Buonasera! :-)
Come annunciato sulla mia pagina
facebook, Sherlock is back and the game is on!
Quello che state per leggere - o almeno lo spero - è il
primo capitolo di un progetto ambizioso e al momento non ancora
concluso. Ultimamente l'ispirazione scarseggia, ma ho buone speranze!
Certo, sapere da voi che ne vale la pena sarebbe un ulteriore
incentivo... :-P
Anyway, la storia è ambientata dopo la quarta stagione e ci
sarà un nuovo antagonista, molto particolare, e che io amo
follemente!
Non vi dico altro per non spoilerare troppo!
Grazie e a presto!
P.S. I personaggi non
sono miei e questa storia non è scrtta a scopo di lucro.
Vostra,
_Pulse_
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WHAT'S GREY IN A BLACK &
WHITE WORLD
1.
Bernard d'Andrésy
Era raro,
rarissimo che Sherlock trovasse una lettura così
interessante da ignorarlo completamente. Nella quasi
totalità dei casi si stancava ed insultava l'incompetenza
dell'autore dopo poche pagine.
John
l’aveva trovato così quando finalmente era
riuscito a lasciare Rosie sul letto del detective ed era tornato in
salotto: infossato in quel divano che accoglieva così bene
le forme del suo corpo leggermente spigoloso, avvolto nella sua
vestaglia preferita e col naso nascosto tra le pagine di un grosso
volume scientifico.
Dopo aver
tentato ben due volte di avviare una conversazione si era arreso: se
voleva passare del tempo col suo migliore amico, la cosa migliore da
fare era sedersi sulla propria poltrona e concedersi qualche minuto di
relax, coi piedi vicino al fuoco scoppiettante nel camino.
Sentì
il campanello suonare al piano inferiore, ma non ci badò
troppo, certo che ci avrebbe pensato la signora Hudson.
L’idea che si trattasse di un cliente lo sfiorò
solo per un istante, il tempo necessario a dirsi che se anche fosse
stato ci sarebbe voluto un caso davvero straordinario per attirare
l’attenzione del consulente investigativo.
Non avrebbe
saputo dire con certezza quanto tempo fosse passato dal suono del
campanello, ma sobbalzò quando sentì la signora
Hudson scoppiare in quella sua risata che in un’occasione
molto speciale Sherlock aveva paragonato al verso di un gufo sotto
tortura.
Gettò
un’occhiata verso l’amico, ancora nella stessa
identica posizione, e aprì la bocca per chiedergli chi
potesse farle visita a quell’ora, ma la richiuse non appena
udì un verso simile ad un grugnito, uno di quei versi che si
fanno inconsciamente durante il…
Il dottor
Watson si alzò di scatto dalla poltrona e con cautela tolse
il libro dalle mani di Sherlock, scoprendo che in realtà il
grande detective non era tanto immerso nella lettura da non accorgersi
della sua presenza: si era semplicemente addormentato col libro sulla
faccia.
Trattenne a
stento una risata, mentre si aggirava per l’appartamento alla
ricerca di una coperta, pensando a quanto spesso si dimenticasse che
anche Sherlock era un essere umano e come tale aveva bisogno di
dormire, ogni tanto. Specialmente dopo un intero pomeriggio trascorso
dietro ad una Rosie novizia eppure già così
entusiasta del gattonamento.
La signora
Hudson aveva ricominciato a ridere come una matta e John non
riuscì più a trattenersi. Sulle scale
pensò a quale scusa poter usare per entrare in casa sua e
vedere coi propri occhi il suo misterioso ospite, ma non ebbe il tempo
materiale per scegliere quella adatta: un uomo elegantissimo, con una
folta chioma di capelli color biondo platino e due occhi verdi
particolari quanto il viso perlaceo in cui erano incastonati, aveva
appena afferrato il corrimano con la mano guantata di bianco,
intenzionato a raggiungere il 221B.
