Time
to breathe.
Asahi non sa con precisione
quando è cominciato. Probabilmente perché, se ne rende
conto, non è qualcosa che comincia dall’oggi al domani,
come l’interruttore di una lampadina che si può solo
accendere o spegnere. È graduale e lui se ne rende conto
davvero solo quando il meccanismo s’è messo ormai in
moto.
Lo ha notato un giorno
qualunque, per caso. Si è soffermato a riflettere su se stesso
e s’è accorto di non essere tranquillo. Non è la
prima volta che gli capita, ma ha sempre imputato la sua ansia a quel
primo anno di college: scuola nuova, appartamento nuovo, persone
nuove – come poteva non essere nervoso? In più, tutte le
sue vecchie conoscenze ora sono lontane e non riesce a sentire spesso
come vorrebbe persino Noya, sebbene sia il suo ragazzo.
Però sono passati mesi,
è inverno ormai, e l’ansia non è andata via. S’è
piazzata lì, silenziosa, quasi abituale, e ha deciso di essere
la sua nuova coinquilina, la sua più stretta compagnia. Ad
Asahi sta bene - se ne rende conto ogni istante sempre di più
– perché non gli sembra di avere la forza per fare
altro. Deve andargli bene.
Asahi è sempre stato un
ragazzo riflessivo. Parla poco, pensa molto, spesso ciò che
pensa resta incastrato e lui non riesce a trasformarlo in parole, ma
va bene così: non importa se le lettere si fermano in gola e
se ciò che avrebbe voluto dire emerge un secondo di troppo in
ritardo – non se ne lamenta, tira avanti. Sa farlo.
Ha dei nuovi amici.
Conoscenti, per lo più; compagni che ha incontrato ai corsi
che sta frequentando. Sono persone simpatiche e alla fin fine Asahi
sa fare amicizia più o meno come tutti gli altri; si fa un po’
intimorire e non se la sente di esporsi completamente, ma sono cose
che succedono a tutti, quindi non se ne fa una colpa. Quando torna
nella sua stanza, manda qualche messaggio a Suga o a Daichi; spesso
chiama Noya.
«Sei stanco?»,
gli chiede il suo ragazzo quella sera – Asahi è sul
letto e non sa cosa rispondere.
«Non proprio». Non
è stanco: non ha fatto granché in quella giornata,
quindi davvero non ha motivo di essere stanco. Eppure stenta a far
andare avanti la conversazione, arranca tra le parole, vorrebbe non
dover continuare a parlare.
«Ti lascio dormire
ora», ride
Yuu, qualche battuta dopo - e lui acconsente, ammette di essere
stanco dopotutto, anche se non è vero. Non ha motivo di essere
stanco, alla fin fine.
Eppure, nell’attimo in
cui chiude la chiamata, quando spegne la luce e si mette a letto,
Asahi non è tranquillo. Improvvisamente, si pente di aver
troncato quel contatto così presto, tanto velocemente, perché
adesso ha tempo per pensare. E pensare, negli ultimi tempi, sta
diventando difficile. Fino allo scorso anno, avrebbe detto di amare
la solitudine – no, non era un tipo solitario o asociale, ma
riusciva ad apprezzare quelle ore di tranquillità con se
stesso in cui ricaricarsi, magari dopo qualche intenso pomeriggio al
club di pallavolo con gli altri.
Adesso, invece, stare solo con
se stesso è diventato difficile. Asahi non sa perché,
ma i pensieri nel buio della sua mente vorticano velocissimi e
affilati, puntano sempre allo stesso posto e accelerano il battito
del suo cuore.
La prima volta che non ha
voglia di alzarsi, Asahi si riscuote da solo: che sta facendo? È
il college quello, ha davvero intenzione di fare i capricci, come un
ragazzino? Si butta giù dal letto di prepotenza, si veste e fa
colazione – quando è a lezione, la giornata scorre
serena e per la sera ha dimenticato quella sensazione di peso sullo
stomaco che aveva provato a tenerlo a letto.
