La
città respirava un velo di nubi congestionate da un piovasco
in arrivo. Basso, disteso sopra l’orizzonte,
l’apice di un’onda in corsa verso la foce del
fiume, su un vento umido che prometteva di far fumare
l’asfalto sotto una cortina di gocce grosse come monete.
L’unico refrigerio che portava era quello intenso che si
alzava dalle piante assetate. Non – come la maggioranza degli
umani credeva – per il peso dell’ozono, ma
sprigionato dallo stesso polmone verde di Central Park. Un
bisbiglio di foglie che si distendevano alla ricerca di una sola goccia
d’acqua, prima di tornare ad assopirsi. Una preghiera.
Di
giorno non era così male. Vero, le strade erano
sovraffollate di turisti e il traffico pulsava di un battito lento, in
preda al torpore di giugno – e vero, il mini che aveva
affittato era in cima all’ultima rampa di scale del
condominio, esposto al sole senza misericordia. Dieci ore dieci e una
finestra a riflettergli addosso una lama di luce tagliente,
arroventata, ad angolazioni diverse. Perennemente. L’aria
condizionata andava a sbuffi, minacciando di congelare qualunque cosa
rimanesse troppo tempo sotto al bocchetto d’areazione.
Tuttavia, al caldo era abituato. Era un amico di vecchia data, a volte
uno scocciatore, mai un nemico. Dov’era nato il termometro
toccava i 45 gradi a maggio: i trenta di New York a inizio estate
impallidivano, a confronto, e i trucchi per sopravvivere senza
sciogliersi li conosceva tutti.
Erano le
notti, il problema.
Notti
insonni.
Notti
inquiete.
Notti senza
Risveglio.
*
This town is only gonna get
worse
|
Get out! And get gone
|
Derail
. t
o k i l l a
k i n g .
| Get out! And get
gone |
This town
is only gonna eat you
*
| What you want to do tonight?
|
I got
wounds to lick in life
Oh so many bills to pay
|
No this debt won't go away |
Non
era il locale più bello del mondo.
La
musica, diffusa da altoparlanti camuffati con scarso impegno, aveva una
qualità graffiata che parlava più di cd rovinati
che dello scratch di un buon dj. L’aria era blu di nebbiolina
artificiale e satura del dolciastro, permanente sentore di cocktail
alla frutta. L’acustica, quella era passabile, quando non si
faceva troppo caso alle distorsioni delle casse. Il pavimento tremava
con il rombo del basso come se un’intera band fosse
intrappolata sotto le lastre lucide, seppellita viva e condannata a
suonare ad oltranza dall’inferno. Il ritmo scandito dal
reactable, alla postazione d’onore sul panorama della folla
notturna, si arrampicava vertiginosamente di tono in tono.
Un
calderone ribollente di opportunità, ecco cos’era
– magico per alcuni, squallido per altri. La speranza di un
minimo di refrigerio si fermava alla soglia della porta: giù
per le scale, verso la calca, non c’era posto nemmeno per un
respiro.
Se
il ballo era quanto di più simile alla lotta, per i
newyorkesi delle ore piccole, la pista da ballo era una scena del
crimine. Un mare affannato di mani alzate a carpire le luci viola dei
faretti. La gente parlava, urlava, cantava, e le loro voci non erano
che un brusio indistinto, eccitato dall’approssimarsi del
culmine del beat. Insignificanti, nella loro singolarità
come in coro. La musica staccava pezzi di conversazione da un punto
all'altro dell'alveare ronzante, facendole a brani e ingoiando
malintesi.
Le
discoteche non erano la sua passione, ma Chandresh riusciva a capire
l’attrattiva che il Cauldron
poteva esercitare su un ragazzo desideroso solo di spegnere la testa. A
stento riusciva a sentire i suoi stessi pensieri – i nostri pensieri,
si corresse, accarezzando una spirula d’ombra che gli
scivolò lungo il braccio e gli si avvolse attorno, aprendo
un paio di occhietti lucidi e neri sulla selva di gambe che si
muovevano attorno a loro. Alla lunga le preoccupazioni, le ansie, i
progetti e le paure diventavano un’accozzaglia sfinita e
priva di senso, un ritornello che rimbalzava innocuo tra le orecchie.
Un rimpianto per il giorno successivo, al più. Se non ti
lasciavi rapire dall’atmosfera era lei ad entrarti dentro,
scavando fino a ricavare una camera di risonanza tra le tue costole. Il
resto era conseguenza. Il resto era istinto trascinante, bisogno cieco
di dimenticare, festa,
pandemonio. Un bel sogno, all'indomani, svaporato nel beato vuoto dello
stordimento.
Non basta ancora? C'è
sempre la droga. C’era sempre, la droga, e non
solo quella sintetica o il mix diluito di alcol e sciroppi. Tanto per
dirne una, fare overdose di presenze che occupavano tutto il locale era
perfettamente legale.