«Oh,
buonasera», esclamò e il suo volto si
illuminò grazie ad un sorriso perfetto ed affascinante come
tutta la sua persona. «Lei deve essere il dottor Watson.
È un vero piacere fare la sua conoscenza, sa? Seguo con
infinito piacere il suo blog e posso affermare con certezza di essere
il vostro più fedele ammiratore, suo e del monsieur
Holmes».
John fu
colpito da quel flusso di complimenti, dal suo accento francese, dai
suoi occhi brillanti come quelli di un bambino di fronte al suo eroe
preferito e dalla sua stretta di mano decisa ed energica, in contrasto
con la raffinatezza del suo aspetto.
«Ne
sono lusingato», riuscì a dire, prima che
l’uomo misterioso riprendesse a parlare.
«A
proposito del monsieur
Holmes. La vostra padrona di casa, madame
Hudson – che donna incantevole! – mi ha detto che
è in casa».
Stava per
superarlo, quando John stese un braccio e lo fermò sul suo
stesso scalino, trovandosi così a pochi centimetri dal suo
corpo. Solo in quel momento si rese conto della sua vera altezza
– doveva di fatto sollevare il viso per poterlo guardare
negli occhi – e di quanto in realtà fosse in forma
sotto quel completo impeccabile e con un prezzo che lui avrebbe potuto
pagare soltanto digiunando per diversi mesi.
«Veramente
il signor Holmes non si sentiva troppo bene ed è andato
letto presto».
L’uomo
misterioso lo fissò per un paio di secondi interminabili,
durante i quali John non si sentì solo in soggezione,
bensì anche un po’ spaventato. Sotto i suoi occhi
ora privi di ogni traccia di allegria e simpatia, colmi invece di
fastidio e scetticismo, si sentì indifeso, quasi nudo, e
alla sua mercé.
Sherlock
l'aveva scandagliato più volte, cercando in lui tutte le
risposte alle sue domande, ma mai si era sentito intimorito. Era come
se quell'uomo, al contrario del suo migliore amico, potesse leggere i
suoi pensieri peggiori.
Bastò
un battito di ciglia, però, perché tutto tornasse
alla normalità.
L’uomo
fece per posargli le mani curatissime sulle spalle ma all'ultimo
momento le ritrasse, stirando un sorriso reticente e scuotendo
lievemente il capo.
«Mon Dieu! Ho dovuto
fare i salti mortali per riuscire a ritagliarmi un’ora di
libertà – ho persino cancellato un appuntamento a
cui tenevo particolarmente – e il mio vecchio amico
è già tra le braccia di Morfeo!».
Sospirò e all’improvviso iniziò a
ridacchiare, scendendo le scale e dirigendosi verso la porta.
«Gli
dica che sono passato, caro dottor Watson, e di non preoccuparsi: anche
io sono ansioso di vederlo e sono sicuro che ci incontreremo
prestissimo».
«Non
so nemmeno il suo nome».
L’uomo
si voltò e socchiuse gli occhi, portandosi teatralmente una
mano alla fronte. «Mi perdoni, è la stanchezza.
È stato un lungo viaggio».
Si
aprì di nuovo il cappotto - molto simile a quello di
Sherlock, notò - e da una delle tasche interne
tirò fuori un bigliettino da visita, per poi controllarlo
alla luce dell'ingresso. John lo trovò strano, ma
trovò ancora più strano ciò che vide
guardando con più attenzione: non c'era scritto niente su
quel cartoncino, entrambi i lati erano immacolati. Quindi l'uomo
estrasse una stilografica, posò il piede sul primo scalino
ed usò il proprio ginocchio come appoggio per scrivere
qualcosa sul bigliettino. Infine, tenendolo tra l’indice e il
medio, glielo porse con un sorriso.
«Bernard
d'Andrésy», lesse il nome, scritto con una
calligrafia svolazzante ma chiara e precisa. «Tutto
qui?».
«È
tutto ciò che serve al monsieur
Holmes», rispose quasi con dolcezza.
