Note:
questa è la mia fic partecipante e prima classificata (grazie a tutti, mi avete commosso, e a Vengeance, che ha
creato il fantastico bannerino in fondo alla storia) al concorso "Child Exploitation", tratto dal progetto Olimpiadi del CoS e del
Writers Arena . Si tratta di una One-shot "Originale". I riferimenti
geografici non sono precisi: benché la Pou Yuen esista e i dati su questa
fabbrica li abbia trovati su un vecchio articolo del "Corriere della Sera" sulla
sfruttamento minorile, non so se sia veramente vicina al Fiume delle Perle; nè
credo che dalla Torre Eiffel si possa avvertire lo scorrere della Senna. Il
quotidiano Nanfang esiste veramente, ed ha veramente pubblicato un
servizio-scandalo sulle fabbriche-carcere cinesi. Non so se la Pou Yuen abbia
davvero preso provvedimenti contro il lavoro minorile. La storia è scritta dal
punto di vista di Chang, il bambino vittima dello sfruttamento. Questa shot non
è stata betata. Buona lettura, spero vi piaccia^^. Commenti, critiche,
recensioni et similia, sempre molto gradite e apprezzate.
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a flowing river
“Guarda
in alto: cosa vedi?”
“Vedo
il cielo, e il tramonto, e le nuvole, mamma” rispondevo, beandomi del sole
incandescente che dipingeva le nuvole di rosa.
“Respira
a fondo: cosa avverti?”
“Le
margherite, l’acqua, e il vento delle montagne” dicevo, inspirando l’odore che
possono avere solo i campi in primavera.
“Chiudi
gli occhi: cosa senti?”
“Sento
gli uccelli e sento…sento il fiume che scorre, mamma” rispondevo, concentrandomi
per captare i pochi suoni che rompevano un silenzio altrimenti
perfetto.
Erano
quasi sempre queste le risposte che davo alle domande di mia mamma, quando ero
bambino e ancora mi sembrava di vivere in un mondo
incantato.
Erano
passati ormai cinque anni e da due non vedevo più la mia famiglia, se non in
fotografia. Stavano bene, ma vivevano lontani. Io ero a Dongguan, in fabbrica:
la Pou Yuen. Sarebbero diventati tre anni il prossimo mese, e dovetti cominciare
a lavorare quando nacque il terzo fratellino. In questo modo, non solo andammo
contro la regola che imponeva in media due bimbi a famiglia, ma inoltre ci
trovammo con una bocca in più da sfamare quando i soldi già scarseggiavano.
“Guarda
in alto: cosa vedi?”
“Vedo
delle travi malandate e un contro-soffitto che rischia sempre di cedere, tanto è
malmesso”
“Respira
a fondo: cosa avverti?”
“L’odore
della stoffa, del filo usurato, del sudore”
“Chiudi
gli occhi: cosa senti?”
“Sento
gli insulti del caporeparto, il trambusto delle macchine da cucire. Sento i
nostri sospiri”
Avrei
risposto così, se mia mamma mi avesse posto quelle stesse domande. Era stato da
sempre un rituale nostro, una specie di scoperta del mondo che ci circondava. Un
gioco di cui provavo, in quei giorni, una nostalgia infinita: solo lei e io, con
il suono dolce del fiume che scorreva, e le sue mani che per l’ultima domanda mi
chiudevano gli occhi, per proibirmi di barare.
Ma
un’altra mano tornò a scuotermi dai ricordi.
“Dannatissimo
Zheng! Lo vuoi capire o no che devi lavorare?” l’urlo di Yang Hanghong mi
trapassò il timpano, la guancia che mi bruciava per lo schiaffo
ricevuto.
“Niente
pasto per te oggi, lavorerai anche nella pausa!”
Come se
non succedesse già una volta ogni due giorni.
“Capito
o no, schifoso insetto?” insistè quell’individuo piccolo e borioso, dai capelli
unti e dal naso adunco, che avrà avuto al massimo otto o nove anni più di
me.
“Sì,
signore”. Sì, signore. Disciplina militare, né più, né meno.
La
sirena suonò: tutti si alzarono dal proprio tavolo in silenzio. In silenzio si
avviarono verso l’uscita, e in silenzio proseguirono verso la mensa, dove
avrebbero rischiato l’intossicazione alimentare per l’uso di bambù scaduto. In
silenzio sarebbero tornati ai loro posti, dopo mezz’ora di fila per il pranzo e
avrebbero ripreso silenziosamente a lavorare.