Presenze
umane. Tutte quante.
A
chiudere gli occhi le avvertiva intorno a sé con nitida
chiarezza. Gli sguardi. I corpi. I battiti cardiaci, sincronizzati su
un’empatia per mezzo del solo potere della musica. Gli odori,
non sempre gradevoli ma naturali, organici: niente a che vedere con il
lezzo stantio di sangue che accompagnava i Rasetsu in ogni dove.
Nessun
diavolo in pista, stanotte.
Ce
n’erano ancora a piede libero nella città, ovvio
– non tutti erano scoppiati insieme al NEST. Per i gusti di
Chandresh già quelli erano troppi, mostri sciolti e affamati
che ogni tanto comparivano nella cronaca cittadina, prima di essere
sommersi dalle nuove ondate di notizie. Guidati e resi folli da una
voracità mai sazia.
Senza scopo. Senza motivo
d'essere, se non ingozzarsi. Disgustosi.
Nel
suo tempo libero ne aveva stanati a bizzeffe, lasciando solo cumuli di
cenere dietro di sé, e per quanto riguardava la stampa...
oh, beh. Qualcuno della Corte dei Miracoli doveva avere gli agganci
giusti, per impedire che qualche spettrale foto delle furie bianche
girasse le prime pagine dei giornali.
In ogni caso, Hijikata e i suoi
avrebbero fatto bene a restare e aiutare a ripulire New York,
considerò il demone, spostandosi lungo il margine della
pista. Il bancone era da qualche parte oltre la curva di gente che
ballava all’unisono.
In onore dei vecchi tempi nella Shinsengumi. Perlomeno avrebbero
disteso un po’ i nervi.
Niente
di meglio di una caccia al mostro per risolvere vecchie diatribe.
D'altra parte, era piuttosto sicuro che i loro problemi non si
sarebbero risolti con tanta semplicità. In ogni caso, a
quanto pare stanotte era l'unico essere sovrannaturale a
calcare la scena. Una faccia fra tante per la maggior parte dei
clienti, forse appena un guizzo d’ombra per quelli che
avevano alzato troppo il gomito. Certi umani erano più
sensibili di altri, nel cogliere dettagli fuori posto.
Come
quella ragazzina. Taneda. E non solo lei.
Un
quarantenne con vestiti che supplicavano di essere restituiti
all’Hot Topic da cui erano usciti gli sbarrò la
strada, senza vederlo davvero. Chandresh prese nota dei dettagli,
meccanicamente. Una nota di colonia a coprire malamente
l’esalazione di sudore e una puntina di lingua ad umettare il
labbro superiore, impolverato di zucchero di canna. Muscoli costruiti
con integratori. Occhi castani, fissi sul gruppetto di ragazze in
abitini di lycra e micro shorts, ignaro, che ballava ad appena uno
sguardo di distanza.
Senza
disturbarsi a rallentare, Chanda si infilò tra le sue spalle
e il muro e si attardò a serrargli una mano alla nuca. Lo
sentì risucchiare un brusco sussulto ancora prima che il
bicchiere mezzo vuoto sfuggisse dalle dita pallide, al solo contatto
con la sua pelle fredda. Strinse. Una pressione minima per lui. Per
l’uomo era l’equivalente di una pressa meccanica.
«Checcazzo?!
Ma che cazzo sta — lasciami! Che ti dice il cervello?!
Sicurezza! »
Chandresh
si abbassò sulla sua spalla, trovando il profilo altrui con
un respiro.
«Hai
una pastiglia in tasca e più le guardi, più farla
scivolare nel drink che offrirai ad una di loro ti sembra una buona
idea. Vogliamo dire questo, alla sicurezza?», chiese,
affondando pigramente le unghie con una torsione del polso. Al
piagnucolio sconvolto che ottenne di ritorno, lo scrollò.
«Immaginavo. Mettiamola così: se ti vedo girare
attorno a loro, se te ne porti una in macchina, lo verrò a
sapere. E allora ti scopriranno in un cassonetto, strozzato su qualcosa
che, a quel punto, non ti mancherà per niente.»
Lasciò
la presa, allontanandolo con una spallata. L’uomo
barcollò e si tastò la nuca, goffo, il volto una
maschera di sudore – lo sguardo reso vitreo dalla confusione,
non per la minaccia. La sua mano libera strisciò alla tasca
dei jeans. Tastando. Cercando di nascondere il profilo della bustina di
plastica che ne sporgeva.
Chandresh
ne seguì il tragitto con gli occhi, li rialzò e
glieli piantò in faccia, lasciandogli un millisecondo per
imprimersi nella mente tutto
– le pupille a fessura stagliate sul viola delle iridi, le
ombre troppo nette che strisciarono giù dal muro a coprirgli
le spalle e tutte le promesse di violenza celate nel loro rutilare.