La seconda volta che succede,
l’idea di non alzarsi lo scova in un momento meno tranquillo:
ha un test alla fine della settimana e sente di non essere pronto, di
non aver studiato abbastanza. Quindi si dice che saltare le lezioni,
per un giorno, non potrà fare troppi danni, che è a fin
di bene, per qualcosa di più grande. Ma resta a letto tutta la
mattina, il senso di colpa fa a cazzotti con la sua incapacità
di mettere il primo piede fuori dalle lenzuola. E alla fine non fa
nulla, resta fermo, bloccato. La nausea stavolta è fortissima
e gli impedisce di respirare come si deve. È la prima volta
che Asahi si sente così, quasi come se qualcuno gli tenesse un
pugno premuto tra i pettorali e l’addome, fermandogli il
respiro. Non sa che fare, alla fine non fa nulla.
«Sono appena andato
via e già mi manchi»,
si lamenta Noya – non si sta lamentando con lui, questo Asahi
lo sa. Eppure, non può fare a meno di essere triste. Gli
manca. Di Yuu gli manca tutto, ogni singola cellula che compone il
suo corpo, ogni particella della sua anima, ogni piccolo sbuffo del
suo spirito. Gli manca ogni istante di ogni giorno, tranne che nei
momenti in cui è con lui.
Asahi si è accorto di
vivere per quei momenti – che sia una volta al mese o magari
alla fine del trimestre (ora è primavera, a breve anche Yuu
sarà pieno di lavoro al college), Asahi vive per quei brevi
momenti. Il resto della sua vita gli sembra in qualche modo mancante:
non è propriamente in pausa, perché lui continua ad
avere impegni più o meno piacevoli, posti in cui essere, cose
da vivere, eppure… alle volte si scopre in apnea, col pensiero
sempre proiettato in avanti anche quando manca troppo, anche quando
non dovrebbe pensarci.
Pensare fa sempre più
male. Cerca di non farlo, cerca di stordirsi con qualunque cosa pur
non di non pensare ormai. Legge, scrive, studia: nulla però
sembra essere abbastanza. Uscirebbe se fosse più forte,
passerebbe qualche serata con i suoi nuovi amici… Ma non ha le
energie di superare la soglia della sua camera e quindi resta con se
stesso.
«Non credevo fossi
tanto pigro»,
gli confessa con leggerezza Yuu, una sera. E Asahi si irrita. È
qualcosa di improvviso, non se ne capacita: è stata solo una
frase, gettata così fra tante altre frasi, eppure ha il potere
di distruggere la sua fragile armonia. Cerca di non darlo a vedere,
continua la conversazione come se nulla fosse successo, ma quando è
di nuovo solo, l’irritazione resta, sedimentata nel profondo, e
diventa tristezza. E diventa ansia.
Noya non lo capisce. È
normale, si dice, perché lui di questo disagio non ha mai
fatto parola a nessuno. È da più di un anno che lo
sente, ormai, eppure se lo lascia scorrere addosso, si lascia
permeare da esso come ondate di marea e spera che passi, che un
giorno vada meglio. Ma lo sa che non è pigrizia, lo sa che non
è semplice introversione. Quel pugno sulla bocca dello stomaco
e le volte in cui va in apnea – ha preso a chiamare così
la sua respirazione irregolare – non sono dovute al suo
carattere impacciato, alla sua “codardia”. È
qualcosa di più. Asahi lo sa, ma non fa nulla.
“Non ti senti bene?”.
È un messaggio. Asahi
lo fissa, ha tempo per pensare, tempo per decidere come rispondere. È
ad un bivio e non è certo di quale sia la strada giusta.
Risponderebbe che Noya si sta sbagliando, che è tutto a posto
– dopotutto, non è successo niente, quindi perché
non dovrebbe? Ma sarebbe come mentirgli e non vuole mentirgli. Perché
non si sente bene, non sta bene da tempo e quella è una delle
giornate che ha imparato a riconoscere e in cui sta peggio. È
una delle giornate in cui si sveglia col man di stomaco, in cui
alzarsi è una battaglia durissima, in cui si lascia vivere
come se avesse inserito il pilota automatico e si sente estremamente
giù di morale senza averne motivo. Se mentisse dovrebbe
fingere di essere allegro e non è certo di avere la forza per
farlo.
