Rubicone
10
gennaio 49 a.C.
L’ultimo,
pallido tremolare della stelle non si era ancora
spezzato del tutto, quando Giulio Cesare uscì dalla sua
tenda.
A oriente il riverbero
lontano dell’aurora rischiarava
debolmente un cielo livido, allora Cesare spostò lo sguardo
–era torbido, nero
e torbido- verso occidente.
Il fragore del Rubicone si
udiva ovattato, immerso in quel
silenzio assoluto proprio dell’alba, quando tutto tace e
l’unico sospiro è
quello del vento.
Il fiume scorreva
tranquillo davanti a lui, come un serpente
di vetro che snodava, sinuoso, le sue spire in quella valle stretta e
angusta.
Brandelli di nubi plumbee
precipitavano sulla sua superficie,
e Cesare li guardò a lungo, chiedendosi silenziosamente cosa
nascondessero
quelle correnti che s’infrangevano, spumeggianti, sul
pietrisco fine della
riva.
Poi volse lo sguardo verso
le stelle, là, dove era ancora
notte.
Poteva veramente fare
ciò che si era proposto?
Lui se lo chiese
più volte, rimanendo lì, immobile come una
statua di marmo, rigida mentre il sole sorgeva allungando discretamente
le sue
dita sottili.
Era un accavallarsi
d’interrogativi a cui non sapeva dare
risposta; dubbi e incertezze che nascondeva in fondo ai suoi occhi,
sperando
che non emergessero, come fugaci forme di chiaroscuri, in un istante di
colpevole debolezza.
Poteva farlo?
Attraversare quel fiume,
come recidendo l’ultimo filo con se
stesso, ordinare la marcia e osservare con sguardo indecifrabile i suoi
uomini
stritolare quel serpente di vetro.
Violare tutte le leggi,
umane e divine, assassinare
definitivamente quel Cesare giovane, ingenuo, fresco di vita; un Cesare
già
morto – quando? si chiese, per poi rendersi conto di non
voler conoscere la
risposta.
Un vento freddo aveva
cominciato a spirare, allora lui piegò
le labbra sottili in un sorriso amaro.
Sapeva che chiunque, se
solo lo avesse osservato con
attenzione, avrebbe potuto scorgere il vuoto nei suoi occhi, neri e
torbidi, le
fiamme dell’ambizione che lo stavano bruciando, quel lago
aspro e infinito di
lacrime asciutte e urla mute, pietrificate
dietro le labbra.
Ma nessuno sembrava farci
caso – ciechi, erano
tutti ciechi davanti all’evidenza.
Era un’aurora
buia, quasi incapace di sorgere dietro la
linea dell’orizzonte, e lui continuò a domandarsi
se potesse veramente farlo.
Dopo tante battaglie
vinte,
dopo tanto sangue
sparso,
dopo tante veglie
in attesa dell’alba.
Poteva farlo?
Affrontare Pompeo,
dichiarare guerra al Senato scagliando
lontano quella maschera che aveva indossato per una vita intera.
Spostò
nuovamente lo sguardo, questa volta verso il fiume; i
suoi occhi sembravano cercare un appiglio, da qualche parte, forse
sulle creste
dei monti o in quelle correnti torbide e fredde.
Erano incerti.
Troppo.Soli.Infine.
Il Rubicone continuava a
scorrere, il cielo livido era
rischiarato da un’alba assente.
Poteva
farlo?
Sapeva che sarebbe stato
solo contro tutto e contro tutti,
notti solitarie e fuochi gelidi; quel lago aspro e infinito avrebbe
travolto
ogni argine, gonfio e malevolo.
Poteva farlo?
- Comandante?
Sentì qualcuno
chiamarlo, ma non si volse; spostò lo sguardo
verso quell’aurora oscura, e si disse che era troppo tardi
per i ripensamenti. Un
luce folle –determinata?- gli illuminava il volto.
- L’hanno voluto
loro
Mormorò a bassa
voce, poi si rivolse all’attendente.
- Date la sveglia con le
trombe, che gli uomini siano pronti
ad attraversare il Rubicone al mio ordine
Cesare non poteva vedere
il proprio viso, ma lo immaginò
pallido e incavato, con gli occhi neri e vuoti, come quello di un
morto.
Come.Quello.Di.Un.Morto.
*
Alla fine il sole era
sorto, lacerando le nubi e illuminando
la valle.
Cesare si
scostò una ciocca dei capelli mori dietro un
orecchio, e si chiese, per un ultima volta, se fosse giusto
ciò che stava
facendo.
Poi si disse che,
sì, era veramente troppo tardi per i
ripensamenti.
Avrebbe sciolto quegli
interrogativi con un unico, deciso
colpo di spada, affrontandone le conseguenze a testa alta, senza
guardarsi
indietro.
- Alea
iacta est
Sussurrò, poi
diede l’ordine per la marcia.
Osservò i suoi
uomini attraversare il fiume con sguardo
indecifrabile, e gli parve che il Rubicone somigliasse veramente a un
serpente
agonizzante, stritolato sotto i suoi piedi.
Sorrise. Da qualche parte,
lontano, la sua maschera
s’infranse al suolo.
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