«Lo
saprò,» ribadì, la voce densa di un
sibilo, mentre l’oltraggio gonfio d’alcol si
dileguava da volto del suo interlocutore.
Il
tempo di un respiro e l’uomo gli aveva già voltato
le spalle, tagliandosi una strada a spinte tra i suoi simili, il corpo
irrigidito dalla paura. Non si voltò indietro neanche una
volta.
Chandresh
si strinse nelle spalle e ritornò al suo obiettivo, pestando
i cocci del bicchiere. Qualcuno sarebbe venuto a pulire le briciole,
prima o poi.
Rafael
avrebbe chiesto se ne fosse valsa la pena, a questo punto, pur sapendo
benissimo la risposta: Certo che ne valeva la pena. Sprecava il mio
ossigeno.
Il
pensiero rese più acuta la mancanza del fratello alle sue
spalle. Si immaginò la sua risata, il modo in cui avrebbe
scosso la testa al suo tono svagato. ‘Eccolo di nuovo a
svuotare l’oceano con un cucchiaio bucato’, avrebbe
detto, allargando le braccia.
Dei,
avrebbe voluto averlo vicino…
Non è qui. Dacci un
taglio con questi pensieri, non aiutano.
Scacciò la nostalgia. Forse un maniaco in meno non avrebbe
fatto la differenza, ma almeno non si sarebbe spazientito nel notarlo
con la coda dell’occhio, ancora e ancora. E comunque
all’ambiente del locale non poteva far male, un po’
di pulizia.
Chissà
se il suo bersaglio aveva realizzato di non aver scelto a caso il
proprio nascondiglio, a proposito. Chissà se si era reso
conto quanto, in realtà, il Cauldron si
avvicinasse al tipo di luogo da cui Serizawa Kamo aveva selezionato i
candidati per la sua armata sotterranea di Rasetsu. Troppo altolocato
per la gentaglia e non abbastanza chic per chiudere fuori i corrieri
della Corte, il loro estro avventuroso, la loro continua lotta per
attestare il proprio posto in città. Aveva il sospetto che a
Miki Mayfar quel paragone sarebbe volato dritto sopra la testa
— ma si sarebbe divertita a ingaggiare la folla con tutta la
panache di una californiana trapiantata dall’altro lato del
Paese, memore di feste in spiaggia e Malibu, per nulla spaventata dal
muoversi continuo della folla.
In
effetti si sarebbe divertita un po’ troppo, per accorgersi
che come ogni buon limen, anche il Cauldron
nascondeva mostri.
Bastava
cercare un po’, e occasionalmente guardarsi allo specchio.
Raggiunse
il bancone con il drop della musica, accolto da una salva di
acclamazioni. La bartender era una ragazza con un pixie cut di uno
sfavillante biondo ghiaccio, palesemente tinto. Un elaborato orecchino
le intrecciava un viticcio di turchesi attorno al padiglione sinistro,
un gioiello da elfo urbano. Gli scoccò un’occhiata
di apprezzamento, vedendolo appoggiarsi al bancone, fosse anche solo
perché Chandresh si guardò bene da sprofondare
gli occhi nel décolleté a spacco del suo top
nero.
«Ti
stai perdendo il meglio, honey,» lo avvertì,
buttando un paio di cubetti di ghiaccio nel tumbler di metallo.
«Sicuro che non vuoi tornare in pista? Ti tengo il posto per
una canzone, se vuoi.»
«No,
grazie. Fa troppo caldo, là dentro, e poi non amo ballare.
Lascio volentieri il posto a chi se la cava meglio di me.»
«Posso
tentarti con qualcosa di fresco, allora? Un Tequila Cooler? O magari un
Daiquiri, se non sei uno di quelli che si fanno spaventare da un girly drink.»
Chandresh
ammorbidì un sorriso solo per lei, incrociando le braccia.
Per un paio di istanti si concesse il lusso di rimirarla – di
osservarla davvero,
passando dalla struttura gentile del viso alle sclere arrossate per gli
effluvi continui di fumo, fino al rossetto trasformato in una sfumatura
cupa da un capriccio di luce. Il Khol nero e l’ombretto non
bastavano a celare occhiaie profonde e un pallore affaticato. La
ragazza era esausta. Particolarmente abile a mantenere la sua facciata
accattivante, sì, ma sempre esausta.
Sii gentile, si
ammonì. Digerisce
fin troppe stranezze su base quotidiana, per non parlare dei clienti
stronzi. Un pizzico di cortesia fa molta strada.
Si
schiarì la voce e prese fiato. La musica scelse
quell’esatto momento per scendere in picchiata verso una
bolla di sospensione.
«
Vorrei Ibuki Ryuunosuke, per favore. Va bene anche senza bicchiere da
cocktail.»