John si
rigirò nervosamente il bigliettino tra le dita e in uno
slancio di coraggio scese le scale fino a trovarsi di nuovo al suo
cospetto.
«Non
capisco... Vi conoscete già?».
L’uomo
aprì la porta e si fermò sulla soglia, col vento
freddo che gli scompigliava i capelli. Non rispose alla sua domanda, ma
gli rivolse un sorrisetto malizioso ed esclamò: «Mon Dieu, sono
stato via per troppo tempo. Lo Sherlock che conosco non avrebbe mai
sopportato di stare nella stessa stanza con una bambina per
più di cinque minuti».
La
mandibola di John fu sul punto di crollare. «Come... come fa
a sapere di Rosie?».
«Non
può dire sul serio», esclamò con un
risolino. Leggendo l'incredulità sul volto di Watson,
però, si incupì. «Oh, dice sul serio.
Si guardi, dottore! Borse sotto gli occhi per mancanza di sonno, segno
che qualcosa o qualcuno la fa dormire poco o in maniera irregolare;
macchie di omogenizzato e pappa di mela con due diverse fasi di
seccatura sulla camicia, segno che sono stati somministrati a distanza
di qualche ora l'uno dall'altro; sempre sulla camicia, ci sono delle
pieghe poco sopra i fianchi che indicano chiaramente che ha tenuto un
cucciolo d'uomo in braccio per un lungo periodo di tempo, forse per
farlo addormentare».
«Lei
ha detto... ha specificato "bambina"».
L'uomo fece
una pernacchia. «Brillantini sulla sua spalla sinistra. Una
fascia, un qualche oggettino per capelli... Prettamente
femminili». Lo stesso sorriso reticente comparve sulle sue
labbra mentre sollevava una mano per agitare le dita.
«È per quelli che non l'ho toccata,
prima».
John rimase
scioccato dalle sue deduzioni, tanto da pensare: Oh no, un altro.
L'uomo
attese per qualche minuto, invano, che proferisse verbo; poi
scoppiò in una risata allegra che si concluse con un sospiro
soddisfatto.
«Sa,
dottor Watson... Mi sono giunte voci riguardo ai progressivi
cambiamenti di monsieur
Holmes e volevo verificare di persona. Il fatto che sua figlia al
momento sia sola con lui, nel suo appartamento, mi
meraviglia».
John
strinse i pugni lungo i fianchi, sentendo la rabbia iniziare a
scaldargli il sangue nelle vene. L'unico motivo per cui non disse nulla
fu il pensiero che mai, mai
avrebbe osato lasciare una creatura dell'età di Rosie sola
con lo Sherlock di qualche anno prima.
Il biondo
gli rivolse un cenno d'assenso, quasi come se avesse seguito per filo e
per segno il suo ragionamento, e finalmente uscì dalla
porta. John lo seguì e rimase sulla soglia, sferzato dal
vento, a guardarlo a bocca aperta mentre saliva su una Porsche
argentata e sfrecciava via facendo ruggire il potente motore.
Chi diavolo
era quell'uomo? E perché sembrava sapere così
tanto di Sherlock?
Il
desiderio di chiederlo immediatamente al diretto interessato lo
ammaliava, ma sapeva che se avesse svegliato Sherlock per qualcosa di
inutile questo gli avrebbe tenuto il broncio per giorni, e che se
invece si fosse trattato di un altro arcinemico sarebbe stato lui a non
poter più chiudere occhio fino alla fine del gioco.
Finalmente
si chiuse la porta alle spalle, cacciando fuori il freddo, e
dirigendosi verso l'appartamento della signora Hudson si
infilò il bigliettino nella tasca dei jeans.
Bussò
lievemente ed entrò, trovandola intenta a sciacquare un paio
di tazze da tè.
«Penso
di averle già detto come la penso a proposito di prendere il
tè con gli sconosciuti, signora Hudson».
