Tasselli

di Seagull83
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Chiudo la porta della stanza.

Sento Andrew scendere in cucina, lo immagino sedersi e fissare un punto qualsiasi.

Mi dispiace.

Mi appoggio alla porta e chiudo gli occhi.

Mi dispiace.

So che sono le mie parole a riempirlo d’ansia e pensieri.

Mi dispiace.

Alex mi manca.

Professionalmente, come amico, mi manca il mio preferito, il ragazzo impulsivo a cui ho insegnato a credere nei piccoli umani e nella loro magia.

Mi manca l’uomo che ho plasmato, che ho visto brillare nel buio, che mi ha preso per mano e che mi ha superato rendendomi orgogliosa come se fosse un po’ merito mio lo splendido medico che è diventato, la splendida persona che è.

Non posso far finta che non sia così.

Dopo queste quarantotto ore ininterrotte, dopo tutto questo dolore soffocato.

Sono preoccupata e mi manca.

E oltre a lui questa nostalgia tinta di grigio mi sfregia più di quanto vorrei.

 

Mi manca tutto.

 

Non mi rendo conto nemmeno di comporre il numero.

Sono scivolata lungo la porta, il cellulare tra le mani e una chiamata che non dovrebbe più essere così naturale, non più così immediata.

Per quei pochi secondi prima che dall’altra parte rispondano mi ripeto che le abitudini sono dure a morire, che ho solo bisogno di sentire mia figlia e respirare, per saperla viva, mia, non schiacciata tra lamiere o pronta a essermi portata via.

 

Mi manca tutto.

 

Non mi rendo conto nemmeno della voce carica di sonno che mi risponde.

Il fuso Arizona, sono le tre di notte dall’altra parte.

E’ tardi, in tutti i sensi.

Sofia dormirà.

Loro dormiranno.

Non è un’emergenza.

Attacco senza soffermarmi sul fatto che la voce che mi ha risposto non è quella che mi aspettavo o che volevo.

 

Mi manca tutto.

Rivivo tutto, anche il senso di colpa.

 

 

 

Il silenzio di questa casa è assordante, le lenzuola mi sembrano trappole, gli occhi sbarrati e il sonno che si nega, eppure sono stanca in maniera inverosimile.

Ho desiderato il mio letto per tutte queste ore, dentro al carcere, mentre nasceva una bimba che non conoscerà sua madre e a cui verranno raccontate verità distorte, forse reali ma senza amore, senza carezze. L’ho desiderato nell’istante esatto in cui la video chiamata da quel taxi si è interrotta e il mio orecchio ha percepito un suono che non scorderò mai.

Lamiere.

Per due volte nella mia vita l’ho sentito e non c’è notte che non lo sogni.

Ho voluto il mio letto così intensamente anche mentre parlavo con quel padre che sanguinava senso di colpa ed era il mio, uguale al mio mentre la mia famiglia lottava contro la morte per una mia distrazione.

“E’ spuntato dal nulla.” l’avrò ripetuto mille volte, quel maledetto camion, dal nulla ed ha infranto tutto.

Voglio dormire, non voglio altro, eppure non riesco a far decelerare il cuore, non riesco a far rallentare il respiro, non riesco a chiudere gli occhi.

Tutto così diverso e dannatamente uguale.

Mi basta per scavare nella memoria e frantumare tutto ancora.

Sofia è viva ed è mia.

Lontana ma ancora mia.

Me lo ripeto in loop mentre le lamiere stridono e mi risveglio infinite volte su quel cruscotto con il sapore di sangue in bocca.

Non credo dormirò, aspetterò l’alba e passerà forse.

 

Il cellulare vibra sul comodino.

Stringo gli occhi, come potrò affrontare una nuova emergenza, sono sfinita.

Con la mano lo prendo senza guardarlo, la sveglia segna le 2.30AM.

Non ho chiuso occhio.

 

-Che succede?Dovrei essere di smonto…non c’è un cazzo di pediatra di guardia?-

E’ astio il mio.

Possibile non possano solo per un minuto lasciarmi in pace con i miei fantasmi?

-Arizona?-

Mi metto a sedere in meno di un secondo sul letto, non riesco a capire, sono disorientata, non me l’aspettavo.

-Scusami, mi hai chiamato tu qualche ora fa, ho aspettato dormissero tutti. Mi sono preoccupata, ma forse ti sei solo sbagliata, mi dispiace averti svegliata. Ti faccio chiamare da Sofia come stabilito domani.-

L’ho chiamata si, ha risposto l’altra, ho attaccato è vero.

Solo abitudini dure a morire.

Potrei dire che la chiamata è partita per sbaglio come ha detto lei, potrei chiuderla qui, tanto che cosa risolverei ora?

-Callie…-

Mi aspetta, mi ha aspettato per queste ore, per sapere se stavo bene e no non sto bene.

-Ero solo preoccupata, non fa nulla.-

La sento parlare e non mi accorgo di piangere, il problema è che è stata mia moglie per così tanto tempo, a lei non sfugge.

-Arizona…cosa c’è?-

-Niente…- e non è più un pianto silenzioso perché i singhiozzi rintoccano con i miei respiri.

-Ok, io non ho nulla da fare ora mi spieghi cosa succede e la risolviamo va bene?-

-Sono le tre di notte.-

-Quindi?-

 

Non l’abbiamo mai fatto.

Siamo state insieme più di dieci anni e non siamo mai state al telefono così tanto.

Non ho mai pianto al telefono.

Non ho mai lasciato che mi sentisse sanguinare così per quell’incidente, ogni goccia salata ha portato via un po’ di quel senso di colpa.

Non mi ha mai ascoltato così.

 

E il cuore si stringe a se stesso nel calore di un istante quando sente un tassello sistemarsi, fondersi, tornare a casa.

Si stringe a se stesso in un abbraccio dolcissimo quando Calliope dice…

-Ma è vero…non è stata colpa tua Arizona.-

 





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