“Non molto”.
Si espone. Trema. Si pente di
quella risposta. Vorrebbe cancellarla. Dio, che ha fatto? Non può
tornare indietro ora. Non ha via d’uscita.
“Posso fare
qualcosa?”.
Apprezza quella richiesta,
apprezza davvero quell’interessamento. Ma non sa rispondere a
questa domanda e la cosa lo fa sentire un po’ in colpa.
“Ma no, è tutto a
posto. Mi basta parlare con te”. Non gli sta mentendo
dopotutto: è davvero felice di parlare con Noya, perché
se parla con lui non pensa e se non pensa sta bene. Yuu lo tiene a
galla senza saperlo.
Allo stesso tempo però,
non vuole farlo preoccupare, quindi caccia via il malumore –
viene facile, perché ama Noya abbastanza da dimenticare di
star male e in breve si convince che quella sensazione di profonda
disperazione e stanchezza non sia poi tanto grave, dal momento che è
riuscito a scacciarla così facilmente.
Si rende conto di aver
sottovalutato la cosa quando, in piena notte, nel buio della sua
stanza, va di nuovo in apnea. I respiri diventano corti ed è
costretto a prendere fiato con la bocca mentre la sensazione di
essere sul punto di vomitare gli impedisce di sentire altro. Respira
a fatica, respira rumorosamente. Piange. Il pianto sembra farlo stare
meglio: l’attacco di ansia raggiunge il suo apice e le poche
lacrime che versa smorzano quel crescendo di sensazioni,
sublimandole. Dopo gli sembra di stare meglio e quando anche il
battito del cuore torna regolare, Asahi si addormenta.
“Ho così tante
cose da fare, questa settimana, che farei prima a buttarmi sotto un
pullman”.
Asahi ha bisogno di leggere
quel messaggio diverse volte prima di rendersi conto di quello che
sta succedendo.
No,
si dice, mentre lo rilegge, cercando di frenare la sua mente. Non
azzardarti neanche a pensarlo. Lui sta solo scherzando, è solo
un modo di dire.
E
lo sa benissimo, lo sa davvero che Yuu non intende davvero, perché
sarebbe assurdo, perché semplicemente non avrebbe senso
ammazzarsi per i troppi impegni. È un modo di dire e la logica
di Asahi lo capisce tranquillamente perché conosce Noya e sa
quanto il ragazzo ami scherzare. Eppure, non riesce a fermare i suoi
pensieri: non è con Noya in questo momento, e se magari fosse
con lui potrebbe in qualche modo alleggerire il suo carico, aiutarlo.
Ma non è con lui e Noya è in difficoltà –
una difficoltà minima, certo, ma pur sempre una difficoltà.
Asahi si trova a pensare che se Noya non ci fosse più, lui
sarebbe completamente distrutto. Sa che non ha senso, che una simile
eventualità è remota, che nulla
in
quella situazione dovrebbe fargli pensare ad un simile scenario.
Eppure ci pensa. Ci pensa e l’attacco di ansia arriva così
forte che gli gira la testa.
Prendere fiato fa male, lo
stomaco è stretto in una morsa opprimente e Asahi non può
fare altro che sedersi.
Smettila,
grida nella sua testa, quando le prime lacrime pungono sulle ciglia.
Sei
patetico, smettila. Che cosa pensi di fare? Piangere ogni volta che
Yuu farà una battuta? Ti rendi conto di quanto sei ridicolo?
Ma più si colpevolizza,
più il suo attacco di ansia cresce e ad un certo punto l’apnea
è totale. Ad un tratto, Asahi smette di prendere fiato, finché
non ne può più, finché il suo stesso corpo non
lo costringe a respirare. E piange a dirotto.
