Questa
storia non tiene in considerazione i fatti che avvengono in Sherlock Holmes: A Game Of Shadows.
A heart of two.
| Sherlock Holmes movieverse | One shot | Slash | Giallo | Conan Doyle,
Guy Ritchie © |
Se hai giocato è uguale anche se adesso fa
male
Se hai amato era amore, non è mai un
errore
Era bello sentirti e tenerti vicino
Anche solo per lo spazio di un mattino
[1]
In
principio fu l'alcol, poi il corpo ed infine l'abitudine. Era un
rapporto carnale, sanguigno, che cozzava con quello di reciproca stima
che i due uomini avevano. Il giorno e la notte conoscevano due verità
diverse, così dissimili e allo stesso tempo così intrecciate. Sherlock
Holmes e John Watson erano stati compagni di letto per diverse lune,
per il semplice piacere di esserlo. Si erano lasciati scivolare quella
convinzione sociale di immoralità addosso e si erano persi nel
labirinto dei sensi, rotolandosi nelle coperte della routine.
Per il detective tutto era esattamente come doveva essere:
istintivo, privo di sentimentalismi inutili, e squisitamente
ricorrente. Fu questa convinzione a renderlo del tutto impreparato
davanti alla decisione del dottore di sposarsi. A nulla erano valsi i
suoi tentativi di trattenerlo a Baker Street, in quella quotidianità
infinita, insieme a lui. Era stato un infelice rincorrersi di eventi a
cui Holmes non era riuscito a dare una fine. O meglio: non era riuscito
ad ottenere la fine che aveva sperato.
Erano trascorsi tre mesi dalle nozze, il dottor Watson si era
trasferito definitivamente in Cavendish Place e stava tranquillamente
vivendo la sua vita coniugale, divisa tra lo studio medico e il tempo
passato in compagnia di sua moglie. Tutto
procedeva esattamente come lo aveva immaginato. Erano queste le
parole che si ripeteva ogni mattina appena sveglio e un attimo prima di
coricarsi, per convincersi che ogni cosa stesse andando per il verso
giusto. Ma la verità era che il suo più caro amico, con cui aveva
condiviso le esperienze più impensate, stava cercando di tagliare i
ponti con lui. Conosceva troppo bene Sherlock Holmes per non saperlo
fin dal principio e allo stesso tempo da esserne inevitabilmente
ferito, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Inizialmente furono solo
piccole menzogne – perché di questo si trattava – su come non fosse
necessaria la sua presenza durante un caso, seppur banale e del tutto
innocuo; erano discorsi leggeri, fatti a quattrocchi nella loro vecchia sala da pranzo, quando
Watson andava a fargli visita. Finché i loro incontri iniziarono a
farsi sempre più brevi, con Holmes che necessitava ogni volta di uscire
– da solo – proprio nel
momento in cui lui superava la soglia dell’appartamento. Queste visite
mordi e fuggi si conclusero con l’arrivo di un telegramma del
detective, in cui lo informava che avrebbe lasciato Londra, per quelli
che sarebbero potuti essere mesi, per seguire un caso. Poche settimane
dopo Watson venne a conoscenza di una verità che avrebbe preferito non
sentire: Holmes non era mai partito. Nella sua mente era ancora vivida
l’espressione di Mrs. Hudson quando, dopo averla incontrata per caso,
le aveva spiegato il perché non lo aveva più visto a Baker Street:
un’iniziale sorpresa aveva velocemente ceduto il posto a un disappunto
velato di dispiacere e di pietà. Per il dottore, invece, in principio
ci fu solo rabbia. Ebbe l’impulso di precipitarsi al 221B e di
affrontare il detective di petto, ma non lo fece. La rabbia sfumò
presto in rancore e amarezza. I segnali c’erano stati tutti, solo che
lui si era costretto ad ignorarli: Holmes non voleva vederlo, non
gradiva più la sua compagnia in nessun modo. Aggredirlo non sarebbe