Lasciai
vagare lo sguardo oltre le inferriate che stavano alle finestre: in lontananza
si poteva vedere il Fiume delle Perle. Era un bel fiume, potente, libero, non
come il fiumiciattolo che scorreva vicino alla mia vecchia casa. Avrei tanto
voluto stare sulle sue rive un giorno. Avrei tanto voluto essere come lui:
trovare il mio corso lontano da quel posto d’inferno, essere libero. Ma la mia
vita, probabilmente, sarebbe trascorsa nella stessa maniera di tutte le altre
esistenze prigioniere di quel luogo: un corso d’acqua stagnante, un rivolo
fangoso che si sarebbe essiccato al primo periodo di siccità, destinato a
spegnersi velocemente.
Sospirai:
nessuno di noi amava quel posto, tutti avremmo voluto essere nelle nostre case.
O almeno poter uscire per le strade di Dongguan, godendoci il sole che ci era
precluso; poter giocare; poter vivere la nostra infanzia che scorreva lenta,
scivolandoci tra le dita come l’acqua cristallina del
Fiume
delle Perle. Ma ci toccava andare avanti in silenzio, stringere i denti pensando
alle nostre famiglie, rispondere con una maschera di rispetto a quegli stronzi
per cui lavoravamo. Sì, stronzi. Avevo tredici anni e non avrei dovuto dire le
parolacce. Mamma si sarebbe arrabbiata da morire.
“Com’è
andata la giornata?” era Liu Yiluan a farmi questa domanda. Aveva tredici anni,
come me, e anche lui lavorava nella mia stessa fabbrica. Eravamo nello stesso
dormitorio dal nostro arrivo alla Pou Yuen. Lui però era in un altro reparto:
uno dei capannoni dell’impianto F, confezioni. In parole povere incollavano le
suole delle scarpe che fabbricavamo. Aveva le mani deformate dal lavoro. La
prima volta che lo vidi rimasi di sale: non riuscivo a distogliere il mio
sguardo da quelle dita nodose e completamente storte. “Ehi, sono qua su” scherzò
lui, indicando il suo viso. Borbottai imbarazzato, diventando sicuramente rosso
come la sanguinea, quella rosa vermiglia cinese a cui, secondo mia mamma,
assomigliavo tanto quando mi intimidivo.
Liu
però non fece una piega alla mia reazione, e invece cominciò a scherzare,
dicendo che le sue mani assomigliavano tanto alle radici di zenzero, e che se
mai fosse riuscito a uscire dalla Pou Yuen, sarebbe andato a fare lo chef. “Con
tutto lo zenzero che si usa nella nostra cucina, sarei uno dei cuochi più
ricercati al mondo. Ho la materia prima proprio nelle mani!” rideva, scuotendomi
davanti agli occhi le dita pallide, piegate in angoli
innaturali.
“Al
solito” risposi io, gli occhi che mi si chiudevano dalla stanchezza. “Tu?”
domandai, per evitare che il sonno avesse definitivamente la
meglio.
“Io
tutto bene, ma è stata una giornata difficile per molti del mio reparto” mi
confidò a mezza voce, per evitare di farsi sentire. Nonostante io mi lamentassi
di Yang, come caporeparto non reggeva nemmeno lontanamente il confronto con
quello di Liu. Questo essere mostruoso era il peggio che potesse capitare: un ex
lavoratore, che si rifaceva sulle nuove leve di tutti i maltrattamenti subiti.
Circolavano storie orrende sul suo conto: si diceva che avesse portato più di un
dipendente alle soglie della pazzia, e che avesse abusato di un paio di
lavoratrici. Inoltre voci di corridoio sostenevano che nella tasca interna
dell’orrenda giacca marrone che portava, nascondesse un coltello. Mi veniva un
brivido di terrore ogni volta che sentivo Liu parlare del suo
caporeparto.
“Cos’è
successo?” chiesi, ansioso.
“Sai
Yao?”. Sì, avevo presente Yao. Un altro tredicenne, un altro campagnolo con
troppi fratelli, esattamente come me. Venivamo addirittura da villaggi
vicini.
“Sai
che i suoi hanno dovuto portarlo qui perché avevano problemi economici”. Mi
stava parlando di una storia fin troppo familiare.