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| It's too late to say you're sorry |
say you're sorry still
I set out with heavy heart
| to bail you out again |
Un
mese, due settimana e dieci ore dopo essere stato assunto, Ibuki
Ryuunosuke stava scoprendo che non aveva poi accumulato tutta la
robaccia che credeva. La sua scarna esperienza lavorativa occupava uno
scatolone di dimensioni modeste. E nemmeno fino all’orlo: una
scossa ben assestata avrebbe spianato il contenuto fino a ridurre
l’ingombro della metà, stravolgendo il tetris di
spazi vuoti ed effetti personali.
Una
ben misera liquidazione, esattamente come la busta che il proprietario
gli aveva ficcato tra le mani, prima di dargli il ben servito.
«
‘Stai lontano dal mio locale, non m’interessa in
che banca vai a riscuoterli’»,
l’imitazione gli grattò la gola, acre di sarcasmo.
Gli diede sui nervi anche così, ridotto ad un banale,
strafottente falsetto – un fastidio che Ryuu sfogò
sul cassonetto più vicino con un calcio. Il contraccolpo gli
intorpidì la gamba e gli strappò una smorfia.
«E chi cazzo ce l’ha, una banca di riferimento,
brutto stronzo di merda?»
Oh,
l’idea di ficcare nel water l’assegno con il suo
ultimo, magro compenso gli era venuta eccome. Così come
quella di lasciarlo sulla scrivania, sotto gli occhi arcigni del
manager, per incassare invece la soddisfazione di suggerirgli dove
infilarsi quel pezzo di carta. Non lo avrebbe ripagato di tutte le
notti insonni passate a sgocciare birre, pulire i tavoli e sciacquare
il vomito dai cessi, ma sarebbe stata una bella rivincita in cui
affondare le zanne. Altro che uno stupido francobollo che gli dava
diritto a — udite, udite! — una piccola fortuna di ben 150 dollari e
73 centesimi.
Certo,
poi sarebbe morto di fame per strada, dal momento che
l’orgoglio ritrovato non lo avrebbe sfamato a lungo.
Si
era preparato alla scottatura, ma quel pensiero sfrecciò tra
una crepa e l’altra della sua armatura e lo colse alla
sprovvista, bruciandosi una strada attraverso il malessere che gli
serrava la gola.
Ryuunosuke
deglutì e sollevò lo sguardo al cielo,
obbligandosi a respirare a fondo.
È il terzo che mi
butta fuori, porca puttana. Il terzo. La terza occasione
sprecata, la terza opportunità di un inizio pulito andata in
malora.
C’era
stato un tempo in cui lo spettro della disoccupazione non lo avrebbe
disturbato così profondamente. La sua incapacità
di tenersi stretto un impiego era pressoché
matematica, conseguenza di un caratteraccio e di scarsa
gratitudine verso i buoni samaritani che decidevano di dargli una
chance — ma allora era diverso. La sua posizione era diversa.
Lo erano le sue preoccupazioni…
Come facevo? Come facevo a
prevedere che sarebbe successo di nuovo? Io non… cazzo. Non
è stata colpa mia.
Non potevo fare niente per
controllarlo.
Il
malessere salì a coagularglisi dietro la fronte. Non era la
prima né l’ultima emicrania che avrebbe patito,
scatenata dal ritmo sincopato della musica e dal volume troppo alto, ma
il licenziamento si era portata via le ultime briciole della sua
capacità di sopportazione. Tutto quello che gli venne in
mente fu che non aveva alcuna voglia di trascinarsi nel suo
microscopico monolocale, né di rintanarsi sotto le coperte
aspettando lo sfratto. Non aveva alcuna voglia di essere forte, o
ragionevole, o paziente. L’unica idea che gli
sembrò accettabile era buttare a terra la sua roba e urlare.
E
fu quello che fece.
Il
saettare di un tuono sopra la città si portò via
lo sfogo rauco della sua voce. Il resto lo rubò il
vento, e per tutta risposta Ryou gettò la testa indietro,
alzò il tono e si spremette il fiato dai polmoni fino a
sentirsi ardere il petto. Intenso dapprima, stridulo e rauco sul
finire, come un volo di corvi. Nessuno l’avrebbe sentito
all’interno del Cauldron,
e anche fosse stato, che mai avrebbero potuto pensare? Che era
arrabbiato? Pericoloso?
Che sono pazzo lo sanno
già.
Avrebbe
riso, se il sangue non avesse preso a martellargli tra le tempie. Il
traffico, il rimbombo ottuso della musica del Cauldron —
tutto si ridusse ad un ronzio indistinto. Rimanere in piedi
d’improvviso era insopportabile. Ryuunosuke si
lasciò trascinare sui talloni, alla ricerca del fiato perso,
quindi in ginocchio. Ora gli occhi gli pizzicavano, e non aveva niente
a che fare con la fitta che gli attraversava il capo dalla nuca alla
fronte. Si prese la testa tra le mani, stringendola per tenerla tutta
d’un pezzo, preso dall’infantile timore che potesse
frantumarsi da un momento all’altro.
