Bene! Questo è il primo capitolo. La storia più o meno
comincia un po’ prima dell’uscita al cinema di Bella e Jacob. Bhè, che dire
ancora? Spero vi piaccia!
MezzaVampira
Primo Capitolo
Attorno a me tutto brillava e la luce del sole riusciva ad
illuminare ogni cosa. Sentivo la fredda acqua salata rinfrescarmi dalla calura
del sole che batteva forte. Mi lasciavo cullare dal dolce movimento delle onde.
Chiudevo gli occhi e non pensavo più a nulla.
Gli riaprii di scatto e fu tremendamente fastidioso ed
irritante. Mi guardai intorno ancora scombussolata. La vista era leggermente appannata
e percepivo con chiarezza un dolce tremolio sotto di me.
“Dormito bene?” mi chiese una voce familiare, quella di
mia madre.
“Sì, fino a un attimo fa”
Mi strofinai gli occhi con entrambe le mani e mi tirai
indietro i capelli scompigliati e ricci. Guardai attraverso il finestrino
dell’auto in corsa e mi fu impossibile trattenere una smorfia. Il cielo era plumbeo
e grigio, pioveva e davanti a me sfrecciavano velocemente abeti, pini, betulle,
vegetazione da un tipico clima piovoso. In quel momento, un dannatissimo ed
indesiderato clima piovoso. L’esatto opposto di quello che stavo sognando:
momenti di vecchi ricordi estivi.
“Per quanto ho dormito?” domandai con la voce ancora
impastata dal sonno.
“Quasi tre ore” rispose mio padre al volante.
Mi sistemai meglio sul mio sedile con un sonoro sbadiglio.
Dormigliona ero nata, dormigliona sarei morta. Cominciai a guardare fuori dal
finestrino, mentre sentivo il rumore regolare del potente motore dell’auto di
mio padre, aspettando di svegliarmi del tutto. Feci appena in tempo a vedere il
cartello di benvenuto della nuova cittadina dove ci eravamo trasferiti.
“Eccoci a Forks” comunicò mio padre. Non appena entrati in
città dovette rallentare e sentii chiaramente le vibrazioni sotto di me
attenuarsi. Cielo grigio, foreste, cielo grigio, foreste; Forks non era molto
diversa dal luogo dove abitavamo prima, una zona campagnola vicino a Chicago.
Cielo grigio e foreste anche là.
Più ci avvicinavamo al centro della cittadina, più le
foreste lasciavano posto a semplici abitazioni e a qualche raro negozio. Poche
erano le persone che vedevo lungo i marciapiedi e tutti senza eccezione si
voltavano interessati al nostro passaggio. Ah, capito; già sapevo che Forks era
la cittadina più piovosa degli Stati Uniti con la bellezza di circa tremila
abitanti, ma solo ora mi ero accorta che era anche la tipica cittadina dove
tutti sapevano tutto di tutti e dove i nuovi arrivati erano l'attrazione della
giornata, che vecchiette bisbetiche non si facevano scappare l’opportunità di
prendere come succoso nuovo materiale di pettegolezzi. Va bene, forse stavo
esagerando; magari le vecchiette bisbetiche non c’erano, ma era evidente che
qui le voci del nostro arrivo sarebbero corse molto velocemente. Girando la
testa verso il finestrino opposto, infatti, vidi una donna di mezz’età
chiacchierare interessata con un’altra di poco più giovane, mentre indicava la
nostra autovettura. Ripensandoci bene, sull’assenza di vecchiette bisbetiche
non ci avrei messo mano sul fuoco. Anche se una Lamborghini in una città così
piccola dava non poco nell’occhio. Mannaggia ai miei genitori e alle loro auto
veloci.
In breve arrivammo in pieno centro, dove spuntavano gli
edifici della stazione di polizia, della scuola elementare e di tutte le
principali strutture della città.
“Dalle fotografie non sembrava che le scuole elementari
fossero così ben tenute” commentò con una punta di vivacità mia madre, che
sarebbe stata la futura nuova insegnante della Forks Elementary School.
“Non si può dire lo stesso dell’ospedale” controbatté, a
pochi metri dalla scuola, mio padre, il nuovo medico primario dell'ospedale,
dove di recente era stato lasciato un posto vacante.
