “no, grazie”… se non altro gli
aveva detto grazie,
doveva essere un buon segno.
“A
dire il vero è un cappuccino. A quest’ora di
solito hai fame...”
Lo
stomaco di Molly, ovviamente, scese proprio quel momento per emettere
un rantolo che fece sbuffare la donna per l’esasperazione nei
confronti del carisma dimostrato dal proprio apparato digerente.
“E’
di soia. E caffè. Ma il latte è di soia. Di
recente hai smesso di
consumare dolci o biscotti con burro e latte. Ho dedotto che sei
diventata intollerante al lattosio...”
Molly
alzò – finalmente – lo sguardo,
rivolgendosi un occhiata di
biasimo. No, forse non era esattamente un buon segno. Poi
notò il
secondo bicchiere che Sherlock aveva in mano e l’uomo parve
capire
la domanda insita negli occhi di lei.
“Non
abbiamo mai preso un caffè insieme...” rispose lui
onestamente
allungando la mano e porgendole il suo bicchiere di carta. Sherlock
non si era neanche accorto che oramai le sue mani non bruciavano
più.
“E’
avvelenato?” domandò Molly con diffidenza e
Sherlock, per
dimostrarle che non lo era, ne bevve un sorso. Lei sbarrò
gli occhi,
ma Sherlock era troppo impegnato a storcere il naso per rendersene
conto.
“Latte
per modo di dire...”
“Non
siamo neonati e non siamo vitelli, il latte di soia va
benissimo”
ci tenne a dire Molly e Sherlock ebbe il buon senso di tacere,
soprattutto perché aveva accettato il bicchiere che le stava
porgendo. Un passo in avanti per davvero questa volta. Nonostante
Molly avesse cercato di non sfiorare nemmeno le dita di lui, Sherlock
fu comunque ugualmente in grado di percepire le dita fredde della
donna provate dalle ore passate insieme ai morti. Eppure anche questo
gli piaceva di lei, forse perché in fondo tutto
ciò che poteva
essere in qualche modo connesso alla morte l’aveva sempre
affascinato, e lei rientrava nella categoria di cose (o persone in
questo caso) che avevano uno stretto legame con essa. Che non fosse
una persona normale glielo avevano già detto in molti, in
primis
John che, nonostante la presenza di Rosie, non era riuscito a
debellare il frigorifero da esperimenti che dovrebbero restare a
distanza di almeno un chilometro da una bambina della sua
età.
Molly
strinse le mani attorno al bicchiere, beandosi del calore della
bevanda e solo in quel momento Sherlock si rese conto che in
realtà
il liquido contenuto non aveva smesso di bruciargli la pelle neanche
per un secondo. Se n’era solo scordato.
“Non
hai mai voluto prendere un caffè con me” disse
Molly con tono
amaro prima di bere un sorso di cappuccino… probabilmente,
vista la
fame che aveva – ovviamente Sherlock aveva dedotto
correttamente
questo dettaglio – se lo sarebbe bevuta tutto d’un
fiato, ma la
temperatura simile a quella di lava fusa glielo impedivano.
“Ti
devo una spiegazione.”
Molly
alzò un sopracciglio.
“E
delle scuse.”
Molly
storse la bocca.
“E
un numero non ben identificato di caffè.”
L’espressione
della donna fu in procinto di trasformarsi in un sorriso, ma si
trattenne e bevve un altro sorso. Sherlock fece lo stesso, rendendosi
conto che lui però quel caffè non lo voleva
affatto. Gli era solo
servito come scusa. Molly però parve ugualmente gradire il
gesto.
“Ti
ascolto” fece lei dopo qualche minuto di silenzio, senza
però
lasciar trasparire quella dolcezza e tenerezza che erano tipiche di
lei. Il suo sguardo era duro e la voce fredda, sicuramente non ben
disposta dei suoi confronti, ma era comunque meglio che niente.
“Ti
chiedo scusa Molly Hooper” disse Sherlock ancora in piedi con
il
caffè tra le mani. Gli sembrava di essere tornato tra i
banchi di
scuola, davanti alla cattedra dell’insegnante (solo che
generalmente le cose non andavano molto bene, perché o non
sapeva
nulla e veniva rimandato a posto, oppure sapeva troppo e veniva
spedito dal preside per aver sottolineato l’ignoranza del
docente
nella sua stessa materia).
Molly
si limitò a sbattere le palpebre.
“Sono
successe molte cose strane. Folli. Anch’io non sono ancora
sicuro
di cosa sia veramente successo di preciso perché
c’è sempre
qualche dettaglio che non combacia e che continua a non avere senso
ma.. il gioco non era più un gioco, era diventato qualcosa
di troppo
grande e nel giro di poche ore ho visto morire più persone
di quante
temessi.”
La
donna corrugò la fronte, Sherlock aveva la sa più
completa
attenzione ma ancora non era convinta di quello che le stava dicendo.
“Mi
avevano fatto credere che la tua casa fosse piena di esplosivo e
avevo tre minuti per evitare ce saltasse in aria” certo, era
la
verità, ma suonava ugualmente assurda e abbastanza priva di
senso
alle orecchie di una persona che non conosceva fino in fondo la
pazzia della famiglia Holmes.
“Ah
si? E fammi indovinare, l’unico modo per evitare che la mia
casa
esplodesse era umiliarmi come hai fatto tu” gli fece notare
lei
amareggiata e infastidita dalla quella che credeva essere una bugia.
“Non
c’era nessun esplosivo, ma mi hanno fatto credere di
sì. E avevo
appena visto morire cinque persone.”
“A
te non è mai importato nulla degli altri...”
