“Un canto per il
Dio”
Nella notte
non
era la luna l’unica a svegliarsi.
Quando il
sole
cominciava la sua discesa, e il lago si tingeva di arancione, si
potevano
scorgere veli bianchi, e rossi, e blu nell’acqua limpida,
come enormi meduse
che danzassero per dare il benvenuto all’oscurità
rinfrescante.
Quella
danza
era di una tale bellezza che si diceva fossero stati gli stessi Dei a
inventarla. Tanto splendore, naturalmente, era dovuta a un motivo, lo
stesso
per il quale nessuno del vicino villaggio umano di Grete si avvicinava
alle
acque dopo il calar del sole.
Nessuno,
tranne
il Re del suddetto villaggio, futuro sovrano di tutti e due i Regni se
fosse
riuscito a resistere ai tormenti che le divinità gli
imponevano ogni giorno… e
forse anche se non ci fosse riuscito. Non era stato il primo sovrano
pazzo che
avrebbero avuto, né l’ultimo.
Il Re
sedeva
ogni notte su una delle rocce piatte che circondavano il lago. Non
guardava la
danza dei veli, che le sirene imbastivano per attirare gli sventurati
nell’acqua, perché la bellezza di quei corpi
perfetti che scintillavano
attraverso l’acqua e i veli non gli interessava. I suoi occhi
erano rivolti
verso l’alto, all’unica cosa che, con la sua
tiepida luce, gli recava conforto:
la luna.
Le Sirene
erano
state create perfette. La divinità dall’Eterno
Sorriso aveva donato loro occhi
d’ebano e plasmato con le proprie mani ogni curva, per poi
donare loro una vita
d’acqua e sangue: era stato il suo scherzo agli umani, che
tanto meschini erano
sempre parsi ai suoi occhi. Vederli affogare nel tentativo di afferrare
le sue
sorridenti, tentatrici creature, lo divertiva oltremodo.
Lif era
abituata a danzare e ferire, la sua veste era color
dell’argento, i suoi
capelli color del miele, ed entrambi si tingevano di rosso quando
cacciava.
Dall’acqua si levavano i suoi dolci canti, che attiravano
quegli sfortunati
viaggiatori di passaggio, riempiendoli di un fremito caldo, un
desiderio che
poteva essere placato solo tra le sue braccia.
Creata per
mostrare la sua bellezza, come tutte le sue sorelle e tutti i suoi
fratelli… ma
quella volta era diverso, aveva quasi paura a mostrarsi
all’uomo del villaggio
che ogni notte si recava al lago. Gli gettava appena timidi sguardi
attraverso
la rete, e poi ne parlava, ne parlava, ma solo all’acqua,
bolle e increspature
che custodivano il suo segreto. Il silenzio sotto il lago.
Più
di tutto
aveva paura. Il suo canto sarebbe mai stato abbastanza bello per
quell’uomo,
che splendeva nella notte ammirando la luna? La luna, così
lontana da loro e
così diversa da qualsiasi sirena. Come avrebbe mai potuto
desiderarla,
quell’uomo, l’amante della notte?
Entrambi
sotto
la luce, ma quella che colpiva lei tremolava nell’acqua. E le
piccole
increspature erano un richiamo, che rischiava ogni volta di renderla
visibile.
Lif iniziò, un giorno, con un canto sommesso,
così delicato da far pensare a
quell’uomo che fosse solo il rumore della brezza
sull’acqua. L’uomo non parve
sentirla, ma a lei andava bene così perché aveva
quasi paura che lui abbassasse
infine lo sguardo e la vedesse.
Continuò
a
cantare “del vento leggero” e alla quinta notte
delle piccole rughe si
dipinsero attorno agli occhi dell’uomo, come un inizio di
sorriso, ma ancora
guardava la luna e non si era accorto di lei.