La donna
spense l’acqua e si tolse i guanti di gomma viola, ridendo:
«Ma quel giovanotto non è affatto uno sconosciuto,
mio caro!».
John
corrugò la fronte, sentendo la confusione crescere come
un’erba rampicante nella sua mente. «Non lo
è?».
«Oh
no, lui e Sherlock sono amici di vecchia data!».
«Come
lo sa?».
«Me
l’ha detto lui!».
Di bene in meglio,
pensò gravemente il dottore, sedendosi al piccolo tavolo
della cucina.
«Non
lo trova tremendamente affascinante?», disse ancora la
signora Hudson. «Se solo avessi qualche anno di meno! Anche
se credo che le donne non siano proprio la sua… zona di
caccia, se capisce cosa intendo».
John si
massaggiò la mascella, meditabondo.
La donna, la finta
relazione con Janine e l'ultima, sconvolgente confessione che aveva
fatto a Molly - nonostante fosse stata una prova della sua pazza
sorella Eurus, - avevano reso la vita ancora più complicata
a tutti, ma specialmente a John, il quale non riusciva a non chiedersi
quale fosse la zona di caccia del detective, o se ne avesse una almeno.
Unì
le mani sul tavolo e con aria seria chiese: «Lei pensa che
tra lui e Sherlock…?».
«Non
saprei proprio, caro. Starebbero bene insieme però, non
trova?».
L’ex
medico militare pensò alla gioia nei suoi occhi e subito
dopo alla loro severa superiorità, capace di mettergli i
brividi.
Aveva
parlato con lui per… quanto? Dieci minuti? E al suo cospetto
aveva provato prima simpatia e un pizzico di ammirazione, subito dopo
timore e disagio.
Quell’uomo
aveva qualcosa che non gli piaceva e il solo pensiero che fosse un
amico di Sherlock, o addirittura qualcosa di più, lo rendeva
inquieto, anche se doveva ammettere che anche lui ce li vedeva bene
insieme. Di sicuro avevano molto in comune, a partire dalle
straordinarie capacità deduttive.
«È
di sopra, ora?», gli chiese la signora Hudson, interrompendo
i suoi ragionamenti.
«No,
Sherlock dormiva e ho preferito non svegliarlo. A questo punto mi
chiedo se ho fatto la cosa giusta».
***
John si
sentì un po' in colpa nei confronti di Sherlock quando
rientrando nell'appartamento andò a controllare Rosie.
Dormiva pacifica sopra il letto rifatto, un pugnetto vicino alla bocca
e il cerchietto coi brillantini rosa storto tra i boccoli biondi.
Quindi
tornò in salotto e una volta sprofondato nella propria
poltrona fissò Sherlock, rannicchiato sul fianco e con un
lembo della vestaglia che sfiorava il pavimento.
Tirò
fuori dalla tasca dei jeans il bigliettino da visita che gli aveva
lasciato Bernard d'Andrésy e lo girò e
rigirò, più volte. Completamente bianco, fatta
eccezione per il nome che aveva scritto a penna.
John chiuse
gli occhi, continunando a chiedersi: Chi mai se ne andrebbe in giro
con dei bigliettini da visita bianchi?
Qualcuno sempre pronto a
cambiare identità, rispose Mary dolcemente.
Spalancò
gli occhi e scandagliò l'appartamento, ma di lei nessuna
traccia.
Era da un
po' che non la vedeva né sentiva. Da quando si era
riavvicinato a Sherlock si era fatta da parte poco a poco,
gradualmente, fino a quando non era scomparsa del tutto. John si era
detto che era meglio così, che era giusto così,
ma una parte di lui ne aveva sofferto terribilmente.
Ed ora
eccola lì, di nuovo, pronta ad aiutarlo nel momento del
bisogno.
Abbozzò
un sorriso e tornò a chiudere gli occhi per ripetere
l'esperimento.
Non ha senso, si
disse. Nessuno
può cambiare identità in questo modo.
Mary non
rispose e John aspettò, fino a quando non cedette al
sonno.
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