“Ecco,
il mio caporeparto ha cominciato a insultarlo perché non lavorava abbastanza
velocemente. «Hey, stronzetto,
mettici un po’ d’energia nel lavoro che fai, per la miseria»”. Liu scimmiottava
il suo capo alla perfezione: una voce profonda e roca, con un accento del Nord
che sapeva di poca scolarizzazione, e di un infanzia passata lontana dalle
persone che amava.
“Yao
non ha reagito e ha provato a lavorare più velocemente, ma erano già due giorni
che non mangiava quasi nulla. «Guarda che sto parlando con te. Oppure i tuoi
hanno fatto nascere un figlio sordo?». Yao non ha risposto, ma ha cominciato ad
arrossire e si è morso le labbra, sai quanto è orgoglioso”. Liu fece una pausa,
scuotendo i capelli neri nel buio della stanza.
“Ma il
caporeparto ha continuato, imperterrito «Oppure, i tuoi ti hanno lasciato qui
perché non ti volevano?»”. Potevo immaginare la voce melliflua, la sottile
cattiveria che venava il tono altrimenti soave. Potevo anche immaginare la
reazione di Yao.
“Ovviamente
Yao non ci ha visto più e gli è saltato addosso. Sai il caporeparto cos’ha
fatto?”. Non lo volevo sapere.
“L’ha
preso con una mano e tenendolo per il braccio l’ha scaraventato dall’altra parte
del tavolo. Con una sola mano! Yao è svenuto sul colpo per la botta, e gli è
andata bene che si è solo slogato il polso. Ti rendi conto che si poteva
fratturare il braccio? E se ti fratturi un braccio vieni licenziato! E poi sai
che ha fatto il caporeparto? Ha sorriso. Sorriso, capito?”
Avevo i
brividi. Un misto di freddo e paura si era propagato dentro di me, mentre mi
lasciavo andare a un sonno inquieto. Dormii male, sognando gente che mi urlava
contro, sfottendomi e dicendomi che non avrei più potuto sentire il fiume che
scorreva vicino a casa mia, né ammirare da lontano il Fiume che intravedevo
dalla fabbrica, perché sarei stato schiavo per sempre della Pou Yuen. Una vocina
maligna mi diceva che non avrei mai potuto essere libero, che sarei sempre stato
sotto il controllo di qualcuno. Nel sonno sentii lo stomaco contrarsi per la
rabbia e per il dolore.
Il
mattino seguente, suonò la solita sirena. Sei e mezza, spaccate. Il mondo
avrebbe potuto crollare, ma tutti noi a quell’ora dannata, avremmo dovuto
scattare in piedi, pulirci le scarpe, lavarci la faccia e vestirci, nel tempo
netto di dieci minuti. Mi stropicciai gli occhi, cercando di trovare un appiglio
per non ricadere di botto nel mondo dei sogni.
“Chang,
Chang, svegliati! Faremo tardi!”. Liu mi scuoteva forte, strattonandomi le
coperte e trascinandomi praticamente fuori dal letto. “Andiamo, lo sai che a
colazione non ci danno nulla e se arriviamo tardi il cibo fa
schifo!”
“Mmh…sì,
Liu, sono sveglio” mugulai, mentre mi spruzzavo il viso d’acqua gelida,
trascinandomi insieme a lui verso la mensa. Presi la mia ciotola di riso,
provando a ricordare che sapore avesse il cibo in realtà: qui era tutto
insapore. Insapore, incolore, inodore…la Pou Yuen era un ambiente impersonale.
Totalmente privo di vita, benché fossimo oltre 30.000 dipendenti. Un inferno
mascherato da lavoro. Bella roba.
Ci
sedemmo a un tavolo, aspettando che gli altoparlanti trasmettessero gli avvisi.
In caso di ispezioni esterne infatti, dovevamo seguire una procedura diversa:
pulire quell’ambiente che nascondeva sempre troppe macchie d’unto e troppi
angoli sporchi, sfoderare un falso sorriso di rappresentanza, mostrarci felici
di lavorare in quel colosso di schiavismo. “Buon viso a cattivo gioco” come
diceva sempre mio padre. Qui purtroppo in gioco c’era il lavoro, da cui
dipendeva tutto il resto.
“Non ti
sei lucidato le scarpe” mi mormorò Liu, notando una grossa macchia di vernice
proprio sulla punta.