Almeno Serizawa aveva delle
risposte.
Avrebbe
dovuto fargli molto più male, quella considerazione; invece
eccola, accovacciata a tendergli un agguato sotto allo sfinimento e
all’amarezza. Traditrice. Melliflua, pronta a fargli scordare
tutto ciò che aveva subito per mano di quel bastardo, in
cambio della promessa di uno scopo.
Una soluzione ai mal di testa sempre più frequenti, e al
codice a barre che gli ardeva sulla pelle, decretando una serie di
brividi che nemmeno il caldo riusciva a stornargli di dosso.
Serizawa
avrebbe saputo dirgli da dove diamine venissero, i black –
out, i tremiti, gli improvvisi vuoti allo stomaco e i rami
d’insonnia che lo frustravano una notte dopo
l’altra, mentre le lenzuola gli gelavano addosso, fradicie di
sudore. Avrebbe riso di lui, l’avrebbe minacciato, spinto a
rivelare i suoi punti deboli solo per colpirli con più forza
del solito, ma se avesse voluto tenersi il suo maledetto Re avrebbe
dovuto dirgli che cosa stava succedendo al suo corpo.
Dei,
si era quasi tirato addosso il pentolino d’acqua calda,
l’ultima volta che aveva perso i sensi. A svegliarlo era
stato il dolore pulsante delle vesciche, e aveva dovuto passare cinque
ore alla reception del pronto soccorso, aspettando cure che non erano
mai arrivate. Si era rintanato a letto a leccarsi le ferite, in egual
misura arrabbiato con se stesso e spaventato a morte, nemmeno
Kita… Okita
Souji… fosse venuto a suonargli il campanello
in persona.
Era
stata la prima volta che, la terra bruciata che la Corte dei Miracoli
gli aveva creato intorno, si era fatta strada nel suo animo. Solo. Era
completamente solo, aveva realizzato, e del tutto in balia di quegli
attacchi. Se fosse caduto di faccia sul fornello, o annegato in vasca
da bagno, nessuno sarebbe venuto a salvarlo.
A
nessuno sarebbe importato.
Un prezzo accettabile per
essere lasciato in vita, non era così che ti dicevi? Se
questa si può chiamare ‘vita’…
Basta.
Crogiolarsi nel vicolo sul retro del locale che l’aveva
appena sbattuto fuori non aveva alcun senso, e non avrebbe risolto i
suoi problemi. Ce l’aveva fatta fino ad ora. Si sarebbe
inventato qualcosa per tirare avanti. Forse era ora di spostarsi dalla
città, una volta per tutte. Con i soldi avrebbe potuto
comprarsi giusto giusto un biglietto per uno dei tanti satelliti
suburbani che orbitavano attorno a New York, correndo il rischio
continuo di essere travolte ed inglobate nello sprawl metropolitano, e
da lì... chissà. Si sarebbe fatto bastare
qualsiasi lavoretto di bassa lega. Anche l’elemosina, almeno
non avrebbe più dovuto preoccuparsi di finire sul radar
della Corte, di essere allontanato dal territorio reclamato con la
battaglia del NEST.
È una fortuna che non
sia schizzinoso. La solitudine era un boccone amaro da
digerire — aveva imparato a masticare di peggio. Si mise
carponi e prese a raccogliere i ticket della metro a manciate,
ficcandoseli in tasca senza guardare le date. E comunque ultimamente ho sempre
la nausea. Almeno non butterò soldi in cibo, magari
così riuscirò a risparmiare abbastanza per
spostarmi ancora.
Fece
un rapido punto della situazione, chino sul suo povero bagaglio. Non
gli importava granché della cassetta di latta capovolta sul
cemento, né del portafogli sgualcito per il modo brusco con
cui il manager l'aveva maneggiato, sfilandone il pass del locale. Li
raccolse lo stesso, meccanicamente, ponderando l’idea di
abbandonarli nel cassonetto più vicino. Non gli
servivano, erano solo un ingombro — e allo stesso tempo,
lasciarli alimentava il malanimo di dover ricominciare da zero. La
felpa dello staff, ecco: quella poteva tenersela,
gliel’avevano praticamente tirata dietro. Sarebbe stato grato
di poter contare su uno strato più, una volta tornato
l’inverno…
E questo?
C’era
un occhio, in mezzo ai biglietti.
Ryuunosuke
esitò, spiando il pezzo di carta tra i tanti con le braccia
ingombrate di cianfrusaglie. No, non si era sbagliato: c’era
davvero un occhio. Il disegno di un occhio, perlomeno, e un accenno di
linea che suggeriva il profilo di un viso.