Passarono solo pochi minuti e ritornarono di nuovo gli
alberi. Ecco Forks, un reale buco di paese, dovevo ammettere; altra cosa di cui
mi resi conto solo allora. A Chicago era tutto diverso e tutto molto più grande
e facile. Sapevo che la mia vita sociale non avrebbe ingranato particolarmente
in una città con così pochi abitanti e con così poca scelta; ero una ragazza un
po’ particolare. La nostra casa si trovava fuori città, non molto lontano dal
centro, in una zona folta e boscosa. Io non l’avevo vista, ma mia madre mi
aveva detto che era “una vera delizia” ed era quello che più mi preoccupava.
L’auto rallentò lentamente fino a fermarsi; eravamo già arrivati.
“Che meraviglia!” Mio padre entusiasta scese dall’auto, seguito
da me e da mamma. Appena scesa dovetti coprirmi con il cappuccio del giubbotto
per ripararmi della pioggia che stava aumentando. Potei finalmente ammirare la
mia nuova casa in tutto il suo splendore. Tanto era lo stupore, la sorpresa,
l’euforia che non mi potei trattenere…
“Eh?!” esclamai, lasciandomi andare in un verso da papera.
Ma quel “Eh?!” ci stava tutto. La casa, o cosa,
cambiava di poco, era un’enorme e bianca villa, perché questo e nient’altro
era, a tre piani, escluso il pianoterra e la mansarda. Per non contare la
cantina ed il garage che molto probabilmente si trovavano nel seminterrato. Non
c’era nessun altro aggettivo se non “deliziosa” per descriverla. Dava
l’impressione di essere ingombrante. Non combaciava esattamente con l’immagine
che mi ero fatta.
“Che cosa diamine vuol dire Eh?” disse mio padre
secco, appoggiando il gomito sopra il tettuccio dell’auto nera.
“Mi avevate detto che era abbastanza modesta. Questo”
dissi puntando il dito contro l’abitazione “non è modesto!” Mia madre mi stava
perforando con lo sguardo.
“Non sto dicendo che non va bene…”
“Infatti è perfetta per noi” mi interruppe mio padre “è in
mezzo ai boschi, fuori dalla cittadina, in una zona tranquilla. Tua madre ha
fatto una affarone.”
“Ma non è troppo…troppo…troppo tutto solo per noi tre?”
“Sì, ma in una città così piccola è stato davvero un colpo
di fortuna trovare una casa” si intromise mia madre tranquilla “Pertanto, non
ha alcuna importanza il tuo parere; in ogni caso avremo abitato qua” continuò
sarcastica con un sorriso. Si diresse poi verso l’ingresso, seguita da mio
padre sorridente. Sbuffai, ma sorrisi anch’io, preparandomi psicologicamente
per l’interno. La porta d’ingresso era in pesante mogano seguita da una grande
veranda coperta da eriche ed erbe selvatiche. Ecco, questo mi piaceva. Mio
padre invece si stava guardando intorno insoddisfatto.
“Sarà meglio togliere queste erbacce…” Cosa?
“Perché?” dissi seriamente dispiaciuta. Mio padre mi
guardò sorpreso, mentre mia madre estraeva velocemente da quella cosa indecente
chiamata borsa le chiavi.
“Mi piace” mi limitai io. Mio padre fissò mia madre.
“Io ho smesso di capirla dieci anni fa” rispose lei
rassegnata. In effetti non tutti traevano piacere dall’avere erbacce che
devastavano la propria veranda. Con destrezza mamma aprì la porta e finalmente
entrammo. Questa volta nessun verso non identificato uscì dalla mia bocca. Al
momento ero troppo sconcertata. Prima di notare il grande e impolverato
lampadario appeso al soffitto, prima di notare la grande scalinata che portava
al primo piano, prima di notare la porta in legno che dava al salotto e che
mamma aveva subito aperto, notai il bianco. Tutto in quel luogo era bianco,
dall’intonaco delle pareti alle piastrelle in marmo, dalle scale ai drappi che
coprivano alcuni dei mobili lasciati dai vecchi proprietari. Era decisamente
inquietante.
“Allora, che ne pensi?” chiese mamma “Ah, è vero! Tanto
quale che sia il tuo parere non conta” Corrugai le sopracciglia e la guardai
corrucciata.
“Lo sai che sei davvero antipatica quando fai così?”
“Scherzi a parte, come ti sembra?” chiese mio padre con
una decina di teli bianchi tra le braccia. Perché doveva andare sempre così di
fretta! Cosa ci trovava di tanto orribile nella calma?!
“La ridipingeremo, vero?”