stata la mossa più appropriata per ottenere delle risposte, non avrebbe
fatto altro se non metterlo sulla difensiva e portarlo ad usare quella
dialettica tagliente, di cui solo lui era capace, per cercare di
distruggerlo. Per questo motivo ora Watson si trovava lì, nel suo
letto, sveglio alle tre del mattino
a fissare il soffitto, dopo quasi un mese dall’ultima volta che aveva
parlato con Holmes. Aveva deciso che se di mesi aveva bisogno mesi gli
avrebbe dato, ma non era più certo di riuscire a continuare a vivere in
quel modo. La monotonia che lo aveva avvolto stava diventando
insopportabile. Non si era mai realmente reso conto di quanto lo
appagasse partecipare alla risoluzione di un caso, e non avrebbe mai
creduto di provare la mancanza dei discorsi – a volte logorroici – del
compagno. Il suono della sua voce importante che riempiva la stanza,
mentre esponeva le sue teorie o raccontava un semplice aneddoto. Gli
sguardi complici che rivolgeva solo a lui, e a lui soltanto. No, queste
cose sapeva già che gli sarebbero mancate.
Quando, qualche ora dopo, il dottore uscì per raggiungere il suo
studio aveva già deciso che alla chiusura avrebbe fatto tappa a Baker
Street. Tenne stretto quel pensiero, per non concedersi la possibilità
di cambiare idea, fino a che la carrozza si fermò davanti a quella
porta così familiare e l’ombra di un ripensamento lo colse come un
colpo al petto. Adesso che era
giunto fin lì non poteva tirarsi indietro.
Mrs. Hudson non parve del tutto sorpresa dal vederlo nuovamente
sulla sua soglia, anzi, quello che Watson scorse sul suo viso era
qualcosa di molto simile al sollievo: non era un mistero per nessuno
che le fosse sempre risultato difficile gestire Holmes da solo. Dopo i
vari convenevoli con la padrona di casa, salì le scale con un moto di
nostalgia e di lieve apprensione, non del tutto preparato a ciò che lo
aspettava in quella stanza. Bussò con decisione sul legno spesso ed
attese per qualche istante una risposta che non arrivò – non che si
aspettasse il contrario – prima di entrare di sua iniziativa. Ad
accoglierlo trovò quel tipico disordine holmesiano in cui la stanza
veniva lasciata ogni giorno da quando si era trasferito, con libri e
vetreria da laboratorio sparsi nei luoghi più strani accompagnati da
oggetti dalla dubbia provenienza e utilità. L’aria viziata mista
all’odore del fumo gli pizzicò il naso, tanto che trattenne a stento
uno starnuto mentre spalancava la porta.
“Mio caro Watson! Che cosa la porta fin qui?”
Il dottore sussultò impercettibilmente, colto alla sprovvista da
quella voce così familiare che gli era mancato così tanto udire.
Sherlock Holmes se ne stava seduto a testa all’ingiù sulla sua
poltrona e lo osservava con quel suo tipico sguardo indagatore, mentre
teneva tra le labbra la pipa spenta. Appariva esattamente come il
compagno lo ricordava: trasandato, con le ciocche ribelli scomposte sul
capo, la barba di un giorno a scurirgli i lineamenti ed indosso una
camicia che Watson era abbastanza sicuro fosse di sua proprietà.
Sembrava trascorsa solo qualche ora dall’ultima volta in cui lo aveva
visto. Ma le cose non stavano così.
“Mio caro Holmes” esordì il dottore, chiudendosi la porta alle
spalle, “ho saputo che è tornato dal suo lungo viaggio.” Non riuscì,
suo malgrado, a non suonare ironico e lievemente tagliente. Si rese
conto in quel momento che mantenere la calma gli sarebbe risultato più
ostico di quanto credesse, perché, nonostante tutto, era ancora in
collera con lui per come si era comportato. Non gli perdonava
quell’atteggiamento così infantile e irrispettoso. Il detective, dal
canto suo, gli rispose con un sorriso sghembo:
“Così pare.”