“Ma a
chi vuoi che importi?” borbottai, mentre una voce atona cominciava a gracchiare
dagli altoparlanti.
“Si
avvisano i dipendenti del reparto cucito, che oggi il caporeparto è assente per
malattia. Il caporeparto dell’impianto confezioni si è gentilmente offerto di
curare contemporaneamente le due squadre di dipendenti. I suddetti sono perciò
pregati di raggiungere tutti insieme il capannone F”.
La
voce si spense, mentre la poltiglia di riso che avevo appena ingoiato,
minacciava di rivedere la luce.
Dopo
aver finito le nostre misere ciotole di riso, io e Liu ci incamminammo
all’uscita della mensa, dove ad aspettarci, appoggiato al muro esterno, un
sorriso maligno che andava da una
guancia
scavata all’altra, stava lui. Io e gli altri minorenni del mio reparto ci
guardammo di sfuggita, reprimendo a stento l’impulso di deglutire per farci
coraggio: sarebbe stata una giornata d’inferno. Proseguimmo verso il capannone,
sotto lo sguardo del caporeparto. Per il momento non aveva ancora detto una
parola, limitandoci a fissarci: attento, calcolatore, sembrava aspettasse solo
il momento buono per attaccarci, come un rapace che vola in cerchio, bramando
che la preda faccia un solo, fatale passo falso.
Erano
le undici passate, e avevamo timbrato il cartellino esattamente da quattro ore:
le quattro ore più lunghe della mia vita. Ero terrorizzato a morte dal silenzio
del caporeparto: girava tra i tavoli, controllando il lavoro di tutti. Mi
sudavano le mani, e con la coda dell’occhio vidi Yao, la fasciatura intorno al
polso, che lavorava con una smorfia di dolore sul volto infantile. A
mezzogiorno, la sirena avvisò i nostri stomaci vuoti che il misero pranzo si
avvicinava. Tirammo un sospiro di sollievo, mentre ci alzammo, preparandoci a
raggiungere l’oasi sicura della mensa.
“Non
ricordo di avervi autorizzato ad alzarvi” sorrise il caporeparto, in piedi
davanti alla porta in modo da sbarrarci il passaggio. Un brusio si diffuse tra
tutti i lavoratori, mentre ci scambiavamo sguardi attoniti: era normale che il
caporeparto punisse un solo dipendente anche tutti i giorni, ma c’era una
qualche regola non scritta che vietava di far saltare il pranzo a tutti i
lavoratori. Inoltre, eravamo forse il gruppo più bisognoso di cibo: donne
incinte, bambini, e ragazzi in via di sviluppo.
“Scusi,
signore…” mormorò una donna, alzando timidamente la mano. Era una quarantenne
con un pancione decisamente sfacciato, e non mi sarei stupito affatto se avesse
partorito in quel preciso momento. Aveva lineamenti dolci, folti capelli neri e,
nonostante tutto, aveva quell’aria di serenità che possono avere solo le donne
in gravidanza. Mi ricordava tanto mia madre prima della nascita del mio primo
fratellino. Tutti la guardavano attoniti, senza quasi fiatare: discutere con un
superiore era fuori discussione, in qualsiasi caso e in qualsiasi momento. “Non
si deve discutere, mai, per nessun motivo” era una delle prime lezioni che avevo
imparato dagli altri lavoratori. Era una specie di imposizione, a cui tutti
dovevamo sottostare. Discutere voleva dire avere la peggio, sempre. Era come se
le acque del Fiume avessero cominciato a resistere alla corrente: le conseguenze
sarebbero state gravissime.
“Sì?”
sibilò lui, alzando il mento in segno di disprezzo, quasi a voler scacciare un
insetto particolarmente molesto.
“Sono
al nono mese di gravidanza, e mi chiedevo, se per caso, non potessi andare di
corsa in mensa per poter almeno nutrire il bambino. Il medico della fabbrica mi
ha detto che non va bene non mangiare in gravidanza…”
“Il
medico è notoriamente un idiota, signora. Quindi per favore la smetta di farmi
perdere tempo e torni al lavoro. E anche voi altri fareste meglio a prendere di
nuovo posto ai vostri tavoli, se non volete che capiti qualche disgraziato
incidente sul luogo di lavoro” rispose schietto, soffocando a stento un ringhio
di ammonimento.
