Tornare
a Trenwith gli faceva uno strano effetto. Le ultime volte che era
stato in quella dimora, la sua vita aveva preso una pericolosa deriva
e aveva perso tutto quello che di caro aveva al mondo.
Si
fece annunciare, c'era un sommesso via vai nel salone. Chi per
affetto, chi per semplici relazioni d'affari, erano tutti lì
a porre
l'ultimo saluto ad Elizabeth Warleggan.
Ross
entrò nel salone principale, deglutendo. Era tutto
così diverso da
come lo ricordava, quella era la casa della sua infanzia, dove
scorazzava con Francis, chiacchierava con lo zio Charles che spesso
rimproverava lui e suo padre per la loro condotta e poteva vedere
ancora, con un po' di immaginazione, zia Agatha seduta al tavolo,
intenta a fare i tarocchi. Era tutto cambiato da allora, c'erano gli
stemmi dei Warleggan alle pareti adesso e l'atmosfera sembrava cupa e
rarefatta. Di ciò che era stata quella casa, dei ricordi
della
famiglia Poldark che si portava appresso, pareva non essere rimasto
più niente.
L'ultimo
Poldark, Geoffrey Charles, era stato allontanato e mandato in
collegio e ora se n'era andata anche Elizabeth che comunque rimaneva
la vedova di Francis e in un certo senso un legame con la famiglia.
Sfiorò
con le dita la superficie fredda del grosso tavolo del salone,
sentendosi a disagio. La morte di Elizabeth, giunta come un fulmine a
ciel sereno, era un'ulteriore chiusura con un passato che non
esisteva più. Era una storia finita già da molto
ma ora trovarsi
lì, in quell'ambiente famigliare e allo stesso tempo
sconosciuto,
gli dava l'ulteriore conferma che i tempi erano cambiati e che la sua
vita, da lì in avanti, avrebbe dovuto essere proiettata su
altro.
Aveva una moglie a casa, che amava più della sua stessa vita
e che
aveva lasciato a malincuore quella mattina, perché
indisposta. E due
bambini meravigliosi che lo rendevano un padre fiero e orgoglioso.
Non chiedeva altro, non voleva altro! Ma Demelza aveva ragione,
doveva fare quell'ultimo passo per chiudere quel capitolo della sua
vita e benché fosse doloroso e penoso, sapeva che andava
fatto.
George
scese le scale, raggiungendolo nel salone. Era pallido, sofferente e
di certo prostrato dalla morte della moglie. Per quanto lo odiasse,
in quel momento avvertiva il suo dolore come qualcosa di autentico.
"Sono venuto a porgere le mie condoglianze, George" –
disse, sforzandosi di essere gentile.
Il
suo acerrimo nemico, annuì. C'era rabbia nel suo sguardo,
astio
mentre lo guardava. "Ross, è molto che non ci si vede!
Ultimamente sono abituato a trattare di più con vostra
moglie mio
malgrado, come ben sapete".
Ross
sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Anche in quelle
circostanze,
George non riusciva a non essere acido. Ma decise di essere
accomodante, non doveva essere un momento per niente facile per lui,
aveva appena perso sua moglie e si era ritrovato solo con due figli
piccoli, di cui una nata da poche ore. "Credo che non sia il
momento di pensare al consiglio d'amministrazione della Warleggan
Bank, giusto?".
George
annuì di nuovo, continuando a guardarlo in cagnesco. "Siete
venuto a fare visita, Ross?".
"Sì".
"Non
è un bello spettacolo, vi avverto".
Ross
scosse la testa, irritato. "Non lo ritengo uno spettacolo ma
piuttosto un qualcosa di pietoso. La morte di una persona giovane
è
sempre una disgrazia".
"Soprattutto
quando quella persona giovane è stata un nostro antico
amore, vero?
O forse non così antico come si vuol far credere...".
Ross
sospirò, deciso a non cogliere la provocazione. "Chiunque
sia
stata, rimane sempre una tragedia".
George
gli indicò le scale. "Andate, la strada immagino che la
sappiate di già. Oggi tornerà anche il vostro
amico dottore che
magari è pure responsabile di quanto successo".
A
quell'accusa non troppo velata, Ross si voltò verso di lui,
piccato.