“È stato un caso difficile?”
“Molto.”
Watson volse lo sguardo altrove il tempo necessario a sbollire i
nervi.
“E di cosa si è occupato, di grazia?”
“Sono lieto di sentirglielo chiedere! Vede” si ribaltò su se
stesso, guardandolo con l’aria di chi non ha nessuna intenzione di
farsi prendere in fallo, “si è trattato di una faccenda davvero
interessante…”
“Oh la prego, mi risparmi queste inutili fandonie!” Sbottò il
dottore. “Sappiamo bene entrambi che non ha mai lasciato questo
appartamento!”
“Lo sa, sono veramente impressionato dal fatto che sia riuscito a
trattenersi così tanto dal dirlo.”
Watson avanzò di qualche passo nella stanza liberandosi del
cappotto e del cappello, che appese sull’attaccapanni.
“Non si faccia beffe di me, Holmes.” Lo ammonì puntandogli contro
il dito indice. “Perché diamine si è inventato questa farsa?”
“Ritengo che lei lo sappia già, ma visto che vuole sentirselo
dire: non volevo vederla.”
Il tono e la leggerezza con cui pronunciò quelle parole fecero
vacillare il dottore. Holmes appariva quasi annoiato dalla situazione,
come se si trovasse a dovergli spiegare una cosa estremamente
elementare come l’allacciarsi le scarpe. Come se non gli importasse. Ma
al detective era sempre importato fin
troppo di lui e della loro amicizia, e Watson non aveva alcun
dubbio sul fatto che stesse recitando.
“Dopo tutti questi anni trascorsi insieme è solo questo che ha da
dire? Non volevo vederla,
così, senza alcuna spiegazione?”
“Non ritengo ne meriti una.”
“Non ritiene…? Holmes, ma si ascolta quando parla?!” Prese un
respiro per cercare di calmarsi. “Per quale motivo continua a
nascondermi la verità?”
“Io non le sto nascondendo un bel niente.” Il detective si alzò e
si mosse verso il camino, dove vi si appoggiò con una spalla. “È lei
che cerca altre risposte che non esistono.”
“Lei non prende mai una decisione senza una motivazione logica.”
Holmes rimase in silenzio, osservandolo con attenzione, mentre
masticava leggermente il bocchino della pipa. Quando abbassò lo sguardo
riprese a parlare:
“Torni a casa, Watson.”
Il dottore era sempre più sgomento dal suo atteggiamento.
“Non sono intenzionato a farlo.”
“Questa non è più casa sua,
non può più concedersi il lusso di decidere di restare.”
“È ancora questo il problema? L’essermi sposato con Mary?”
Il detective strinse impercettibilmente la mano intorno alla pipa
e la infilò nella tasca dei pantaloni.
“La smetta di cercare di indagare, si sta solo rendendo ridicolo.”
“E allora mi aiuti a capire!”
“Non c’è niente da capire, Watson! La smetta!”
“Dopo tutti questi anni passati l’uno affianco all’altro non può
pretendere che io me ne vada senza sapere il perché non vuole più
vedermi!”
Holmes chiuse gli occhi, cercando di rimanere impassibile:
“Watson…”
“Almeno una volta nella vita potrebbe comportarsi come una persona normale!” Proruppe il
dottore, alzando il tono della voce. “Ed essere aperto e sincero con
me, invece di essere il solito–”
“Cosa vorrebbe che le dicessi, Watson! Che credevo che non sarebbe
mai cambiato niente, che saremmo invecchiati insieme e che la sua
assenza mi distrugge? È questo che vorrebbe sentirsi dire?!”
