Capitolo
Unico
I rumori esterni erano
confusi, la testa ancora ovattata, ma la sensazione di isolamento che
provava stava scomparendo. Non riusciva a capire dove si trovasse e non
aveva idea di come ci fosse arrivato. Era morto e nessuno se ne era
accorto? No, impossibile. Non poteva essere morto. I morti non sentono
nulla e lui, invece, sentiva tutto.
Bruciava.
Il suo corpo era
preda dei più atroci dolori. Tutto, in lui, era esposto alla
sofferenza, alla morte. La sua carne martoriata, i suoi nervi
lesionati. Era lancinante. Era l’inferno. Il cuore martellava
furioso, desideroso di sopravvivere. Non riusciva a capire come il suo
corpo potesse resistere a tutto ciò.
Continuava
a bruciare.
Il suo cervello
stava impazzendo per i troppi impulsi, che continuavano ad arrivare
senza sosta. Provò a muoversi – a scappare
– ma i suoi arti non rispondevano. Per quanto ci provasse,
gli sembrò di essere diventato lui stesso dolore, nella sua
forma più viscerale. Era preda immobile di un odio profondo.
Nessun’altra cosa ad eccezione dell’odio poteva
averlo ridotto in quello stato.
Stava
morendo.
Cercò
di chiedere aiuto ma la voce gli graffiava la gola. «A…
u… o… A… e…».
I suoni vocalici
che riuscì a emettere non erano sufficienti per formulare
una frase, né per chiedere aiuto, eppure quel singolo
tentativo lo privò di tutta la sua energia. Non aveva
più nulla, ormai. Nessuna forza, nessuna speranza, nessun
futuro. La sola cosa che gli era rimasta da fare era morire: non ci
sarebbe voluto molto.
«Ma
cosa fa! Signorina Xaho, le avevo detto di fare attenzione ai
liquidi!»
Il suo ultimo
pensiero logico prima di sprofondare nuovamente in
quell’abisso ovattato da cui era emerso era che morire non
ricordandosi non solo la propria vita ma anche il proprio nome era
davvero la cosa più disumana che si potesse provare prima
della fine.
***
Non si aspettava di
riprendere coscienza una seconda volta. Non si aspettava di essere
ancora fastidiosamente vivo quando l’unica cosa che voleva
era porre fine a quel dolore che non voleva abbandonarlo. A quanto
sembrava, però, morire non era una cosa che gli fosse
concessa.
Questa volta non provò a riprendere il controllo del suo
corpo: non poteva permettersi di sprecare le forze in un tentativo
inutile. L’unica cosa che sembrava sotto il suo controllo era
la sua mente ed era quella che aveva intenzione di usare: sarebbe stata
lo strumento per ricordare chi fosse, che cosa gli fosse accaduto, chi
l’aveva ucciso.
I frammenti di un’esistenza iniziarono ad affollargli la
testa. Una scuola, una casa; un gruppo di ragazzi, una famiglia. Forse
la sua famiglia. O forse stava solamente delirando. Le immagini erano
confuse, sfuocate, probabilmente create dal suo stesso dolore. Gioia e
disperazione iniziarono a mischiarsi nel suo animo: non riusciva a
distinguere i suoi sentimenti. Provava qualcosa per quelle figure che
vedeva? Non lo sapeva. Due figure maschili lo stavano osservando,
stoiche. Non c’era alcuna espressione sui loro volti. Alla
loro destra, una donna. No, una ragazza. Si sentiva attratto da lei,
anche se non capiva bene il perché. Forse era per i suoi
capelli, così biondi da sembrar bianchi, o per quegli occhi
grigi, che lo guardavano amorevolmente, o per la risonanza di una
musica timida che sembrava emanare da lei. La risonanza di una vita che
sembrava così lontana, intrappolata dietro un muro di fumo.
Voleva gridare alla ragazza a cui apparteneva quel volto di
raggiungerlo, di spiegargli, ma non riusciva a parlare. La giovane
donna si limitava a guardarlo e a sorridergli. Lo sforzo mentale per
rimanere concentrato lo stava prosciugando di tutte le energie. La sua
forza era sempre più debole. Prima di perdere i sensi
nuovamente la sentì pronunciare una parola e lui seppe
immediatamente che quella parola era, in realtà, il suo nome.
Kenneth.
***
Con il passare dei
giorni, sentiva il suo corpo farsi via via più forte. Il
dolore era diventato sopportabile, allontanando la presa della morte; i
momenti di lucidità erano sempre più frequenti e
duraturi, permettendogli di andare a rifugiarsi tra le braccia della
giovane donna. Dalla prima volta che l’aveva trovata nella
sua mente, infatti, aveva fatto di tutto per non lasciarla andare. Lei
rappresentava la speranza che qualcuno, alla fine di
quell’incubo, lo stava aspettando. Era la luce chiara che
invitava alla felicità. Era l’acqua cristallina
che donava vita all’assetato. E lui aspettava solamente di
poter avere la sua parte di lacrima.