“Ma
mi è importato di te. Che quelle persone morissero o
vivessero, non
m’interessava. Non è stato un bello spettacolo, ma
mia vita
continua tranquillamente anche dopo che sono morte. Ma non potevo
permettere che succedesse qualcosa a te. Potrei raccontarti tutto nel
dettaglio...”
“A
lei lo hai mai detto?” domandò Molly, chiaramente
non molto
interessata alle circostanze, sapeva che era successo qualcosa di
grave e drammatico, ma non era davvero sicura di voler sapere cosa.
Sherlock
le rispose aggrottando le sopracciglia perplesso.
“Alla
Donna. Glielo hai mai detto?” la domanda di Molly era cruda,
tagliente e pregna di dolore e umiliazione. Inspiegabilmente Sherlock
lo capì, forse questa orribile esperienza gli aveva
insegnato molto
di più di quello che pensasse. Non poteva dirsi
traumatizzato o
sconvolto, ma qualcosa era successo e da diversi anni (sei per la
precisione) non era più la stessa persona di un tempo. Per
questo
s’impose di non ridere alla domanda di Molly ma rimase serio,
perché per Molly non era uno scherzo. Lei aveva sofferto
davvero.
Per lui erano stati solo tre minuti, per lei erano anni.
“Non
rispondo mai ai suoi messaggi.” asserì Sherlock,
per poi
aggiungere “Quasi mai.”
Lei
lo guardò malissimo.
“Comunque
no. Non gliel’ho detto. Mai. E a nessuno.”
Molly
sospirò e bevve un altro sorso di cappuccino…
nonostante la fame,
quel confronto le aveva chiuso lo stomaco.
“Io…
mi dispiace Molly. Era una farsa per farti soffrire e per fare in
modo che tu mi odiassi. Non l’ho voluto io.”
“Frequenti
delle pessime persone...” non poté fare a meno di
constatare Molly
con un sospiro.
“Beh…
tu però sei stata la prima a uscire con James
Moriarty” fece
Sherlock prima di avere il tempo di mordersi la lingua…
nonostante
tutto però Molly emise uno sbuffò che poteva
quasi dirsi divertito.
In effetti non poteva negarlo, ma il suo sorriso svanì in
fretta
perché in fondo – neanche troppo in fondo
– Jim si era preso
gioco di lei per i suoi scopi. Anche se prima di scoprirlo lei
l’aveva comunque già lasciato. A ripensarci faceva
quasi ridere
l’idea di aver scaricato il consulente criminale lasciandolo
di
stucco quando gli aveva dato il ben servito. Probabilmente
però lei
ai tempi non gli era più di alcuno aiuto, altrimenti le cose
sarebbero andate diversamente.
Davanti
all’evidente imbarazzo di Sherlock per aver nuovamente
parlato a
sproposito, Molly sorrise facendogli notare che lui aveva fatto
più
o meno lo stesso con Janine ma, se non altro, aveva ricevuto una
giusta punizione per le sue azioni.
Quelle
parole, forse meno sentite di quanto in realtà gli stava
facendo
credere lei, lo ferirono molto di più di quanto non avesse
effettivamente fatto quel proiettile. Era una conseguenza di Mary che
cercava di salvare lui e John, ma Sherlock l’aveva capito. Le
persone come lui, come Mary e anche come John, hanno un modo tutto
loro per salvare qualcuno: lor potevano capirlo, tutti gli altri, le
persone normali come Molly che non avevano una visione del mondo
così
contorta, non potevano comprenderlo. Magari erano in grado di
cogliere qualche sfumatura, ma nulla di più. E a quel punto
Sherlock
capì che non c’era più nulla che
potesse aggiungere, doveva solo
aspettare che Molly, in cuor suo, capisse e lo perdonasse. E
l’avrebbe fatto, anche se ci sarebbe voluto del tempo.
“Molly…
perdonami” fu l’ultima cosa che disse Sherlock
prima di gettare
il bicchiere ancora pieno di caffè nel cestino accanto alla
scrivania di Molly e avviarsi lentamente verso l’uscita.
Aveva
fatto ciò che doveva, si era scusato per
l’inscusabile, ma le
aveva mentito a fin di bene, perché sperava di salvarla.
Come aveva
detto a Faith – o meglio, quella che credeva essere Faith
–
quando muori tu non senti niente, sono gli altri che vivono la tua
morte. E lui non era pronto per affrontare la morte di Molly.
Probabilmente non lo sarebbe mai stato.
Poi,
a metà strada, la voce di Molly, ancora seduta dietro la
scrivania
lo raggiunse, obbligandolo a fermarsi e voltarsi nella sua direzione.
“L’hai
mai pensato?”
Sherlock
aggrottò le sopracciglia perplesso.
“In
che senso?”
“Hai
mai pensato di amare qualcuno? Di...”
“...amare
te?” concluse per lei.
Molly
annuì.
“Non
ti dirò una bugia Molly. Non ti amo perché non
credo di avere un
cuore che mi permetta di farlo. Posso solo affidarmi a John, Mrs
Hudson e te per capire a grandi linee cosa possa voler dire. So solo
che farò sempre tutto ciò che sarà in
mio potere per proteggervi.
Sempre.”
“Anche
se questo volesse dire amarmi per dieci secondi?”
“Anche.”
Note
dell’autrice:
Ok,
le Sherlolly non sono la mia cup of tea, ma in questo caso mi
è
stato inevitabile, ci saranno in giro duecento trilioni di storie che
raccontano questa scena, ma ho voluto dire la mia. E comunque non
finisce bene, quindi sono rimasta coerente con me stessa u.u
Il
titolo viene da un modo di dire medievale “How many angels
can
dance on the head of a pin?” (quanti angeli possono danzare
sulla
punta di uno spillo) come esempio per identificare quelle tesi o
domande che sono un gran parlare ma senza dare alcuna risposta...
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