Quando il suono delle sue parole si spense calò il silenzio. Mai,
in tutta la loro vita vissuta assieme, John Watson aveva visto Holmes
così in collera e a disagio al tempo stesso come lo era in quel
momento. Quella maschera che si portava sempre appresso – e che fino a
qualche istante prima aveva cercato di tenere ancora addosso – era
caduta in mille pezzi davanti ai suoi occhi. Il dottore non credeva
sarebbe mai davvero successo. Mai avrebbe creduto di assistere a una
simile disfatta. E il dolore che provò al petto nel scoprire cosa vi
era sotto a quel travestimento gli mozzò il fiato.
Sherlock Holmes prese un respiro profondo e, come era caduta, la
maschera tornò al suo posto; ma Watson ora poteva contarne il numero
esatto delle crepe.
“È piuttosto ovvio che
il motivo sia perché ha preso moglie.” Riprese a parlare con calma,
senza guardarlo direttamente. “Non posso certo coinvolgerla nei miei
casi ora che sta mettendo su famiglia. Sarebbe una grave mancanza da
parte mia.”
Watson chiuse gli occhi, stringendo le labbra. Di nuovo menzogne.
“Holmes.” Lo chiamò, ma il detective non pareva intenzionato ad
interrompere il proprio discorso.
“Lei ora ha una moglie che aspetta il suo ritorno e sono certo che
ben presto…”
“Holmes, la smetta.”
“…ci saranno anche dei piccoli Watson che trotterelleranno per
casa. Capisce bene anche lei che…”
Al dottore bastarono poche falcate per annullare la distanza che
c’era tra di loro ed arrivare a fronteggiarlo per poggiare le mani
sulle sue spalle.
“Sherlock,” disse con un tono lieve, “la smetta.”
Il detective alzò lo sguardo su di lui, sorpreso, per poi
allontanare il contatto con un gesto deciso.
“In verità mi domando cosa ci faccia ancora qui, visto che le ho
chiesto apertamente di andarsene.”
Watson lo guardò in silenzio per qualche istante prima di
indietreggiare di qualche passo e ricominciare a parlare:
“Invecchiare insieme,” avrebbe giurato che Holmes si fosse
irrigidito a sentirgli pronunciare quelle parole, “suonava allettante,
vero?” Sorrise tristemente, aspettando un commento che non ottenne.
“Ha trascorso la vita a fingere di non provare emozioni. E guardi
dove ci ha portato.”
“Le sue scelte ci hanno
portato dove siamo ora.”
Astio. Watson poteva percepirlo perfettamente anche se l’altro
cercava di nasconderlo. Sapeva cosa stava per accadere: Holmes non
gliela avrebbe mai data vinta, lo avrebbe attaccato verbalmente con
l’unico intento di distruggerlo. Il dottore non era intenzionato a
lasciarglielo fare.
“Sarebbe molto ipocrita da parte mia dire che non sono scappato,
per cui non lo farò. È esattamente ciò che è successo: sono fuggito, ho
scelto la via più facile, perché quello che stava accadendo mi
spaventava. Mi spaventava ciò che provavo ogni volta che scivolavamo
nei letti l’uno dell’altro. E mi spaventava ancora di più quello che
provavo nello svegliarmi sempre in un letto vuoto. Quando ho conosciuto
Mary ho capito dal primo istante che era la mia occasione di fare
quello che la società si aspettava da me. Ho lasciato questo
appartamento, è vero, ma non sono in grado di rinunciare alla sua
presenza nella mia vita. Meno che mai se non è intenzionato a darmi una
spiegazione logica a tutto questo. Per cui la prego, Holmes, smetta di
mentirmi.”
Aveva parlato rapidamente, con l’orgoglio soffocato da quella
confessione così intima e così vera e necessaria per ottenere la
fiducia di Holmes ancora una volta. Quest’ultimo era rimasto
perfettamente fermo ad ascoltare, senza un cenno di reazione alle sue
parole; il dottore però sapeva che la sua mente stava lavorando
freneticamente – come sempre.