Non piangere, non piangere,
non piangere. Non hai motivo di piangere. Ti prego non piangere,
supplica
se stesso, ma più pensa più fa male e allora piange più
forte, a singhiozzi. E si odia per essere tanto debole. È
bastata una parola, uno scherzo, per spezzarlo.
Ignora il cellulare. Dirà
che era al bagno, che era occupato, che non ha visto il messaggio.
Ignora il cellulare finché non sta meglio e quando smettere di
piangere, solo gli occhi arrossati e il mal di testa testimoniano la
sua debolezza.
Alla fine, Noya se ne rende
conto e Asahi comincia a parlargliene. Yuu diventa in qualche modo
più attento alle sue parole, al modo in cui scrive e gli
chiede di non nascondergli niente. Asahi non lo farebbe neanche se
volesse: una parte di lui è troppo stanca per mettere su una
facciata, l’altra vuole che Noya gli stia accanto.
Vorrebbe però anche che
il ragazzo non cambiasse atteggiamento nel suo confronti e questa
diventa la sua nuova preoccupazione. Si sforza continuamente di
capire se Noya si sta comportando in maniera differente, se sta
facendo qualcosa solo per dovere, solo perché è il suo
ragazzo – non vuole essere un peso, non vuole assolutamente che
Yuu faccia qualcosa controvoglia, fosse anche una semplice
telefonata.
Non se ne rende conto, ma quel
pensiero lo ossessiona, quel pensiero gli causa nuova ansia. Diventa
un circolo vizioso: non può fare a meno di parlargliene, ma
parlargliene lo fa stare anche peggio. Asahi non sa come uscirne,
forse non vuole uscirne. Noya gli dice che può farcela, che
sarà una buona giornata e lui si chiede se quello sia
diventato un automatismo, se sia cortesia bianca, come dire
“buongiorno” o “arrivederci” ad uno
sconosciuto – non lo fai perché ci credi davvero, lo fai
soprattutto perché è così che va fatto.
Si chiede poi, se non sia già
diventato un peso. E se Noya non deciderà prima o poi di
andarsene. Non ha mai pensato che potesse abbandonarlo, non Yuu, ma
nelle ultime settimane, da quando gli ha parlato del suo problema, ha
sempre più spesso l’immotivata sensazione che possa
andare via da un momento all’altro. Che si diverta di più
con qualcuno che non sia lui e che alla fine decida di non volerla
tutta quella negatività. Il pensiero lo manda in panico, lo
spezza, gli causa i peggiori attacchi di ansia. Alle volte Asahi cede
e chiede a Noya se sia tutto a posto, se le cose vadano bene fra
loro. Noya gli risponde che va tutto più che bene, che deve
credergli, che se avessero dei problemi sarebbe il primo a farglielo
notare e allora Asahi si rassicura un po’, fino al prossimo
dubbio.
Alcuni giorni però va
meglio. Asahi riesce a dire con sincerità di star tenendo a
bada l’ansia, che non è giù di morale, che quella
mattina ha fatto la strada a piedi fino ad una tavola calda per
cenare e si è sinceramente goduto il cammino, guardando le
vetrine, passando accanto alle persone. Ama quelle giornate, gli
fanno quasi dimenticare tutto il male ed il vuoto che sente quando
invece ha il suo calo; ma sono pochi, durano sempre poco e non gli
bastano mai.
«Credo dovresti chiedere
aiuto».
Noya glielo dice da vicino, in
un weekend che passano insieme. Glielo dice all’improvviso,
dopo qualche istante di silenzio, dopo aver concluso una
conversazione qualunque – ma Asahi sa a cosa si sta riferendo.
E un po’ lo odia Noya perché quel giorno non ci stava
pensando, perché stare con lui lo solleva da qualsiasi
preoccupazione, da qualsiasi disagio o dolore. Di tanto in tanto
pensa che i giorni con Noya siano i soli in cui stia davvero bene.