"Dwight è un ottimo medico e sia io che voi sappiamo che non
ha
colpe di quanto successo. La causa la sa solo Elizabeth e suppongo
che si sia portata il segreto con se e che non lo sapremo mai.
Incolpare persone innocenti non ve la riporterà indietro". E
detto questo, si avviò verso le scale senza aspettare una
risposta.
Gradino
dopo gradino, raggiunse il piano superiore, percorrendo quel
corridoio che aveva visto mille volte e che conosceva a memoria.
Davanti
alla camera matrimoniale, due uomini sostavano parlottando. Li
riconobbe sommariamente, dovevano essere cugini di George. Beh, non
gli importava, li superò ed entrò nella stanza.
Dovette fermarsi a
pochi passi dall'ingresso, però. Un odore nauseabondo, come
di un
cadavere in decomposizione, impermeava l'aria nonostante la finestra
fosse aperta. Non c'era nessuno nella stanza, eccetto lui. Si mise un
fazzoletto sul naso e, a piccoli passi, pieno di angoscia e terrore,
si avvicinò al letto.
Lei
era lì... E non era più lei. "Che cos'hai fatto?"
- le
chiese, sapendo che non avrebbe mai potuto rispondergli. Gli si
strinse il cuore al vederla consumata, con la pelle bluastra, con
quell'espressione sofferente impressa indelebilmente nel suo viso.
Dwight gli aveva detto che era stata una morte atroce e non dubitava
di quanto gli aveva raccontato. Elizabeth era la visione fatta
persona della sofferenza, del dolore, del male che ti fa gridare
senza speranza di sollievo.
Era
la ragazza che aveva amato da giovane, il suo primo idealizzato
amore, quello che per tanti anni aveva tormentato la sua anima e il
suo cuore impedendogli di vedere pienamente il tesoro di moglie che
aveva accanto.
Ricordava
tutto di lei, anche se ormai gli appariva come un'estranea. Ricordava
il loro primo incontro, le innocenti promesse prima che lui partisse
per la Virginia, il dolore provato quando si era sposata con Francis,
il modo in cui si era sentito tradito e nonostante tutto avesse
continuato ad amarla. Ricordava quella notte terribile, dove rancore
e passione si erano fusi nel più grande errore della sua
vita e di
come poi si fosse sentito confuso, alla deriva, senza nessun appiglio
a cui aggrapparsi. Aveva fatto un torto a lei, oltre che a Demelza,
quella volta. E si chiese se, a distanza di anni, quell'errore non
avesse provocato la morte della donna che aveva davanti.
Ma
in fondo era inutile pensarci, darsi delle risposte. Era morta, solo
questo contava. Elizabeth non c'era più e non sarebbero
più
esistiti per lei un futuro, la maternità, giornate belle
intervallate a giornate brutte, il veder crescere i suoi figli,
vederli farsi uomini e donne e realizzarsi nella vita. Era morta e
per sempre, in tutti, sarebbe rimasta immutabile nella sua giovinezza
mai sfiorita.
Non
l'amava più da tanto e forse non l'aveva mai amata di
quell'amore
con la A maiuscola che viveva con Demelza, ma in quel momento non
poteva dire di non provare un sentimento di affetto unito a pena e
rammarico per ciò che era stata e per ciò che non
avrebbe mai più
potuto essere. Si tolse il fazzoletto dal naso e, nonostante la
puzza, si chinò su di lei, baciandola sulla fronte. "Addio
Elizabeth... Buon viaggio" – disse, trattenendo a stento le
lacrime e la sua commozione.
Si
allontanò poi dal letto, le diede un'ultima occhiata ed
uscì a
passi spediti dalla stanza. Era stato difficile, penoso, aveva
bisogno di una boccata d'aria. Ma in un certo senso averlo fatto,
esserci stato, lo faceva sentire più leggero. Sua moglie
aveva
ragione, lo doveva ad Elizabeth e lo doveva a se stesso quell'addio.
In
lontananza, nel corridoio, sentì la neonata piangere.