“Voglio che se ne vada.” Esordì infine.
Watson sospirò con aria affranta, ma Holmes continuò a parlare:
“Perché credo di essere irrimediabilmente innamorato di lei.”
Quando anche l’ultima sillaba ebbe raggiunto le sue orecchie,
Watson si ritrovò a boccheggiare: il cuore aveva iniziato a martellare
insistentemente nelle tempie impedendogli di trovare le parole giuste
da dire; così rimase immobile e muto, mentre il detective lo guardava
con fare deciso, pronto ad incassare il contraccolpo che le sue parole
avrebbero avuto.
“Non riesco a pensare a niente e a nessun altro. Non riesco a
dormire, non riesco a respirare, non riesco a mangiare e la amo. La amo
in ogni momento, in ogni minuto di ogni giorno[2].
E ogni volta che se ne va ne esco inevitabilmente sconfitto. Non so
capire la logica di questa cosa, io so solo... che la amo. È
incredibile quante volte lo sto dicendo[3].”
Sorrise senza allegria, mentre una lieve ombra di disagio
traspariva dai suoi occhi.
“All’inizio è stato strano e angosciante: non riuscivo a legare i
punti, a comprendere – e lei sa quanto io odi non comprendere. È
imbarazzante ammettere quanto tempo ho effettivamente impiegato a
capire cosa stava succedendo: non sono avvezzo a queste cose, non so
gestirle – non ho mai voluto gestirle – e ora non sono in grado di
affrontare questa situazione.” Lo guardò negli occhi prima di
continuare: “È per questa ragione che non voglio vederla mai più.”
Il dottore mantenne il contatto visivo, ma rimase in silenzio:
tutto ciò cui stava pensando gli suonava così stupido e inadeguato.
Troppe volte aveva vagheggiato che Holmes si confessasse tra le
lenzuola; che tra un bacio sporco e un altro si lasciasse sfuggire un
sentimento soffocato, a cui lui avrebbe risposto con slancio. Eppure in
quel momento si sentì congelato nella consapevolezza che nessuno
slancio gli era ormai più concesso. Sentì la fede stargli
improvvisamente stretta, come durante quelle notti in cui non riusciva
a dormire immaginando un violino suonare – il suo violino suonare. La strofinò
con il pollice, pensando a quanto era stato sciocco ad andarsene e allo
stesso tempo che era stato giusto così, che non sarebbero potuti
rimanere coinquilini per sempre senza destare alcun sospetto o male
lingua. Lui però non era realmente pronto a lasciarsi per sempre alle
spalle quell’appartamento – a lasciarsi per sempre alle spalle lui –
nonostante la spiegazione del detective. Men che meno ora che aveva
ascoltato la spiegazione del detective.
“Non osare.” [4]
La voce di Holmes lo aveva raggiunto come un sibilo. Si rese conto
di aver abbassato lo sguardo solo quando dovette sollevarlo nuovamente
sull’altro, che lo ricambiò con fare accusatore.
“Non osare neanche lontanamente pensare di essere così egoista e
ipocrita.”
Il dottore si mise sulla difensiva: non si era mai davvero
abituato all’invasività di cui era capace il detective nei confronti
della sua mente.
“Non ha motivo di accusarmi di una cosa simile visto che non ho proferito parola.” Rispose
con stizza.
“Era chiaro come il sole cosa stesse pensando.”
“Il fatto che stessi pensando a qualcosa non significa che la
farò!”
La situazione si stava nuovamente riscaldando.
“Allora per quale motivo si trova ancora qui, dottore? La sua
spiegazione l’ha avuta, quella è la porta.” Concluse la frase con un
ampio gesto del braccio ed un’espressione talmente finta che fece
innervosire ancora di più John Watson.
“Non abbiamo finito di parlare.” Controbatté.