Come c’è
finito, tra le mie cose? Si lambiccò il
cervello, cercando di ricordare se qualcuno dello staff avesse un
minimo di senso artistico — e se si fosse mai preso la briga
di parlarne con lui. Mise da parte felpa, scatola e portafogli,
lasciandoli cadere nello scatolone.
Perché sono sicuro
di non averlo fatto io.
Almeno… credo.
Lo
raccolse. Una fitta di delusione gli fece stringere le labbra: il
bozzetto non si estendeva oltre quei pochi segni a matita. A qualunque
viso appartenesse quello sguardo, si dissolveva in niente di fatto. Per
di più, a forza di sfregare con i bordi sgualciti dei
ticket, la grafite si era diffusa in brutte sfumature che parevano
aloni di sporco, rovinando l’effetto generale. Era un
fantasma, una brutta copia, né più né
meno come lui. Incomprensibile e… e…
Azzurro.
Il
formicolio cominciò a salire. Quando era iniziato? Non
avrebbe saputo dirlo. All’improvviso ne era acutamente
consapevole; lo sentì arrampicarsi dalla bocca dello stomaco
al petto, e diramarsi alle spalle, le dita, portandosi dietro una
certezza. Azzurro. Era sicuro che l’unico iride stagliato
sulla carta fosse azzurro, terso e limpido come un cielo sgombro. Come
il ghiaccio in controluce...
Come una lama.
«Ti
conosco?», soffiò, lisciando una piega nella
carta. «Ti ho già visto?»
Dov’è che
ti ho visto, soprattutto? E perché salti fuori solo ora?
Sarebbe
rimasto a fissare quello scampolo per un tempo interminabile
— anche questa consapevolezza se la sentiva addosso,
sprofondata sotto il mal di testa e le gambe che pulsavano per la posa
contratta. Fu la porta, il suono del maniglione che veniva schiacciato
dall’interno per aprirla, a strapparlo dalla spirale
discendente dei suoi pensieri.
Ryuunosuke
scattò in piedi come una molla, barcollando appena per il
capogiro che gli saettò lungo la schiena, minacciando di
sottrargli l’appoggio. Lo scatolone rimase a terra dove
l’aveva lasciato. Era pronto a correre via con il disegno
stretto nel pugno, e nient’altro.
«Me
ne sto andando!», sbottò, arretrando di qualche
passo. «Che c’è, mi è
proibito restare perfino nel retro, adesso? Volete sguinzagliarmi
dietro il buttafuori?»
«Spero
proprio di no,» rispose una voce maschile. Aveva
un’intonazione lievemente musicale, di velluto, a solleticare
le sillabe. «Vorrebbe dire che ho fatto una pessima
impressione sulla bartender.»
Un
campanello di allarme prese a squillare nelle orecchie di Ryuu.
Stagliato sotto la luce spiovente dei lampioni, il nuovo arrivato era
una sagoma nera ritagliata sul tessuto stesso della notte, come se la
sua stessa presenza bastasse a far concentrare le ombre in un unico
punto cieco. Ricci neri scomposti da un refolo di vento umido di
pioggia, mani infilate nelle tasche dei jeans, la schiena dritta a
mantenere alto il capo.
Occhi
di un soffice viola pervinca lo scrutavano, seri.
Ryuunosuke
si umettò le labbra, ogni nervo invaso dalla
tensione.
«Shiranui?»,
chiese, pur sapendo che era la supposizione sbagliata. Shiranui Kyou si
vestiva di strafottenza e aggressività. Era mercurio e
frenesia. L’uomo davanti a lui, a confronto, non aveva paura
di rimanere fermo. C’era un che di altero nella sua postura,
un controllo che gli fece immediatamente pensare alla silenziosa
immobilità di un serpente: distaccato dal mondo solo in
apparenza. Il sorriso che gli curvò le labbra gli
contagiò lo sguardo di un baluginio divertito.
«Andiamo,
Ibuki. Ti sembro giapponese?»
È l’altro.
Oh,
li aveva visti più di una volta alla Corte, prima che il
manipolo di senzatetto e vagabondi che la abitava diventasse un
esercito. Andavano e venivano a piacimento, senza fermarsi per
più di qualche ora, e qualunque tentativo di fermarli e
interrogarli si era risolto in un nulla di fatto. Le guardie non
facevano in tempo a mobilitarsi che erano già spariti. Lui e
l’altro, l’uomo con i capelli rossi e le scintille
sulla punta della lingua. L’Ombra e il Fuoco. I Dioscuri, li
aveva ribattezzati Ruth, quando era ancora viva. Lei e la sua dannata
passione per la mitologia. Per loro, Ryuunosuke aveva trovato
tutt’altro nome, dopo averli visti combattere contro i
Rasetsu del NEST.