“In effetti” Sì avvicinò ad una delle parerti ed indicò
prima quella, poi la propria carnagione “Non c’è molta differenza”
“Sì, la dipingeremo, se vuoi” mi rassicurò mia madre “ma
per il resto?” Mi guardai intorno con attenzione prima di risponderle.
“Sì, mi piace” affermai “dopo che l’avremo ridipinta, sia
chiaro” precisai.
“Bene” se ne uscì mio padre con un sorriso. In quel mentre
il suo cellulare squillò. Rispose prima che lo squillo fosse finito.
“Pronto?” Alcuni secondi di attesa “Certo.” Il secondo
dopo era già tornato fuori sotto la pioggia.
“Intanto che tuo padre finisce di parlare con la ditta di
trasporti vai a sceglierti la tua camera”
“Ah! Credo che tra una camera e l’altra non ci sarà molta
differenza” dissi incamminandomi verso la scalinata “Bianco, bianco, bianco,
bianco…” cominciai a blaterare.
Infatti le pareti del primo piano erano tutte bianche,
compresa la moquette del pavimento. Cominciai ad aprire con malinconia tutte le
porte che incontravo, ma, come previsto, tutte le stanze sembravano uguali. La
casa però non era male, soprattutto per una cosa: nella parte retrostante
dell’edificio il calcestruzzo delle pareti era stato sostituito dal vetro. In
questo modo tutte le stanze della casa possedevano una grande parete-finestra
che si apriva su un paesaggio mozzafiato, fatto di alberi e montagne. Altro
punto in più per la nuova casa.
L’ultima stanza del primo piano, a differenza delle altre,
era anticipata da una porta in legno più spessa e con alcune decorazioni. La
stanza oltre quella porta era la più grande di tutta la casa, come lo era anche
la vetrata come parete. Ma era già occupata; davanti alla vetrata c'era già una
scrivania, che mio padre aveva già pensato di privare del telo, e alle pareti
grandi ed alti scaffali vuoti. Sarebbe stato senz’altro il suo ufficio. Decisi
perciò di passare al piano superiore, mentre sentivo il rumore dei camion di
trasporti avvicinarsi.
Al secondo piano la ricerca della camera ebbe finalmente
esiti positivi e perfino inattesi. Non avrei mai creduto che in quella casa ci
potesse essere una camera che non avesse pareti bianche. Anche la stanza in
questione come le altre aveva la parete-finestra, ma l'intonaco delle altre non
era bianco, ma di un caldo oro, il mio colore preferito d’altronde. Avrei anche
potuto scegliere un’altra delle infinite camere della casa e decidere poi io il
colore delle pareti, ma avere la camera già pronta era un grande risparmio di
tempo.
Sentii voci estranee e rudi provenire dal salotto: gli
addetti della compagnia di trasloco dedussi.
“C'avrei scommesso che avresti scelto questa” Mio padre
era apparso dietro di me per un preciso motivo; odiava la calma, e di
conseguenza le persone che facevano le cose con calma. Aveva quindi dato
immediatamente a mamma il compito di informare gli addetti dove collocare i
vari mobili, non sopportando la loro lentezza di persone normali. Non avrebbe
retto e si sarebbe innervosito.
“Vediamo se indovino dove vorrai sistemare i tuoi mobili”
lui si avvicinò al vetro “qua la scrivania e qua vicino il letto” si volse
verso di me “perché scommetto che vorrai goderti a pieno questa fantastica
vista.” Mio padre mi conosceva davvero bene.
“Sono davvero spettacolari queste pareti-finestre”
“Già” affermai io. Lui ritornò alla stanza.
“Là lo scaffale dei libri, nell’angolo lo specchio e
vicino l’armadio, nell’altro angolo l’impianto stereo” Cominciò infine ad
indicare vari punti sul pavimento “e qua un cd, qua un altro, là un altro
ancora.” Non ero stata mai una campionessa nell’ordine ed i miei cd ne erano la
prova. Mio padre cominciò ad osservarmi.
“Dov’è finito il porta cd che ti ho regalato?” Feci
spallucce. In realtà lo avevo regalato al signor Jackson, il mio vicino di casa
a Chicago, se si poteva definire vicino una persona che abitava a quasi un
chilometro di distanza. Non era brutto quel raccoglitore, ma serviva al signor
Jackson per i suoi dischi in vinile e mi era sembrato un gesto gentile
regalarglielo. Io sarei stata bene anche senza. No, ad essere sincera odiavo
quel porta cd; era ingombrante ed inutile e da tempo me ne volevo sbarazzare.
“Ah… lo sapevi che
il signor Jackson ne ha uno uguale?” Cavolo, beccata.