“Io credo di sì invece.” Il detective si staccò dal camino e fece
un passo verso di lui. “E in fede mia, Watson, non capisco cosa possa
spingerla a desiderare di restare qui, ora che finalmente ha fatto ciò che la società si aspettava
da lei.” Si esibì in un sorriso carico di ironia.
Sapeva qual era il motivo. Il dottore si rifiutava di credere che
proprio Holmes non avesse inteso il significato della sua confessione.
Il suo unico intento era quello di colpire a fondo come un pugnale
molto affilato che viene poi girato più e più volte nella ferita. E
allo stesso tempo cercava di allontanare l’attenzione da se stesso.
“La prego, la smetta.”
“Smettere di far cosa? Ha detto che vuole ancora parlare e ora mi
chiede di non farlo? È un po’ confuso amico mio.”
“Sta tergiversando.”
“Questo è lei a crederlo.”
“Ci conosciamo da anni – che a volte mi sembrano secoli – crede
che non sia in grado di riconoscere quando cerca di cambiare
l’argomento di conversazione?”
“Da quando è diventato così vanitoso? Ostentare le proprie
capacità, che cosa di cattivo gusto!”
“Detto da lei suona veramente ridicolo.”
“Seriamente dottore, fatico a riconoscerla. Questo atteggiamento
non è da lei.”
“Sono sempre stato così, forse non lo ricorda bene.”
“Oh, io ricordo tutto perfettamente.”
Ad ogni scambio di battute che si scambiavano, i due uomini erano
avanzati lentamente l’uno verso l’altro sfidandosi con lo sguardo.
“Anche io. Quindi non riuscirà a cambiare discorso.”
Sherlock Holmes arricciò il naso con disappunto, strappando un
sorrisetto compiaciuto a Watson.
“Che cosa ci guadagna a continuare quell’argomento? Finiremmo per
litigare, come ogni singola volta.”
“Preferisco litigare con lei che fare l’amore con chiunque altro.”[5]
Il detective contrasse la mandibola prima di rispondere:
“Ma lo fa.”
In quell’istante il dottor Watson realizzò che non aveva alcuna
possibilità di uscire vincitore da quella battaglia. Aveva lottato con
determinazione, riuscendo a tenere testa al detective, ma non sarebbe
mai riuscito a fargli cambiare idea. Il torto che gli aveva fatto – e
che continuava a fargli – era troppo grande.
Fu con quel pensiero in testa che ebbe l’impulso di sporgersi
verso Holmes e impadronirsi della sua bocca. Poté percepire
perfettamente il compagno smettere di respirare, senza respingerlo o
contraccambiare, mentre azzardò a prendere il suo viso tra le mani.
Quando il contatto si interruppe il detective socchiuse le labbra e
rilasciò un sospiro lieve, tenendo gli occhi chiusi. Watson mantenne i
palmi sul suo volto mentre lo osservava come se fosse la prima volta.
“Se un giorno dovesse cambiare idea e volesse riavermi al suo
fianco, sappia che sarò in prima linea. Perché anche io sono
irrimediabilmente innamorato di lei.”
Parlò sommessamente, come se stesse confessando il più grande
segreto mai esistito al mondo; e in un certo modo era proprio di questo
che si trattava.
Forse nel dire quelle parole era stato un egoista ugualmente,
poiché lo avrebbe lasciato con l’idea che sarebbero potuti essere
felici se non si fosse sposato. E così si sentiva John Watson: un
egoista ipocrita, come lo aveva definito il compagno pochi minuti
prima. Ma sapeva che se ne sarebbe pentito per il resto della
vita se non avesse confessato apertamente i propri sentimenti.
Holmes, dal canto suo, non lo rimproverò per tale atteggiamento.
Si limitò a restare in silenzio, in un comportamento così poco da lui
che amava avere sempre l’ultima parola.