Mostri.
«C
– credevo che tu e quell’altro ve ne foste
andati.»
Ombra
non disse niente, limitandosi ad avvicinarsi. Fece girare
un’occhiata sullo scatolone e il suo povero contenuto, quindi
sui biglietti che venivano portati a spasso dal vento. Le prime gocce
di pioggia cominciarono a rimbalzare sulle grondaie, pesanti,
esasperate dall'attesa tra le nubi.
Ryuunosuke
ripassò mentalmente le sue possibilità. Lo sbocco
sulla strada principale era oltre il demone, quindi impraticabile. La
escluse. I cassonetti alle sue spalle, per contro, offrivano
l’appoggio perfetto per guadagnare in altezza e svignarsela
sul tetto, o rientrare nel Cauldron
da una finestra. Avrebbe potuto seminarlo tra la folla prima che
riuscisse a prenderlo. Si aggrappò al pensiero, senza
riuscire a trarne davvero una rassicurazione.
«Ti
mandano quelli?», incalzò, serrando i pugni. Lo
scricchiolio della carta stropicciata gli fece saltare un battito nel
petto. Non voleva rovinare il disegno, ma tra quello e difendersi, la
priorità era chiara. «La Corte? Che
c’è, hanno cambiato idea e hanno deciso che vado
meglio morto?»
«Non
vedo la Regina e i suoi accoliti da un paio di mesi, proprio come
te.»
«La
Shinsengumi, allora.»
Di
nuovo, gli occhi di Ombra presero quel riflesso di luna.
Ilarità minima.
«Hijikata
- san è un demone, è vero,»
mormorò, fermandosi ad un paio di passi da lui.
«Ma non basta la sua nomea, a farmi prendere ordini da lui.
Ha ucciso con le sue mani innumerevoli uomini: se volesse eliminarti,
penso che non si farebbe molti scrupoli a venirti a cercare di persona.
Non è uno che la manda a dire, ti pare?»
Ryuunosuke
tacque, a corto di supposizioni e preso in contropiede dal tono
serafico dell’altro. La paura di farsi attirare in un falso
senso di tranquillità continuava a tallonarlo, azzannandogli
la nuca. Aveva il sospetto che avrebbe dovuto mettersi a correre
già da un pezzo — e ora quella finestra
d’opportunità era persa, svanita.
Ombra
osservò l’angolo di carta che sbucava tra le sue
nocche e rialzò gli occhi verso di lui. Solo gli occhi, per
qualche secondo. Osservando. Leggendogli addosso la diffidenza, la
stanchezza, la confusione. Il silenzio tra loro si raddensò,
scomodo, scevro di appigli.
«Sto
per partire,» disse il demone, quando ormai Ryuunosuke si era
convinto che sarebbe morto così, spogliato strato dopo
strato di tutti i suoi livelli di protezione e abraso
dall’attenzione esagerata che lo avvolgeva. «La
città può guarire anche senza bisogno che
pattugli le strade, alla ricerca di Rasetsu da abbattere. Non ho niente
da offrirle, e lei non ha nulla da darmi in cambio. Così
come non ha più riserve per te, Ryuu.»
«Ibuki. Non
chiamarmi Ryuu. Non ti conosco nemmeno, non permetterti di prenderti la
confidenza di — »
«Ibuki,
va bene. Vuoi venire?»
Ryuunosuke
sgranò gli occhi, interdetto. La sua bocca
ricalcò senza voce la domanda, un paio di volte, prima che
riuscisse a strappare un minimo di fiato alla sorpresa.
«I — io? Con te?»
Un
singolo battito di palpebre, paziente.
«Perché
io? Perché — senti. Senti, stai scherzando, vero?
Mi prendi per il culo.»
«Mai
stato così serio.»
«Io.
Venire con te.»
«Ti
farebbe bene. Un cambio di prospettiva, un po’ di aria
fresca…» Ombra si strinse nelle spalle, ogni
traccia di sottile divertimento svaporata dai suoi lineamenti fini.
«Forse riusciresti perfino a capire perché, da un
po’ di tempo a questa parte, ti senti morire ogni volta che
ti guardi allo specchio. Perché ti svegli con la memoria a
brandelli e la sensazione di aver perso qualcosa per strada, senza
riuscire davvero ad identificare cosa sia.»
Un
passo avanti, poi due. Mentre il demone chiudeva lo spazio tra loro,
Ryuu pensò confusamente che ecco, quello era il momento in
cui l’avrebbe colpito — perché
ucciderlo, l’aveva già ucciso a parole. Il suo
corpo si tese indietro, spontaneo, irrigidendosi nel prevenire
l’impatto. Serizawa l’aveva sferzato
così tante volte che i suoi muscoli avevano dimenticato il
tempo in cui non erano stati perennemente improntati alla fuga.