Lif
iniziò pian
piano a cantare più forte. Divenne il mormorio dei rami dei
ciliegi, che
contornavano il lago, poi il cupo canto degli uccelli notturni, anche
loro in
caccia dopo il calar del sole. Cantò come cantava il lago
quando la pioggia lo
colpiva, e cantò come i fulmini che una volta avevano
incendiato il bosco. Ma
fu solo quando cominciò a mormorare una melodia umana, che
aveva sentito
intonare dai pescatori, che l’uomo abbassò lo
sguardo.
Le parole
della
canzone, che conosceva a metà, le si bloccarono in gola. Gli
occhi di
quell’uomo erano d’argento.
«La
parola
giusta è “Sale”. “La nostra
neve sarà il sale”, non il
“sole”» l’uomo le
sorrise. Nonostante l’avesse sentita cantare, e nonostante
l’abito bianco
aderisse ai suoi seni, facendoli sembrare nudi, non c’era
traccia di lussuria
nei suoi occhi.
«Vorrei
che mi
insegnassi quella canzone», mormorò Lif.
«Con
piacere,
se prometti di non mangiarmi», non sembrava temerla davvero,
ma, dopotutto, chi
ha a che fare con gli Dei teme poche cose.
Lif
annuì e
quella notte fu l’uomo a cantare per lei.
Il Dio
dell’Eterno Sorriso rise fin quasi alle lacrime (se solo
fosse stato capace di
piangere…) quando Re Embla gli disse di aver incontrato una
sirena, e di aver
cantato assieme a lei per tutta la notte.
«Se
ti farai
uccidere per noi sarà solo un vantaggio», disse il
Dio. «Io e i miei cinque
fratelli saremo allora liberi di imperversare per il mondo».
«Ha
promesso di
non uccidermi e poi… credo che stiamo facendo
amicizia», rispose Embla, con un
mezzo sorriso.
«Amicizia!
Le
Sirene non sono fatte per quel genere di amore. Per nessun genere di
amore, in
realtà. E credimi, io lo so bene: le ho create».
La luna
pareva
essere diventata più luminosa nel cielo che andava
scurendosi. Embla voltò le
spalle al Dio, per tornare al lago, dove lo attendeva la sua canzone.
La sua
canzone
lo portò, infine, all’amore. Embla tese le proprie
mani alla sirena, lasciò che
si avvicinasse a lui e che si sostenesse aggrappandosi ai suoi vestiti.
Pur
possedendo delle gambe, Lif non camminava spesso fuori
dall’acqua, in quanto
per le sirene il rischio di morire sulla terra era alto. Incontrandosi
di
notte, non vi era il sole a seccarle la pelle, e poté
rimanere fuori, seduta
sul masso, ad ammirare la luna con Embla.
Il Dio
dell’Eterno Sorriso li osservava da lontano, pregustando
l’imminente disfatta
che quel giovane sovrano avrebbe subito.
Eppure non
andò
come il Dio aveva pensato.
Embla e Lif
si
carezzarono, baciarono, morsero, amarono… e non una sola
volta lei tentò di
fargli del male, e non una sola volta lui ebbe paura degli scintillanti
denti
appuntiti di lei. Le forti mani umani, fatte per strangolare le sirene,
furono
dolci nel stringere i fianchi di Lif. I denti aguzzi delle sirene,
fatti per
strappare la carne degli umani, furono delicati sul collo di Embla.
E tutto
andava
per il verso più dolce, fino a quando gli altri
non rovinarono la fiaba.
«Le
sirene non
possono amare!»
«Sono
dei
mostri, sporchi portatori di morte».
«Ti
farai
uccidere! Ci porterai alla rovina! Chi ci difenderà dagli
Dei quando lei ti
avrà lacerato la gola?»
Le stesse
parole del Dio uscivano ora da più e più bocche
umane, quelle del popolo di
Embla, che guardava il proprio Re ergersi sulle scalinate della propria
dimora.
Lif se ne
stava
un poco in disparte, al riparo dietro di lui, circondata di veli
bagnati che
avrebbero impedito al suo corpo di seccarsi troppo in fretta. Stringeva
al
petto qualcosa, nascondendolo con stoffe poco più che umide.
«Vi
sembra
pericoloso?»