“Ma…”
provò la donna. Il calcio arrivò senza nessun preavviso, dritto alla bocca dello
stomaco della povera lavoratrice. Gli occhi del caporeparto brillavano di una
felicità perversa, mentre la signora si accasciava al suolo, in preda ai
singhiozzi che volevano soffocare le urla. Le lacrime brillavano sul viso
pallido, mentre goccioline di sudore freddo le imperlavano la fronte.
Un
moto di rabbia cominciò a salirmi dentro, impetuoso come se il flusso del
rancore che avevo covato dentro per tanto tempo, spezzasse tutti gli argini
delle ridicole imposizioni di quel carcere mascherato da fabbrica. Nessuno
poteva permettersi gesti del genere, nessuno poteva privare qualcun altro della
felicità. Nessuno poteva permettere al fiume di rimanere
intrappolato.
“Ma…
un cazzo” sibilò lui, tornando ad appoggiarsi allo stipite della porta.
Brutto
cane schifoso.
“Un
cazzo? Lo sa benissimo che il medico di questa fabbrica è il più bastardo di
tutti voi, e che se ha detto a questa povera donna che deve mangiare, lo deve
fare”. Non seppi mai da dove vennero fuori quelle parole, non seppi mai cosa mi
prese mentre stringevo i pugni e sputavo fuori tutta la rabbia, tutte le
ingiustizie che avevo passato in quasi tre anni d’inferno. Da una parte ero
semplicemente terrorizzato, consapevole che uscire vivo da quella situazione
sarebbe stato impossibile; dall’altra provavo quasi una sorta di piacere
perverso nel vedere l’orribile viso del caporeparto deformarsi di stupore e
ira.
“Cosa?”
soffiò lui, ormai di un bruttissimo color mattone.
“Ha
sentito benissimo, signore” sorrisi io. Una vocina, da qualche parte
della mia testa, urlava ancora, con un po’ di buon senso “Basta, stai zitto!”.
Ma ormai, esattamente come un fiume trattenuto per troppo tempo, straripavo,
trascinando con me tutto ciò che mi circondava.
“Va
bene. Lo vedi quell’altro cretino che ha tentato di rispondermi?” fece lui,
avvicinandosi e facendomi girare il mento quel tanto che bastava per poter
vedere Yao: il viso abbassato sulle suole delle scarpe che stava cucendo, la
fasciatura bianca che risaltava sulla pelle. Era l’unico a non essersi alzato al
suono della sirena, l’unico che rimaneva immobile anche ora, continuando a
lavorare: aveva rinunciato a combattere. “Il volo che ho fatto fare a lui sarà
nulla paragonato a quello che potrei fare a te, brutto stronzetto borioso. Non
sei altro che l’ennesimo figlio di puttana, con i genitori troppo poveri perfino
per permettersi di offrirti una vita decente. O forse, dimmi, quella puttana di
tua madre ha avuto qualche bambino di troppo e ti tocca lavorare anche per
lui?”.
Sapevo
che non dovevo reagire, sapevo che i miei mi avrebbero detto di lasciar correre
e pensare al futuro, sapevo che stavo per fare lo sbaglio più grande di tutti.
“Forse
è quello che ha fatto anche sua madre, signore?”. La domanda eccheggiò
per tutto il capannone. Seguì un silenzio perfetto, come la pace dopo la
tempesta, l’acqua che torna al suo stato naturale dopo essere straripata dal
fiume.
Poi,
successero tante cose contemporaneamente. Vidi il caporeparto stringere i denti,
la mano destra che serrava qualcosa sotto la giacca del completo marrone. Vidi
lo sguardo inorridito di Yao, che sapeva già cosa stava per accadere. Vidi la
donna, ancora accasciata a terra, sollevare gli occhi scuri. Vidi Liu lanciarsi
verso di me, mentre un lampo argenteo brillava nell’aria pesante e viziata
dell’edificio. Vidi il Fiume delle Perle scorrere lontano, fuori dalla finestra,
libero come non mai, prima che tutto scomparisse nel buio.
“Guarda
in alto: cosa vedi?”
“Vedo
un cielo in cui volano gli aerei, vedo una coltre azzurra che promette libertà,
vedo il sole che mi illumina la pelle”
“Respira
a fondo: cosa avverti?”
“Qualche
profumo costoso, l’odore delle brioche appena sfornate, la fragranza del
mezzogiorno parigino”
“Chiudi
gli occhi: cosa senti?”