Ombra
gli torreggiò sopra. Era più alto di lui di tutta
la testa, affatto imponente - di fianco ad Amagiri o all’ex
capo della Corona Boreale sarebbe sembrato ben poco possente. Snello e
asciutto, come se l’esperienza gli avesse levigato di dosso
le asperità, come se gli avesse scavato dentro un
ricettacolo per le ombre. Era come lui, e al tempo stesso differente.
Un vessillo, un mutaforma, una lezione in fluidità. Gli
prese la mano. Se avesse impresso forza, nella stretta, Ryuunosuke si
sarebbe ribellato all’istante — ma la pressione delle dita
altrui gli lasciava il margine della scelta. Fece diventare sua la
decisione di alzare il braccio, polso in su. Sua, la decisione di
aprire le dita attorno al disegno. Impugnare le proprie azioni era
intollerabile. Abbassò lo sguardo, incapace di sostenere gli
occhi viola del demone.
Ombra
lo lasciò andare, facendo un passo indietro. Rimasero
così, a distanza di un soffio, con quel profilo di carta e
matita frapposto tra loro.
Dal
palmo della sua mano, l’occhio disegnato li fissava di
rimando, studiando ogni loro mossa.
Ti conosco? Ti ho
già visto?
Ryuunosuke
premette le labbra.
«Dove
andiamo?», si sentì chiedere. Intuì il
sorriso del demone senza vederlo.
«Chissà.»
|
Heart is beating heavily |
there's
blood in your ear though
Blood
on your shirt
|
Get out, get gone |
this
town is only gonna get worse
Get
out, get gone
this
town is only gonna eat you
[tbc]
Note
d'autore:
Un aereo? Un miraggio?
No, è la Kei che fa slalom per non studiare, same old, same
old. Ebbene sì, sono qui. EFP si è riempita di
pubblicità a pop - up che non mi entusiasmano per niente, fa
caldo e spotify mi dà suggerimenti per i prossimi capitoli.
Madò, giusto per dire che niente cambia, mhn?
Brutte battute a
parte, salve, salvino, sì, sono tornata - pressappoco.
Nell'avviso di conclusione di Derail I - Afterdark. Rebirth,
nonché in diverse risposte alle recensioni (a proposito,
ancora grazie, siete dei tesori <3 ogni tanto apro la pagina e
mi ritrovo nuovi commenti e un po' mi commuovo), avevo detto che non
avrei proseguito la serie. Chiudere la long che mi ha accompagnata per
tutto il periodo trascorso nel fandom doveva servire a dare un senso di
wrap - up. Per legare i fili sciolti e dare uno scopo (ahah) a
quattrocento pagine che, altrimenti, sarebbero rimaste a fermentare nel
mio hard disk. Derail I preventivava un sequel, io un po' meno. Non mi
sembrava un'idea fattibile, mi sentivo distaccata dai personaggi, non
ero soddisfatta di un numero di buchi di trama, eccetra eccetra.
Ebbene, come potete
notare dall'imperfetto, ho cambiato idea. Più o meno. Sono
stati parecchi a chiedermi se prima o poi avrei portato avanti un
sequel, e l'idea ha lentamente preso consistenza. Mi è
tornata la voglia di provarci, e vedere un po' che ne esce fuori — per divertimento,
per soddisfazione personale, per completismo, e chi più ne
ha più ne metta. E giusto per rimettermi in carreggiata, ho
pensato di portarvi questa mini long (programmo massimo 2 - 3 capitoli)
che vede come protagonista un personaggio su cui, nel finale scorso,
è rimasto un gigantesco punto di domanda. Il caro cagnolino
rissoso, sì. L'ho abbandonato a se stesso, dunque
perché non affiancargli un'altra faccia piuttosto enigmatica?
Come si può notare la voce narrante non è quella
di Miki Mayfair, non ancora, e la Shinsengumi non è in scena
di per sé. Aspettano all'orizzonte, ma non vi
dirò di più. Non vorrei spoilerare l'inusuale
road - trip che Ryuunosuke si appresta ad affrontare in compagnia di
Chandresh. Che dire? Non ho la più pallida idea di quando
aggiornerò - spero a breve, complice la facilità
con cui ho steso il capitolo e la finestra post - sessione di luglio.
Colgo l'occasione per ringraziare tutti
coloro che, nel bene e nel male, mi sono rimasti accanto e anche a
distanza di cinque (!!) anni dalla primissima stesura di questa serie,
da quando Derail era una modesta bozza in quello scatolotto del pc
fisso. Se D. è tornata è anche grazie a voi. Sono
ansiosa di sapere il vostro parere - sulla premessa, sui personaggi,
sullo stile che spero sia perlomeno maturato un pochino.
Alla prossima <3
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