Incuriosito,
forse desideroso di ritrovare in lei tratti di Elizabeth che in un
certo senso l'avrebbero fatta vivere ancora in un certo senso, si
avvicinò. Ma a un certo punto dovette fermarsi
perché, in una delle
stanze del corridoio, vide qualcosa che attirò negativamente
la sua
attenzione.
Un
bambino dell'età di Clowance, dalla testolina piena di
capelli ricci
e neri, se ne stava tutto solo nella sua stanza, seduto per terra sul
tappeto, intento a ordinare dei soldatini giocattolo. Ross
ricordò
di quanto Demelza gli aveva detto di Valentin, dei suoi dubbi circa
la sua paternità e di quanto lui aveva affermato per
tranquillizzarla. Quel giorno non gli aveva mentito, non sentiva
Valentin come un figlio, nemmeno ora che lo aveva davanti per la
prima volta. Tutto quello che i suoi occhi vedevano era un bambino
piccolo, col cuore a pezzi, lasciato solo nel suo dolore e senza
nessuno accanto a dargli una parola di consolazione. Pensò
ai suoi
bambini e a come sarebbero stati disperati se avessero perso la loro
mamma e gli venne una fitta al cuore a quel pensiero che
scacciò
subito dalla mente. Però avrebbe voluto fare qualcosa per
lui,
nonostante tutto, entrare, cercare di distrarlo, parlargli, magari
giocare un attimo con con quei soldatini. Ma non poteva farlo, per
Valentin lui era uno sconosciuto e di certo avrebbe mal tollerato la
sua presenza in un momento del genere.
Una
cameriera che giungeva dalla camera dove aveva sentito i vagiti della
piccola Ursula, venne in suo aiuto, togliendolo dall'imbarazzo.
Conosceva quella donna, era stata tanti anni al servizio di suo zio
Charles, prima dell'arrivo dei Warleggan in quella dimora. "Signora
Tabb, potete venire per favore?".
La
donna spalancò gli occhi nel vederlo, decisamente sorpresa.
"Signor
Poldark, sono anni che...".
Scosse
la testa, non era tempo di convenevoli. Indicò il bimbo che,
incurante, con fare meccanico allineava e buttava a terra i suoi
soldatini. "Perché quel bambino, in un momento del genere,
è
lasciato solo? Santo cielo, che qualcuno gli dia retta, ha appena
perso la madre!".
La
signora Tabb annuì, intimidita dal suo tono. "Si... Si
signore!
Ma mister Warleggan ha detto di non perdere d'occhio la piccola
Ursula e io non riesco a...".
"Ursula
ha una balia, immagino! Una volta nutrita e pulita, non ha
particolari esigenze, è una neonata. Ma quel bambino capisce
e
soffre, prendetevene cura!". Lo disse come un ordine, senza
ammettere repliche, fregandosene del fatto che quella ormai era la
casa di George e che lui non poteva dettarvi regole. Non poteva fare
altro per Valentin se non quello. Non era suo padre, nonostante
tutto, nonostante forse i legami di sangue, quel bambino era e
sarebbe sempre stato di George. E George avrebbe dovuto prendersene
cura!
Diede
un'ultima occhiata al piccolo, chiedendosi se lo avrebbe rivisto.
Poi, con un sospiro, scese dalle scale, si mise il tricorno in testa
e senza salutare nessuno, lasciò Trenwith. Vedere Elizabeth
in
quello stato gli aveva messo addosso una strana ansia e urgenza di
tornare a casa. Demelza quella mattina non stava bene e lui non
vedeva l'ora di vederla per accertarsi che il suo malessere si fosse
risolto. Galoppando, si rese conto che aveva paura, un terrore folle
che qualcosa di improvviso e sconosciuto potesse portargliela via.
Aveva già provato il dolore di perderla e non era in grado
di
immaginare di sopportarlo di nuovo, soprattutto con la consapevolezza
che forse sarebbe stato per sempre. Non pregava spesso ma mentre
tornava a casa chiese a Dio di proteggere sua moglie e i suoi
bambini. Non gli importava di nient'altro, solo che loro stessero
bene.