Il dottore lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, capendo che
quello era il momento adatto per andarsene. Si strofinò il naso e
schiarì la gola, allontanandosi verso l’attaccapanni. Indossò cappotto
e cappello e si voltò verso il suo vecchio coinquilino, che lo stava
osservano da dove lo aveva lasciato.
“Arrivederci, Holmes.”
“Arrivederci, Watson.”
Il dottore fece un cenno con il cappello e si diresse verso la
porta. Aveva già poggiato la mano sulla maniglia quando parlò:
“Non le ho mai chiesto perdono. Ritengo che sia un’enorme mancanza
da parte mia, per cui lo farò adesso. Spero riesca a perdonarmi anche
questo.”
Così dicendo, se ne andò.
Sherlock Holmes sospirò, sperano per un istante di vedere la porta
aprirsi nuovamente; ma il suo Watson era un uomo d’onore e se aveva
acconsentito a interrompere i loro rapporti sapeva che sarebbe andato
fino in fondo.
Provò un’improvvisa spossatezza e si lasciò accasciare sul
pavimento, per poi sdraiarsi e tirare fuori dalla tasca dei pantaloni
la pipa, di cui tornò a mordicchiare distrattamente il bocchino mentre
guardava il soffitto.
Non era uno sprovveduto: non aveva mai avuto alcun dubbio che
Watson un giorno avrebbe varcato la soglia pretendendo spiegazioni. Mai
avrebbe però creduto che le cose gli sarebbero sfuggite di mano in
maniera così plateale. Era crollato, come il più inetto degli uomini
sotto al peso delle emozioni. Se suo fratello lo fosse venuto a sapere
lo avrebbe deriso a vita. O forse no?
In quel momento la sua mente stava correndo rapida e instancabile,
ripercorrendo ogni singola frase pronunciata quella sera. Ogni
espressione di Watson, ogni inflessione della voce… la pressione delle
sue labbra su quelle del detective. Era tutto così chiaro e vivo.
“Preferisco litigare con lei che
fare l’amore con chiunque altro.”
Sorrise malinconicamente al nulla.
“Anche io, Watson. Anche io.”
Avere un cuore in due non è facile
Al massimo diventa un’abitudine
Che se ti amo io poi ti fermi tu
Chi resta ne ha di più
[6]
•••
[1] Non
è mai un errore, Raf
[2] “Non riesco a pensare a niente e
a nessun altro. Non riesco a dormire, non riesco a respirare, non
riesco a mangiare e ti amo. Ti amo in ogni momento, in ogni minuto di
ogni giorno.”, Grey’s Anatomy
[3] “Non so capire la logica di
questa cosa, io so solo... che ti amo. È incredibile quante volte lo
sto dicendo.”, L’amore non va in
vacanza
[4] Trovo che il tu sia molto più
incisivo in questa parte. “Non osi” suonava, come dire?, più blando
nella mia testa, non abbastanza carico di astio.
[5] “I’d rather fight with you than
make love with anyone else.”, The
Wedding Date
[6] Un
cuore in due, Francesca Michielin
•••
Haibara Stark ~
Una sera mi sono chiesta: come immagino realmente il rapporto tra
Holmes e Watson? Immagino un amore a senso unico o ricambiato? Watson è
scappato o è realmente innamorato di Mary nel mio headcanon ideale? Ed
è nata questa storia.
Sebbene ne sia molto affezionata non sono del tutto convinta di aver
fatto un buon lavoro. Spero vi piaccia almeno un poco.
Non so se Holmes possa essere considerato (molto) OOC o meno.
L’interpretazione di Robert mi trasmette sempre uno Sherlock Holmes
molto umano e capace di provare sentimenti molto forti (la gelosia in
primis). Per questo riesco a vederlo mentre crolla per un lungo attimo
davanti al suo Watson e gli confessa quello che prova.
Anyway, grazie di aver letto fino a qui!
Un abbraccio a tutti.
|