Gli bastava solamente rifugiarsi nella sua mente e dimenticarsi del
mondo per rivederla nei suoi occhi. Rivedere i suoi capelli, il suo
sorriso e quei gesti che non cambiavano mai. Ogni volta, prima di
riuscire a guardarlo in faccia, lo sguardo della giovane donna
scivolava verso il basso, verso la punta dei suoi piedi nudi.
Dopodiché le sue mani, da dietro la schiena, venivano
avanti. Lasciava che le braccia si stringessero introno al suo grembo,
proteggendosi. Tra le dita nascondeva un legno traforato, tenuto
stretto. E solo alla fine, forse dopo aver deciso che lui non
rappresentava una minaccia, portava lo strumento alle labbra e
cominciava a suonare. Kenneth non riusciva a ritrovare il suo nome, tra
le sue memorie. Sapeva solo che le note che stava suonando con quel
flauto, in qualche modo, gli appartenevano. Quasi tutti i wired
consideravano gli strumenti musicali degli oggetti superati, da quando
esistevano programmi in grado di creare musica matematicamente
perfetta. La melodia che stava creando quella ragazza non era precisa -
non respirava in maniera corretta per mantenere la lunghezza delle
note, non manteneva il corpo nella giusta posizione - eppure era la
cosa più bella che avesse mai sentito. Lui non le concedeva
di fermarsi nemmeno un attimo: non voleva perdere la sua pace per nulla
al mondo.
Avrebbe voluto solo rimanere lì ad ascoltarla per
l’eternità, perché questo è
quello che i sogni dovrebbero sempre essere: pace. Voleva solamente
tenerla in quel sogno con lui. Ma non era un sogno, era un
ricordo. Ormai aveva capito che quella donna non era frutto
della sua fantasia, ma era esistita davvero: si erano vissuti, si erano
amati. Avevano costruito una casa per loro, senza sapere di averla
costruita solo per farla distruggere.
Tu eri la mia casa, e ti hanno distrutta.
No, non era morto. Era bruciato per lei.
Ti avevo promesso un nuovo mondo per noi, ma ho fallito.
Urlò.
***
Trentatré
giorni erano iniziati e finiti da quando si era svegliato dal suo coma.
Trentatré giorni in cui aveva dovuto razionalizzare con il
fatto che lei non sarebbe mai ritornata. Martia, l’unica che
aveva il permesso di avvicinarsi al suo capezzale, gli aveva raccontato
brevemente che cosa gli fosse accaduto. Il tradimento, il
fuoco, la morte. Claire – così si
chiamava – aveva subito una riprogrammazione, ma non era
stata in grado di spiegargli più di questo.
«Mi dispiace», aveva detto.
Una parola vuota, senza sentimento, senza profondità.
Decisamente inadatta per tamponare lo squarcio che gli si era aperto
nel suo petto.
Perduta.
Trentatré giorni per venire a patti con il fatto di non
avere più tempo: la sua vita, la vita di Kenneth Ward era
finita. Non era stato facile da accettare. Si era opposto, gridando che
per cancellare il suo tocco dalla pelle, avevano dovuto bruciargliela.
Urlò il suo dolore così a lungo, così
forte, da far sanguinare i polmoni non ancora pienamente ristabiliti.
Nel pieno della disperazione, implorava attimi come fossero bolle
d’aria a cui aggrapparsi. Se solo gli avessero concesso altri
cinque minuti. Se solo gli avessero concesso di stringerla tra le
braccia per un istante. Se solo gli avessero concesso di dirle
un’ultima volta quanto l’amava. Se solo…
Ma ormai quella vita era diventata inafferrabile. Piano piano, la
sensazione del suo ultimo bacio sarebbe scomparsa, il ricordo della sua
musica sarebbe svanito nel nulla. L’unica cosa che gli era
rimasta da fare era nasconderla dentro di sé, per non
cercarla mai più. Martia era stata irremovibile: era la
soluzione migliore, la soluzione più logica. E allora lui si
rese conto di che cosa stava dicendo. Era stato debole, era stato
umano. Troppo umano. Aveva permesso alle emozioni
di sconfiggerlo e per questo, per il suo errore, avrebbe dovuto
indossare un altro nome.
Il nome che lei gli aveva restituito doveva morire.
Era Eleazar Preaman, ora.
Era da tanto, troppo che
non scrivevo. E tornare a farlo per questo contest
è stato veramente bellissimo. Ci è voluto tanto a
scrivere queste poche parole, ma spero di aver fatto un buon lavoro.
Dai, siete arrivati a leggere fino a qui, quindi qualcosa di buono devo
averlo fatto. Oppure volete solamente mandarmi a cagare, il che va bene
lo stesso. Ho cercato di essere il più fedele possibile alle
indicazioni presenti nel libro riguardo questo particolare momento, ma
se trovate qualche svista: perdooooono.
Questa fanfiction partecipa al contest Una fanfiction
per Wired indetto da Mirya.
|