Arrivò
a casa che pioveva, l'acqua era ghiacciata e punzecchiava il suo viso
in maniera fastidiosa. Il cielo imbruniva e, nonostante fosse ancora
relativamente presto, sembrava già sera. Quando
entrò in casa,
trovò i bambini che disegnavano nella libreria e Prudie e
Jud in
cucina, a preparare lo stufato. "Dov'è Demelza?" - chiese,
con urgenza.
Prudie
guardò verso le scale, continuando a rimestare il brodo. "Ha
mangiato quasi nulla a pranzo e poi si è messa a letto. Non
si è
ancora svegliata ed è andato Jud a prendere il signorino a
scuola".
Ross
si accigliò, gli si contorse lo stomaco. Non era da Demelza
rifiutare il cibo e soprattutto non era da lei dormire così
tanto.
Era sempre piena di energie, insancabile, infaticabile e sì,
a tutti
poteva capitare una giornata storta ma in quel giorno tutto lo
rimandava a pensieri foschi.
Diede
un bacio ai bambini e poi corse in camera, da lei.
La
loro stanza era avvolta dalla penombra, l'acqua picchiava
furiosamente sulla finestra e il camino scoppiettava senza sosta,
regalando calore all'ambiente.
Si
avvicinò al letto, si sedette accanto a lei che, col viso
sereno,
dormiva avvolta in una coperta di lana. "Demelza?".
La
donna aprì gli occhi, assonnata, gli prese la mano e la
strinse,
incrociando le dita alle sue. "Sei tornato! Com'è andata?".
Ross
alzò le spalle. "Suppongo... nel modo in cui va sempre,
quando
si va a far visita a un morto. Una cosa penosa, non so che altro
dire" – concluse, mentre l'immagine del corpo senza vita di
Elizabeth gli attraversava dolorosamente la mente. "Credo che
Dwight abbia ragione, non è morta di cause naturali e
nemmeno per
complicanze del parto, era così... diversa... Dagli altri
morti che
ho visto, intendo".
Demelza
si mise a sedere e lo abbracciò, cingendogli il collo con le
braccia. "Mi dispiace" – sussurrò, sprofondando il
viso
nel suo petto.
Ross
le accarezzò i capelli, piano, baciandola sulla fronte. "Sto
bene e anzi, avevi ragione! Dovevo farlo, dovevo andare. Ora mi sento
più leggero per quel che riguarda Elizabeth. Ma...".
"Ma
cosa?".
Ross
sospirò. "Sono preoccupato per te. Che cos'hai? Io domani
faccio venire Dwight a visitarti e non voglio obiezioni".
"Non
sono malata, te lo posso assicurare".
"Davvero?
E allora perché hai questi mal di stomaco e queste nausee
ricorrenti? E perché te ne stai a dormire da ore?".
Demelza
rise. "Ross, me lo hai detto tu di riposare".
Scosse
la testa, non aveva davvero voglia di scherzare. "Io domani
chiamo Dwight" – ripeté.
"Non
è necessario".
"Demelza!".
Sua
moglie si appoggiò allo schienale del letto, guardandolo
pensierosa.
Poi, con un sospiro, gli riprese la mano. "Ne parleremo fra
qualche giorno, Ross. Oggi non è il caso".
"Parlare
di cosa?".
"Del
mio malessere".
Ross
le si avvicinò, sfiorandole il fianco con la mano. "Demelza,
dimmi che sta succedendo perché sai, io ho appena visto una
giovane
donna morta e in questo momento vorrei avere la certezza che la donna
che amo sta bene ed è in salute. Sai, guardavo Elizabeth e
attraverso lei io pensavo a te e a come mi potrei sentire se ti
perdessi".
Demelza
impallidì a quelle parole, tremando lievemente. "Che cosa ti
salta in mente?".
"Può
succedere ad ognuno di noi, da un momento all'altro. Come è
successo
per Julia. E io non sono pronto, non lo sarò mai, non posso
affrontarlo di nuovo".
"Ross...".
Demelza sospirò sorridendogli dolcemente. Gli
accarezzò la guancia
solcata dalla cicatrice, gentilmente e lentamente. "Non puoi
aver paura di questo perché ciò che temi un
giorno succederà e noi
non potremo farci niente. E' l'unica certezza che abbiamo, la morte.