«È
solo
il college, Yuu. Una volta finito passerà anche questo
disagio. Non c’è bisogno che allarmi tutti».
Asahi non ci crede davvero –
ci spera, spera con tutto se stesso che sia solo una fase e che
finiti gli studi possa recuperare la tranquillità che, lo
ricorda a stento, aveva prima. Ma non ci crede davvero perché
quel buco che sente dentro, quella disperazione che lo assale e lo
sfinisce è diventata parte di lui e non può essere solo
una fase, perché lui non sa più come si vive senza.
«Non ti costringerò
a farlo. Ma credo dovresti: non si tratta di allarmare gli altri, si
tratta di stare meglio, di fare qualcosa per te stesso. Non può
vivere col mal di stomaco perenne».
Asahi vorrebbe dirgli che il
mal di stomaco è la parte migliore, perché ci si sta
abituando e quando non lo sente ci deve riflettere, quasi fosse
quella la novità nella routine. La parte peggiore è
l’ansia, la parte peggiore è essere così a terra
da non riuscire a fare ciò che vorrebbe, da non godersi il
tempo libero e i piccoli piaceri che ancora porta con sé. Ma,
allo stesso tempo, l’idea dei suoi genitori che lo osservano
mentre dice loro di non stare bene, di sentirsi morire dentro, di
poter essere… depresso? - non è la parola giusta, non è
depresso lui – lo fa stare ancora più male. Non vuole
che si preoccupino, hanno già così tanti pensieri a
doverlo sostenere economicamente mentre è al college…
non sarebbe giusto nei loro confronti.
Ride, ride per smorzare il
panico e non pensarci più. Parlarne non è un opzione,
fine della storia. Neanche Noya insiste e continuano a discutere di
altri, quasi come se quella conversazione non fosse mai avvenuta.
Che quella sia una delle
giornate in cui sta peggio Asahi lo capisce appena si sveglia. Il
cuore già batte più forte del normale e lo stomaco è
già stretto nella solita morsa. Si sente davvero giù di
morale e di nuovo non ha la forza di alzarsi. La differenza rispetto
al solito è che quella mattina non ha nulla da fare, niente
che lo stimoli o costringa a muoversi. E allora non si alza, non ci
prova neanche – l’ultima volta che l’ha fatto ha
rischiato di avere un attacco di ansia in pubblico e nascondere le
lacrime è stato difficile. Ancora non sa con che forza si sia
trattenuto e come se sia uscito, ma non l’ha raccontato a Noya
perché lui si sarebbe complimentato per la forza dimostrata,
mentre Asahi sa che non è stata forza, che non è mai
forza.
Sente il cellulare vibrare. Sa
che è il suo ragazzo – adora la loro routine, lo fa
sentire al sicuro – ma non ha la forza di allungarsi verso il
comodino. Si dice che lo farà poi, tra qualche minuto, il
tempo di stare meglio. Ma le sue emozioni si incupiscono sempre di
più man mano che la mente si mette in funzione, che i pensieri
emergono dal sonno. E allora non risponde al cellulare e più
questo vibra più lui di nasconde sotto le coperte.
Basta. Vi prego, basta.
Perché dovrebbe mentire
se rispondesse. O dire di star tanto male, quella mattina, da volersi
annullare nel buio che ancora copre la sua stanza. E non può
farlo. Davvero non può farlo.
Resiste fino ad ora di pranzo.
Poi fa troppo male, poi allunga la mano verso il cellulare e senza
neanche leggere i messaggi arrivati fino a quel momento, chiede
aiuto.
“Ho
un nuovo attacco di ansia. Sono così stanco, Yuu”.
Noya sa che Asahi non vuole
parlare al telefono quando sta così male; lo ha scoperto
quando Asahi ha avuto un attacco di ansia mentre erano al cellulare e
pur di non farsi sentire ha staccato la chiamata all’improvviso,
per spiegargli tutto solo una volta che s’era calmato. Quindi
non lo chiama, continua a mandargli messaggi e decide di andare
immediatamente da lui, ma non glielo dice perché sa che gli
causerebbe altro malessere e non vuole.