“Davvero? Che coincidenza…” dissi facendo finta di nulla.
“Ah ha” mi guardò poi con un sorriso sincero “ma te ne ho
regalato un altro” Cavolo alla seconda.
“Non avresti dovuto” Certo che non avresti dovuto! Cercai
di sembrare contenta, ma lui non sembrava convinto.
“Sto scherzando. Lo so che l’hai regalato al signor
Jackson perché ne aveva bisogno” Il “perché ne aveva bisogno” non era proprio
proprio giusto, ma non volevo mettere i puntini sulle 'i'.
“Smettila però di provare a raccontare bugie; con noi non
ci riesci e questo lo sai.” Già, era vero; io mi impegnavo, ma non capivo come
diamine riuscivano a beccarmi sempre. Cominciò a battere convulsamente il piede
sul pavimento stizzito ed annoiato.
“Quanto tempo ci mettono ancora?” Questa volta fui io a
sbuffare. Guardai l’orologio.
“Sono passati a malapena cinque minuti. Dovrai aspettare
fino a sera perché finiscano di sistemare tutto”
“E quindi devono passare ancora un po’ d’ore” sbottò
particolarmente irritato.
“Sei insopportabile quando fai così”
“Sai che l’unica persona che non mi dispiacerebbe uccidere
è quella che di nome fa Calma e di cognome Tranquillità” Scossi la testa.
“Lo so che le mie battute sono delle trovate geniali, ma
non ti permetto di copiarle!”
“No, sono delle pessime battute che solo una ragazza
strana come te potrebbe concepire”
“Grazie per la ragazza strana” dissi sarcastica.
I miei genitori erano diversi dagli altri in molti aspetti
ed anche un po’ particolari, come d’altronde lo ero io, in altri modi però.
Ormai loro si divertivano a prendermi in giro per come mi comportavo. Per
esempio, la ragazza di sedici anni tipo si trucca, indossa vestiti mediamente
aderenti, gonne, stivali, borsette. Per me, invece, era un po' diverso: l’unica
cosa che mettevo sulla mia faccia era il sapone la mattina, i miei vestiti non
erano più stretti di una L, anche se portavo ufficialmente una M, e le parole
“gonna” “stivali” e “borsetta” non appartenevano al mio dizionario. Mamma
apparse all’improvviso davanti alla porta.
“I traslocatori devono sistemare i mobili nella camera di
Abigail” comunicò guardando sconfortata mio padre, che scosse la testa e sbuffò
uscendo dalla stanza, seguito da me disperata quanto mamma. Come dicevo, anche
lui a quanto stranezza non scherzava.
Aprii improvvisamente gli occhi a causa di
quell'assordante rumore. Una mano uscì automaticamente dal piumone del letto
per cercare a tastoni quella terribile… cosa. Finalmente il rumore smise. Mi
girai dalla parte opposta ed affondai la testa sotto le coperte. L’uomo non si
poteva risparmiare l’invenzione della sveglia, che diamine? Di malavoglia tirai
giù le coperte. Un per niente accogliente freschetto mi avvolse e mi spinse a
rimettere le coperte immediatamente dov’erano prima. Sbuffai alla sola idea di
dover ritirar fuori la testa.
“Che palle…” mormorai scaraventando letteralmente le
coperte giù dal letto.
Mi alzai ed uscii dalla camera in modo simile ad un automa
per dirigermi verso il bagno, ovvero la stanza direttamente opposta alla mia.
Mi lavai e tornai in camera per scegliere i vestiti. Optai per la mia tuta
preferita, quella dorata. Oggi era il primo giorno di scuola e mi sarebbe
piaciuto che non fosse un disastro sociale. Volevo cercare di adattarmi più che
potevo, per questo avevo scelto quella; era la meno larga che avevo e la più
elegante, a modo suo, s’intende. D’altro canto i jeans non li potevo vedere, in
quanto erano assurdamente stretti e scomodi, quindi la scelta non sarebbe mai
ricaduta su di loro. Scesi poi al pianoterra a prepararmi la colazione.
Arrivata in salotto ebbi una bella sorpresa; i miei genitori mentre dormivo avevano
finito di ordinare tutto quello che mancava ed adesso a vivacizzare l’ingresso
c’era il grande tappeto persiano su cui adoravo distendermi e arrotolarmi.
Una volta che gli addetti ai traslochi avevano terminato
mamma e papà, con sua grande gioia, avevano provveduto a risistemare meglio la
casa, mettendo a posto il salotto, la cucina e le altre stanze, ad eccezione
della mia, l’unica di cui mi sono personalmente occupata.