Ma non succederà oggi, non qui. Elizabeth è morta
per qualche
assurdo motivo, ben prima che potesse essere la sua ora, lo hai visto
tu stesso. Ma noi siamo qui, siamo vivi e siamo una famiglia unita e
felice e l'unica cosa intelligente e saggia che tu possa fare
è
godere di questo, giorno per giorno, gustandoti le piccole cose che
rendono la nostra vita degna di essere vissuta e che la arricchiscano
di ricordi che ci accompagneranno per tutta la nostra esistenza. Non
puoi cambiare il nostro destino e la nostra condizione di esseri
umani ma una cosa puoi farla, per te stesso e per chi ami: lottare
perché tutti noi siamo sempre felici ed uniti, solo questo
conta.
L'amore".
Ross
sorrise. Era così incredibilmente saggia e sapeva sedare le
sue
paure e il suo animo con poche e semplici parole. Solo lei avrebbe
potuto farlo, solo lei era la donna giusta per stargli accanto tutta
la vita. E aveva ragione, doveva lottare perché fosse sempre
serena,
felice e si sentisse amata. "Credo che tu abbia ragione, forse
oggi sono solo un po' scosso. Ma resta il fatto che, seguendo quello
che hai appena detto, io domani faccio venire qui Dwight".
A
quel punto, mascherando un sorriso, Demelza prese la sua mano,
appoggiandosela sul ventre. "Non sono malata, semplicemente ce
l'abbiamo fatta".
Ross
la guardò e per un attimo non capì più
nulla. Guardò lei, guardò
il suo ventre perfettamente piatto e poi ancora lei. Non ci speravano
nemmeno più, non ci pensava da tanto, era l'ultimo dei suoi
pensieri
e ora... "Sei incinta?" - chiese, spalancando gli occhi.
"Sì.
Volevo dirtelo in un altro momento ma non hai lasciato scelta. Non
devi preoccuparti, è tutto normale, sto bene. E sono felice".
Col
fiato che gli moriva in gola, la guardò. Lei era felice. E
lui era
terrorizzato! Era contento, certo, di una gioia che aveva quasi
timore a far esplodere perché soffocata da mille paure per
lei, per
il bambino, per tutto... Ma le avrebbe messe da parte perché
sapeva
quanto Demelza lo avesse desiderato e quanto ci avesse sofferto, mese
dopo mese, quando le sue speranze si infrangevano senza apparenti
spiegazioni. L'aveva vista piangere per questo e aveva cercato di
consolarla in mille modi, dicendole che in fondo avevano già
due
figli stupendi e che la loro famiglia sarebbe sempre stata completa
così com'era. La baciò sulle labbra, deciso a non
lasciarla un solo
istante. Si era perso tante cose di Jeremy e non aveva vissuto la
gravidanza e la nascita di Clowance. Quel bambino che si stava
facendo strada in loro avrebbe pareggiato i conti col suo senso di
colpa e con le sue mancanze passate. "Avevi ragione poco fa! Non
posso temere la morte o ciò che puo' riservarci il destino,
questa
casa è piena di vita e l'unica cosa intelligente che posso
fare è
esserne contento".
Demelza
sorrise e gli parve bellissima coi capelli sciolti, che le ricadevano
disordinati sulle spalle.
"Sei
felice davvero, Ross?".
"Felice,
terrorizzato, preoccupato. Promettimi che andrà tutto bene,
che
starai bene. E che starà bene anche questo nuovo bambino".
Demelza
rise, abbracciandolo. "Te lo prometto, anche perché non ho
assolutamente intenzione di star male per tutta la gravidanza".
Ross
rispose all'abbraccio, accarezzandole la schiena. "I bambini lo
sanno?".
"No,
non ancora. Volevo dirglielo assieme a te".
A
quelle parole, Ross si alzò di scatto dal letto. "Bene, che
aspettiamo allora?". Corse fuori dalla stanza e poi giù
dalle
scale, arrivando nella libreria come un tornado. Con foga prese i
bambini in braccio e, incurante delle loro proteste, seguito da un
Garrick scondinzolante, li portò in camera. "Bambini, io e
la
mamma dobbiamo dirvi qualcosa" – disse, appena fu davanti al
letto.