“Sento
le chiacchiere animate, sento la vita che scorre intorno a me, sento mille voci
e mille suoni”
Sono
sulla Torre Eiffel, appoggiato alla ringhiera di uno dei ristornati all’ultimo
piano. Sto aspettando che un cameriere venga a prendere la mia ordinazione, in
modo che Liu possa cominciare a cucinare. Ormai vive in pianta stabile a Parigi,
è fidanzato con una deliziosa ragazza francese, con folti capelli castani e un
adorabile nasino all’insù. Liu ora ha delle dita perfette, sistemate da un bravo
chirurgo, anche se sostiene scherzosamente che le sue vecchie radici di zenzero
gli mancano un po’. Da quando siamo venuti la prima volta, non ha più voluto
mettere piede in Cina. Io invece faccio il pendolare Parigi-Pechino-Dongguan.
La Pou
Yuen ormai è totalmente diversa, grazie all’associazione umanitaria con sede
principale in Francia, che ha salvato la vita a me, a Liu, e a tutti gli
ex-dipendenti. Senza di loro, probabilmente sarei morto per quella coltellata
tra le costole. Fortunatamente quel giorno un giornalista, Yuan Liang del
quotidiano Nanfang, era riuscito a infiltrarsi nella fabbrica, confondendosi tra
gli altri lavoratori, per un servizio-scandalo commissionato dalla NCEA, la No
Child Exploitation Association. Erano mesi che cercavano di entrare nella
fabbrica, e il caso volle che capitasse proprio nel capannone F, quello più
facile in cui infiltrarsi, a causa della confusione creata dal mescolamento dei
vari dipendenti.
Per
fortuna, senza farsi vedere, era riuscito a chiamare i soccorsi appena aveva
visto il caporeparto tirar fuori il coltello, e in questo modo la mia ferita, e
le botte superficiali a Liu che aveva provato a mettersi in mezzo tra me e quel
pazzo, furono prese in tempo, e dopo qualche periodo in terapia intensiva
riuscii a cavarmela senza nessun danno permanente.
Alla
mia uscita dall’ospedale, tutti noi dipendenti fummo intervistati a lungo, e
ripagati con i soldi che avevano ottenuto dalle denunce fatte ai danni dei
cosiddetti datori di lavoro, poi presentati nel lungo articolo pubblicato sul
Nanfang come sporchi schiavisti. Ho saputo che l’ex-caporeparto che
rappresentava il terrore di tutti i suoi dipendenti è chiuso in una delle celle
di massima sicurezza del carcere pechinese.
Ci fu
poi offerto di collaborare con la NCEA, come testimoni di tutti i lavoratori
sfruttati, soprattutto nel settore dell’infanzia. Accettammo in tre: io, Liu e
Yao.
Da
allora promuoviamo l’associazione in varie parti del mondo, portando come prova
le nostre storie, e quelle di tutti gli ex-lavoratori della Pou Yuen. Sappiamo
che il nostro lavoro è ancora lungo, e che da qualche parte del mondo i bambini
continueranno sempre a essere sfruttati, restando vittime di un’infanzia rubata.
Sappiamo che per fabbricare un paio di scarpe un bambino riceve 90 centesimi di
euro, mentre qui ad ogni vetrina le si può trovare a 178 euro in media. Sappiamo
che nelle fabbriche-carcere un mese di salario viene sempre trattenuto
dall’azienda come arma di ricatto: se un lavoratore se ne va lo perde. Sappiamo
che non riusciremo a fare molto, ma quel poco che facciamo cambierà nettamente
la vita alle persone che riusciamo ad aiutare.
Ho
rivisto la mia famiglia il mese scorso, e domani torno nel mio paese a trovarli
prima di tornare a Pechino, dove collaboro con il distaccamento cinese della
NCAE. Il più grande dei miei fratellini ha deciso di aiutarmi nel mio lavoro a
Pechino, mentre quello più piccolo ha già detto che da grande vorrà vivere a
Parigi come zio Liu. Mio papà è quello di sempre, e mia mamma è immensamente
felice. Mi ha fatto promettere che la prossima volta che verrò in Francia mi
accompagnerà: dalle cartoline si è innamorata della Torre Eiffel.
Sorrido, mentre il cameriere si avvicina, portandomi il menu. Chiudo gli
occhi, lasciando che il sole mi baci le guance. In lontananza sento la Senna che
scorre, un altro fiume che ha trovato il suo corso. Un po’ come me.
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