Mentre
pronunciava queste parole, Embla si avvicinò a Lif. Con
dolcezza, le tolse ciò
che aveva tre le braccia.
«Guardatelo
e
ditemi, vi sembra pericoloso?»
Parve che
un
vento freddo avesse percorso la piazza, portando via le parole della
gente e
congelando il loro respiro.
Un neonato riposava tra le mani di Embla, un neonato dalla pelle
ambrata e
soffice come seta.
«Lui
è mio
figlio. Mio e di Lif. Il figlio degli umani, e delle sirene».
Il silenzio
terribile che ne seguì fu infranto da un tonfo. Embla si
voltò, e vide una pietra
rotolare vicino al suo piede.
Ne
seguì
un’altra e un brusio si levò per la piazza, un
suono rabbioso che si trasformò
in urla. Embla volse la schiena e trasse a sé Lif,
proteggendo lei e il
bambino, e attese il dolore di quelle pietre che cominciavano a
cadere…
Il dolore
non
venne.
Si
sentì
sfiorare la schiena, il calore di un altro corpo, e la piazza farsi di
nuovo
silenziosa. Embla si volse e davanti a lui vide la familiare sagoma del
Dio
dell’Eterno Sorriso, che gli dava la schiena, fronteggiando
la piazza.
Poi ci fu
il
sangue.
Dal nulla i
vestiti della gente si lacerarono, la carne si spaccò sui
loro petti, come se
fossero stati colpiti da invisibili colpi di spada. E ancora, e ancora
ferite
fiorirono sul loro petto, creando disegni di un cremisi intenso.
«Fermo!
FERMO!»
Embla si mise a urlare, afferrando il Dio, cercando di scuotere quella
forma
statuaria.
«Non
hanno
bisogno di un cuore che non sanno usare», la voce del Dio era
un canto, ma di
metallo, della legna che crepita e scrocchia quando il fuoco la
consuma.
«Dunque io glielo toglierò del tutto».
Le ferite
degli
agonizzanti abitanti di Grete si fecero più profonde, le
urla più alte.
«FERMO!»
Il Dio si
volse. La rabbia deformava il suo viso, rendendo terribile il sorriso
che le
sue labbra ancora formavano. Nei suoi occhi d’ebano
c’era il dolore della
gente, che si inginocchiava e pregava, e cadeva, ma nessuna
pietà.
Un ultima
ondata del suo potere e nessuno fu più in grado di reggersi
in piedi. Tutto
tacque, e nella quiete il Dio udì le risate dei suoi
fratelli, che dall’alto
osservavano la scena.
«Vuoi
tenerlo?»
La domanda
prese di sorpresa il Dio.
Embla
riuscì a
sorridere, seppur il suo viso fosse ancora segnato dalla
preoccupazione. Delle
piccole rughe cominciavano a disegnarsi sulla sua pelle, nonostante
fosse così
giovane. Lif riposava accanto a lui, il corpo immerso nella vasca
d’acqua,
perfetta e immutabile.
«Vuoi
tenere il
bambino?» domandò ancora il Re.
«Io
non…»
cominciò a dire il Dio, ma Embla gli aveva già
messo tra le braccia la piccola
creatura. Il bambino era morbido come seta, e non appena fu tra le sue
braccia
aprì gli occhi, rivelando iridi di un intenso argento, come
quelle del padre.
Il piccolo gli sorrise, scoprendo piccoli denti acuminati, come quelli
della
madre e come quelli del Dio…
Il Dio non
sapeva come tenerlo o cosa farci. Quella doveva essere la punizione di
Embla
per quello che lui aveva fatto alla gente del suo villaggio natio.
«Se
vuoi
saperlo, non ci sono stati morti tra la gente di Grete»,
comunicò Embla, quasi avesse
letto i suoi pensieri attraverso l’impassibile viso del Dio,
che non commentò
quella notizia in alcun modo.
«Non
dovrai più
fare una cosa simile per proteggerci», sussurrò
allora Embla.
Il Dio lo
guardò.