Jeremy
lo guardò stranito e poi si sedette sul letto, appoggiando
il capo
sulla spalla di Demelza. "Mamma, ti sei svegliata".
Anche
Clowance saltò sul letto, sedendosi accanto a loro. Ross le
si mise
a fianco, mettendosela sulle ginocchia.
"Cosa
dovete dirci?" - chiese la bimba, incuriosita.
Demelza
si accarezzò il ventre, piano, guardando i suoi figli.
"Presto
avrete un fratellino. O una sorellina. Aspetto un bambino".
"Oh...".
Clowance la guardò pensierosa, poi guardò Ross.
"E dov'è?
Quando arriva?".
Jeremy
rise. "Ma che domande! Sta nella pancia di mamma, non sai
proprio niente".
Ross
accarezzò la testa del figlio, scompigliandogli i capelli.
"Hei,
non litigate o spaventerete questo povero fratellino che è
appena
arrivato fra noi".
"Dovrebbe
nascere a fine anno, più o meno alla stessa data in cui sei
nata tu,
Clowance. Quando compirai cinque anni" – disse Demelza,
rivolgendosi alla piccola.
A
quelle parole, Jeremy scoppiò a ridere. "Ahah, Clowance! Ti
ruberà il compleanno!".
Clowance
si imbronciò e i suoi occhi divennero lucidi. "Io non lo
voglio
un fratellino. E nemmeno una sorellina! E non voglio nessuno che
viene a rubarmi il compleanno. Mamma, papà, rimandatelo
indietro".
Ross
guardò Demelza in viso, trattenendosi dallo scoppiare a
ridere.
Clowance era sempre fantasticamente buffa e crescendo non era
cambiata poi molto dal giorno in cui l'aveva conosciuta. "Beh,
non è detto che nasca il tuo stesso giorno".
La
piccola incrociò le braccia, arrabbiata. "Ma
perché avete
preso un altro bambino? Non vi bastavo io? C'è pure Jeremy,
è
abbastanza. Così adesso quasto qua nasce e io non sono
più la tua
principessa, papà".
Ross
si addolcì a quelle parole. Capiva le sue paure, le sue
perplessità
e il timore di perdere lo scettro di cocca di papà. La prese
fra le
braccia, la strinse a se e la baciò sulla guancia. "Tu sei
nata
per essere la mia principessa e questo non cambierà mai!".
Mise
la mano sulla spalla di Jeremy, invitandolo a guardarlo in viso.
"Sapete, quando ho sposato la vostra mamma, lei aveva solo me da
amare. E se l'avessi pensata come voi, non sareste mai nati. Eppure
abbiamo voluto avere dei bambini e sapete perché?".
"Perché?"
- chiese Jeremy, mentre anche Demelza lo guardava, incuriosita da
quel discorso.
"Perché
sapevo che la mamma mi avrebbe amato lo stesso e che anzi, mi avrebbe
amato ancora di più. Anche con cento bambini, non avevo
paura che mi
mettesse da parte e lei non l'ha fatto, come potete vedere. L'amore
che proviamo per gli altri non si divide, puo' solo crescere e
nascere in nuove forme per chi arriva dopo di noi".
Demelza
annuì, sorridendogli. Accarezzò i lunghi capelli
di Clowance e la
bimba reagì avvicinandosi a lei e abbracciandola. "Ti giuro
che
non lo farò nascere nel giorno del tuo compleanno.
Farò del mio
meglio perché abbiate compleanni distinti, va bene?".
Ross
la guardò scettico, divertito da quella promessa che di
certo,
benché fosse incredibilmente in gamba, non era in grado di
mantenere
con certezza. "Bambini, noi siamo contenti per questo bambino! E
vorrei che lo foste anche voi".
Jeremy
ci pensò su. "Io sono contento. Basta che, se è
un'altra
femmina, non ami il rosa come Clowance. Ne basta una in casa,
così!".
Clowance
gli tirò un'occhiataccia ma poi, con un sospiro non troppo
convinto,
annuì. "Si va beh, sono contenta SE non mi ruba il
compleanno".
Ross
rise, scopigliando i capelli di sua moglie. "Hai sentito? Sei
responsabile del futuro rapporto fra Clowance e questo bimbo, vedi di
impegnarti nel decidere il giorno giusto in cui metterlo al mondo".
