Flow
Naruto conduceva un’esistenza tranquilla e
all’insegna della monotonia.
Ogni
giorno si susseguiva al successivo con ritmo cadenzato e precisione
svizzera, le giornate scorrevano lisce esattamente come un torrente
scivola dalle rocce al mare; semplicemente Naruto non si preoccupava
– o non dava l’impressione di essere preoccupato
– dell’avanzare dei giorni che, inesorabilmente, lo
avrebbero condotto alla destinazione finale come una goccia non conta
la distanza temporale che la separa dalla grande foce
nell’immenso blu.
Si
svegliava la mattina, si preparava la solita colazione e seguiva il
solito tragitto che lo avrebbe condotto all’accademia, dove
puntualmente sarebbe stato rimproverato per qualche dispetto o
marachella compiuta nel tempo libero. Perché di tempo libero
ne aveva molto, lui. Non aveva orari prestabiliti per i pasti, poteva
mangiare ogni qualvolta lo stomaco reclamasse una buona ciotola di
ramen, non aveva orari per la messa a letto e non aveva orari precisi
nemmeno per svolgere gli esercizi dell’accademia. Naruto era
solo, nessuno scandiva lo scorrere delle lancette fissandogli
appuntamenti o imponendogli obblighi. Era uno spirito libero, non per
scelta ma per nascita.
Aveva
un orologio sul comodino a fianco al letto che non funzionava, le
batterie erano scariche chissà da quanto tempo e,
certamente, lo sarebbero rimaste ancora a lungo. Possedeva un
calendario però, unico oggetto a cui si premurava di segnare
nascita e morte del sole quotidianamente. Lo teneva appeso ad una
parete del suo spoglio e semplice monolocale, con atteggiamento quasi
sacrale ogni sera segnava il tramontare del giorno ed ogni mese ne
strappava con animo una pagina, oggetto sacrificale che finiva a morire
nel cestino.
Naruto,
pazientemente, aspettava e nel frattempo viveva,
aggrappandosi al sogno che, giorno dopo giorno, cercava faticosamente
di costruire, mattone dopo mattone, asse dopo asse: partire dalle
fondamenta per poter erigere un castello. Svegliarsi solo e camminare,
per il proprio sogno. Accettare le punizioni ed inventare altri
dispetti, per il proprio sogno. Mangiare al chiosco del ramen, giocare
nel cortile dell’accademia, fare la spesa, rassettare casa,
dormire, cambiare una lampadina rotta, prepararsi il bagno scegliere i
vestiti girovagare come un fantasma senza meta per il villaggio andare
sull’altalena ascoltare i rombi del temporale la notte fuori
dalla finestra da sotto le coperte da solo, per il proprio sogno.
Sasuke
conduceva un’esistenza tranquilla e all’insegna
della monotonia.
Ogni
giorno si susseguiva al successivo con ritmo cadenzato, ridondante come
il suono di campane che sembravano non smettere mai di
echeggiare in
testa. Le sentiva suonare la notte, tra le mura della sua grande casa:
incessantemente, si infilavano tra le assi del pavimento,
attraversavano le pareti sottili, pulsavano dove l’orecchio
incontrava il cuscino.
I
minuti si rincorrevano veloci, maratoneti professionisti e diligenti,
scattanti e sicuri nei primi metri, le energie nel corpo per assicurare
l’arrivo. Si svegliava la mattina, si preparava la solita
colazione e andava all’accademia. Era il migliore della
classe.
Le
ore però incespicavano, si pestavano i piedi da sole. A
metà corsa le energie mancavano, i maratoneti alleggerivano
il passo, la strada si faceva tortuosa e la distanza sembrava
più lunga che mai. Se ne tornava a casa, Sasuke, e si
preparava il pranzo, solo. Sgomberava poi la cucina, eseguiva gli
esercizi per il giorno dopo, correva nella foresta ad allenarsi.
Le
giornate, invece, non si concludevano mai. Vedevano il traguardo i
maratoneti, ma ad ogni passo sembrava allungarsi di un metro. Le forze
ormai esaurite, la mente esausta e pesante, le gambe tremanti che
minacciavano il collasso ad ogni passo. Sasuke allora si faceva la
doccia, ogni tanto cenava e poi si coricava sotto le coperte, sentiva
il freddo penetrare nelle ossa, ogni notte, ogni stagione. Le campane
sempre nei timpani.
Ogni
giorno la stessa monotonia, ogni giorno lo stringersi e dilatarsi del
tempo lo accompagnavano in ogni azione.
Era
solo, Sasuke. Uno spirito libero, non per scelta e non per nascita. Lo
era dovuto diventare. Nessuno ad imporgli degli orari, nessuno a digli
quando e come dovesse fare qualcosa, era lui a sancire il ritmo e la
qualità delle sue ore, nessun altro. Non più.
Aveva
un calendario appeso in cucina che segnava la data di molti anni prima,
un giorno che mai avrebbe dimenticato. Avrebbe anche potuto cestinarlo,
ma faceva male alla vista e al tatto avvicinarvisi. In compenso, aveva
un piccolo orologio sul comodino a cui si premurava di cambiare la
batteria e regolare l’ora ogni qualvolta ce ne fosse il
bisogno. Lo impostava la mattina per svegliarsi, lo impostava per
ricordarsi degli allenamenti che, strenuamente, occupavano tutta la
giornata e non davano adito al tempo libero. Lo impostava e lo teneva
con cura per ricordargli che il tempo era liquido, che un momento
correva a l’altro inciampava, che ogni secondo era vitale per compiere
un passo verso la meta, verso il proprio sogno, per il quale avrebbe
sacrificato sé stesso. Svegliarsi solo la mattina, studiare
ed allenarsi per il proprio sogno. Cucinare il riso, tagliare da solo i
pomodori, fare la spesa per il proprio sogno. Evitare le persone,
ignorare i bisbigli, ciondolare sul molo, attraversare il quartiere
vuoto a testa alta, sentire risate di fantasmi negli angoli sperduti
della casa stendere il bucato pulito raccogliere la legna per la stufa
d’inverno abbassare la testa ogni tanto non dormire la notte
e
desiderare di non essere proprio del tutto solo, per il proprio sogno.
Un
sentito grazie a tutti coloro che hanno scelto di aprire e leggere
questa storia del tutto imprevista e che mi lascia piacevolmente
sorpresa, a dimostranza che il tempo, per rimanere in tema, tanto si
dilata man mano che gli anni passano e tanto si restringe non appena un
pensiero ti coglie, facendoti fare un tuffo tra vecchi ricordi che mai
avresti pensato di rivivere. Grazie.
Lasciatemi
un pensiero del vostro passaggio, se vi va.
Un
saluto,
hibou.
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