«Non
c’è
bisogno di preoccuparsi», disse. «Noi Dei non siamo
fatti per proteggere, né
per amare» e diede di nuovo a Embla il bambino, prima di
voltarsi e sparire.
«Quindi
è qui
che la storia si è svolta», il giovane
lasciò che l’acqua bagnasse i suoi
piedi, mentre camminava scalzo. La luce della luna illuminava la sua
pelle
d’ambra, strappava riflessi ai capelli scuri e sembrava
fondersi con i suoi
occhi d’argento; la lunga veste bianca era zuppa e pesava, ma
lui non sembrava
farci caso.
«Qui
è
cominciata», lo corresse il Dio dell’Eterno
Sorriso. «Domani la corona verrà
posta sulla testa di tuo padre. Embla diventerà
ufficialmente il Re di entrambi
i Regni, e i poteri degli Dei saranno sotto il suo controllo. Prima di
quel
momento, volevo che vedessi l’inizio della
storia…».
«Quindi
tu hai
salvato mio Padre e mia Madre perché ti sei affezionato a
loro e alla loro
bella storia?»
Il Dio si
alzò.
Camminò
lentamente verso il ragazzo, e quando fu davanti a lui prese il suo
viso tra le
mani. Nello sguardo del giovane non vi era paura, perché
difficilmente chi ha a
che fare con gli Dei può aver paura.
«Li
ho salvati
perché le sirene non potevano amare, e ora amano. Li ho
salvati perché gli Dei
non possono amare, ma ora io… amo te».
Il Dio si
chinò
fino a toccare le labbra del ragazzo con le sue. Lo tenne stretto a
sé, mentre
il suo vestito bianco iniziava a tingersi di rosso e le sue gambe a
tremare.
Quando lo
lasciò andare il ragazzo cadde all’indietro, con
dolcezza, nell’acqua limpida
del lago. Il suo corpo galleggiò, portato via dalle piccole
onde che il vento,
o forse il Dio, avevano creato. I suoi occhi d’argento erano
spalancati e fissi
sulla luna.
«Ma
guarda…
allora non sei cambiato, bugiardo senza cuore!» una voce
sorse dal nulla.
Cinque figure sostavano al suo fianco, tutte osservavano quel corpo
mortale la
cui voce si era spenta.
Il Dio
dell’Eterno sorriso rimase in silenzio fino a quando il corpo
dell’amato non fu
affondato nell’acqua. Presto il rosso del sangue si sarebbe
espanso, fino a
diventare solo una nuova parte dell’acqua, i pesci e le
sirene l’avrebbero
assorbito e il lago sarebbe tornato come un tempo.
L’acqua,
che
non aveva memoria, sarebbe rimasta per sempre limpida.
«Con
questo
sangue, io condanno i due popoli a unirsi», il Dio
dall’Eterno Sorriso chiuse
gli occhi. «Dall’unione delle Sirene e degli Uomini
nascerà una nuova razza, e
io condanno anche questa nuova razza, la condanno all’essere
il nuovo scudo del
Re che verrà; saranno la sua protezione, a costo delle loro
stesse vite».
«Bah,
ormai
almeno Embla è morto», la figura alla sua destra
sorrise. «E noi siamo liberi
di imperversare per il mondo».
«Per
fortuna,
questo lui non potrà mai saperlo», lui
riposava
ormai sul fondo del lago. «L’ho portato via prima
che sapesse della morte di
suo padre e di sua madre».
I fratelli
del
Dio dell’Eterno Sorriso risero, sparendo uno a uno, ognuno
diretto in una parte
diversa del mondo, ognuno pronto a portare sventura a una delle razze
che le
loro stesse mani avevano creato.
«E
condanno
voi, fratelli», il sussurro del Dio dell’Eterno
Sorriso carezzò l’acqua. «Vi
condanno a non poter più uccidere un Re, perché
d’ora in avanti ogni figlio di
Sirena e Umano che nascerà sarà da voi amato e il
dolore che proverete nel
ferirli sarà così straziante da ridarmi,
finalmente, il mio sorriso…»