"Lo
farò".
Ross
le sorrise, prese i due bambini per mano e li costrinse ad alzarsi
dal letto. "Ora andiamo di sotto, la mamma aspetta un bambino e
deve riposare".
Clowance
annuì e Jeremy sorrise. La salutarono e Ross li
accompagnò di nuovo
sotto, da Prudie. Ma prima di lasciarli alle cure della serva, si
sedette sull'ultimo gradino, fronteggiandoli. "Hei, facciamo un
patto noi tre?".
"Quale
patto?" - chiese Jeremy.
Ross
sorrise. "La mamma ora è in un momento delicato e
avrà bisogno
di tutto il nostro amore e di tutta la nostra vicinanza. Dobbiamo
starle vicino e farle sentire che le vogliamo ancora più
bene,
d'accordo? Avrà bisogno di noi, avere un bambino
è una cosa bella
ma anche tanto faticosa e difficile. Mi aiuterete a farla stare
bene?".
Clowance
annuì. "Sì. Io voglio bene alla mamma".
"Anche
io! Certo che ti aiuto, papà" – ribatté
Jeremy.
Ross
accarezzò loro la nuca. "Sono davvero fiero di voi".
Li
riaffidò a Prudie e poi, dopo aver intimato loro di non fare
baccano, tornò da Demelza. Mentre erano via si era alzata e
si era
tolta gli abiti per una più pratica camicia da notte.
"Hai
intenzione di stare a letto fino a domattina?" - le chiese,
osservandola.
Lei
rise, finendo di sistemarsi i capelli davanti allo specchio. "Potrei
prenderci gusto, e stare a letto con la camicia da notte è
più
comodo".
Ross
si sedette sul bordo del letto, guardandola. Era bellissima, i
capelli le ricadevano morbidi fino alla vita, pieni di riccioli e
boccoli, la sua espressione era serena e il suo colorito roseo. Era
ancora magra ma non vedeva l'ora di vederla col pancione e godere
insieme a lei di quell'attesa che non aveva saputo apprezzare con
Jeremy e aveva perso con Clowance.
"Sei
stato davvero bravo coi bambini, prima. Hai detto loro delle cose
bellissime sull'amore! Non credevo che saresti diventato un tipo
romantico" – gli disse, divertita, mentre si faceva una lunga
treccia.
Ross
rise, imbarazzato. "Non farci troppo l'abitudine".
Demelza
gli si avvicinò e lui le sfiorò i fianchi,
attirandola a se,
affondando il viso contro il suo ventre e baciandolo con dolcezza.
"E'
la prima volta che fai una cosa del genere" –
sussurrò lei,
accarezzandogli i capelli.
"Cosa?".
"Che
baci la mia pancia quando sono incinta. Mi piace".
Alzò
gli occhi su di lei, perdendosi in quel colore verde-azzurro. "E
allora lo farò sempre".
"Ti
amo, Ross. E sai, nonostante tutti gli errori e i difetti, io non ti
cambierei per niente al mondo".
La
attirò a se, baciandola lentamente sulle labbra. "Ti amo
anche
io. E nemmeno io ti cambierei per niente al mondo. Sei perfetta, per
me" – le sussurrò, mentre tutte le angoscie e le
paure di
quella giornata sparivano, lasciando spazio solo alla vita e alle
belle sensazioni che risvegliava in lui. Sarebbe andato tutto bene,
lo sapeva. Avrebbero aspettato quel bambino insieme, godendo di ogni
istante di quell'attesa, e poi lo avrebbero accolto nella loro
famiglia con gioia, amandolo alla follia. La spinse sul cuscino,
ridendo. "Ora dormi, devi riposare" – le intimò.
Demelza
sorrise, rannicchiandosi sotto le coperte accanto a lui.
"Salterò
anche la cena, quindi?".
"No,
cenerai in camera".
Demelza
rise. "Come una gran signora?".
"Come
una gran signora sposata con un marito molto apprensivo. Fattene una
ragione!".
Scoppiarono
a ridere, insieme, sereni. E anche se fuori continuava a piovere, in
quella stanza, dopo una giornata difficile, tornò il sereno.
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