Asahi non ha coscienza del
tempo che passa – sta nel dormiveglia, stordito e sfiancato
dalla sua stessa ansia. Quando si ritrova Yuu davanti non è
certo di ciò che vede. Sente il suo calore, il suo abbraccio e
gli pare di sognare. Si sente solo Asahi, non perché non abbia
amici o perché gli spiaccia passare del tempo con se stesso.
Si sente solo perché si sente lontano dalle persone che
contano davvero nella sua vita.
Quando però sta meglio,
quando torna a sentire qualcosa che non sia solo l’abisso
oscuro che ha preso a divorarlo, Asahi capisce che non potrà
evitare il confronto con Noya. Lo legge nei suoi occhi scuri e seri –
ha superato il limite, si è lasciato sconfiggere.
«Ho creduto che ti
saresti fatto del male», gli dice Yuu, senza abbassare lo
sguardo.
Asahi sorride. No, non si
sarebbe mai fatto del male. E anche Noya lo sa.
«Trovarti così
però è stato peggio. Non stai vivendo bene Asahi. Devi
smetterla».
«Non dipende da me…
io vorrei...».
Yuu lo abbraccia. Lo sa che
non dipende da Asahi e gli ha sempre detto di non colpevolizzarsi, di
non sentirsi in colpa o vergognarsi per le volte in cui sta male, in
cui non riesce ad alzarsi o non sopporta stare in mezzo alla gente,
per le volte in cui anche solo leggere un messaggio gli spezza il
fiato. Non è a questo che si riferisce adesso: sa che gli
attacchi di ansia, la sensazione di depressione non dipendono da lui.
Ma sa anche che esiste un modo per stare meglio e quello è un
passo che Asahi può fare.
La prima volta Asahi ha paura.
Ha chiesto a Noya di aspettarlo fuori ma ora ha paura. Esita prima di
bussare. Esita e vorrebbe tornare indietro perché sente
l’apnea premere contro il suo petto e non sa se sarà in
grado di controllare quell’attacco di ansia.
Ma bussa, perché vuole
essere forte. Bussa alla porta dello studio perché vuole stare
meglio. Ha preso appuntamento con lo psicologo una settimana prima –
lo ha fatto tramite messaggio perché parlare con uno
sconosciuto lo avrebbe fatto stare troppo male. Il numero gliel’ha
procurato Noya – ai suoi genitori non ha ancora detto niente.
Non sa quando lo farà.
Ma mentre compie quel primo
passo, mentre è consapevole della presenza di Noya che lo
aspetta, mentre l’ansia lo divora e lo stomaco pare
restringersi ed essere l’origine del buco nero che vuole
risucchiarlo, Asahi sente anche qualcosa di diverso, sente di avere
un minimo di controllo sulla sua vita. Sente qualcosa che non l’ansia
o la depressione. E per una volta, lascia se stesso libero di
sperare.
_______________
Mi
rendo conto che questa storia possa sembrare senza né capo né
coda, quindi se avete avuto quest’impressione, arrivando fin
qui, è tutto normale. Sostanzialmente, questa storia è
un modo di elaborare ciò che mi sta succedendo negli ultimi
mesi: è estremamente autobiografica e semplicemente ho voluto
provare a vedere se scriverne in terza persona (e facendo capitare
queste cose al povero Asahi) possa in qualche modo aiutarmi ad elaborare e,
chissà, superare ciò che sto affrontando.
Asahi
si presta bene perché è fragile come spesso sono
anch’io, quindi usare lui è stata una scelta molto
facile. Come qualcuno mi ha detto, leggendo in anteprima questa
storia, Asahi riesce ad arrivare ad un punto di svolta che io ancora
non vedo, quindi immagino che questa storia sia in qualche modo anche
un augurio (davvero poco egocentrico) a me stessa… whatever.
That’s
all guys. Grazie per essere arrivati fin qui e alla prossima!
Alch.
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