Attraversai velocemente l’ingresso per entrare in salotto.
Ecco un’altra sorpresa; le pareti erano state ridipinte d’oro. Ora sì che
andavano bene. Il salotto ne aveva proprio bisogno; prima l’unica cosa che si
distaccava dal bianco era un pianoforte che i vecchi proprietari avevano
lasciato. Giunsi quindi in cucina, una grande cucina bianca, che però il legno
del tavolo e dei mobili non rendeva monocolore. Proprio sul tavolo c’era la mia
colazione. Avevo detto mille volte a mamma che della cucina me ne occupavo io,
ma lei non mi aveva mai lasciato fare. Diceva che cucinavo da schifo, ma,
primo, che ne sapeva lei di come cucinavo, e secondo, certo che cucinavo da
schifo se non mi lasciava mai provare! Incominciai a mangiare sola, chiedendomi
dove fossero andati quei due.
Nemmeno a farlo apposta erano già lì davanti a me, vestiti
e pronti per la loro prima giornata di lavoro. La gonna che arrivava alle
ginocchia di mia madre ed i bellissimi e lunghi capelli castano ramati tirati
indietro la facevano sembrare nient’altro che la maestra delle elementari per
eccellenza e lo stesso era per mio padre, un perfetto medico con completo nero
e camicia azzurra, insieme all’indimenticabile camice bianco. Assomigliavano
molto a protagonisti di qualche telefilm; solo che in questo caso mia madre era
la dolce e gentile maestra delle elementari strafiga, mentre mio padre
era il brillante medico chirurgo strafigo. Non c’era che dire, i miei
genitori erano davvero belli. A differenza della figlia dal naso a patata. In
quello momento però c’era un piccolissimo problema che… tanto piccolo poi non
era. Mi guardavano sorridenti, aspettando.
“Allora?” mi chiesero. Li scrutai da capo a piedi con aria
critica. Non c’eravamo proprio.
“Non più di venticinque” dissi risoluta alla fine.
“Non più di venticinque? Ne dobbiamo dimostrare almeno
trenta!” esclamò mia madre.
“Nessuno vi crederà trentenni!” Mio padre corrugò la
fronte serio.
“Non possiamo fare di più, Abi, lo sai. E con i documenti
la gente ci crederà comunque…”
“Fate come volete, la mia opinione l’ho detta…” borbottai
guardando improvvisamente interessata il latte che stavo muovendo con il
cucchiaio.
“Almeno un minimo di incoraggiamento lo potresti anche
dare.” Alzai improvvisamente gli occhi.
“Volete un incoraggiamento? Va bene!” indicai mia madre
“Tu, spero che con il tuo sorriso ammalierai tanti dolci bambini. E tu”
indicando mio padre “ti auguro di conquistare tutte le infermiere
dell’ospedale” Entrambi mi guardarono con un risolino sul viso.
“Bè… se meglio di così non riesci a fare…” disse mio padre
scuotendo la testa per poi guardare l’orologio della cucina “Sophie, è ora di
andare”
“Già. Buon primo giorno di scuola, Abi. Ci vediamo dopo.”
disse mia madre con già indosso il cappotto. Già, primo giorno di scuola.
“E ricordati…”
“…che i miei genitori sono morti in un incidente stradale
due anni fa ed ora vivo con i miei zii, lo so!” finii per mio padre. Tra poco
mi sarebbe uscito dalle orecchie. Mio padre sorrise.
“Buona giornata, tesoro!” dissero all’unisono, prima di
chiudere la porta. Il biscotto che avevo in mano mi si frantumò tra le dite.
Tesoro, ma ti prego. Guardai l’orologio anch’io. Tra poco sarei dovuta andare.
Presi un altro biscotto e lo immersi nel latte.
Far credere di avere un’età diversa; molti lo facevano, ma
si fingevano più giovani, non più vecchi. Era un dato di fatto; i miei due
genitori sembravano terribilmente giovani per avere una figlia diciassettenne e
tentare di dimostrarsi più vecchi era impossibile, soprattutto quando la figlia
poteva essere benissimo scambiata per loro sorella; anche se in realtà erano
dei vecchiacci, soprattutto mio padre. Scossi la testa; solo loro potevano
farlo, vampiri.
Sono curiosissima di sapere cosa ne pensate. Come inizio è
un po’ poco, ma dal secondo capitolo ci saranno importanti sviluppi.