Cuore di Drago

di TotalEclipseOfTheHeart
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Note dell’Autrice:
Ebbene, eccomi riapprodata, dopo tanti mesi di inattività, qui su efp.
Faccio un paio di premesse, prima di lasciarvi alla storia.
Innanzitutto, vorrei ringraziare Dollarbaby e Jadis_, le giudicie che hanno ispirato questa mia Mini-Long d’Ambientazione Orientale. Appena vi capita, passate a dare un’occhiatina ai loro contest anche perché, spulciando un po’ tra le altre storie concorrenti, posso assicurarvi che ne troverete indubbiamente molte di vostro gradimento.
Poi, dedico questa mia piccole digressione iniziale alle mie due migliori amiche, EragonForever e KakashiNoSharingan. La prima, per il costante supporto ricevuto durante la stesura, e la seconda per gli assidui GiappiConsigli sui nomi dei personaggi e dei luoghi (quindi se ho scritto balle, colpa sua!!!). Mi hanno accompagnata in questo percorso, sebbene debbano ancora leggere la storia vera e propria, spero comunque che possa essere di loro apprezzamento.
Infine, un piccolo spazio anche per le mie sorelline che, anche quando la scadenza era vicinissima, mi hanno spronata a non mollare e terminare questo racconto per il quale ho faticato tanto.
All’interno del racconto, incontrerete molti nomi e riferimenti alla cultura giapponese o cinese, ma state tranquilli. Il quinti capitolo sarà dedicato interamente a risolvere tali dubbi, e quando troverete una sopra a una certa parola, è perché potrete comodamente consultarne la definizione nella parte finale, in cui inserirò anche alcune piccole curiosità sul perché, per esempio, ho scelto proprio alcuni nomi per i miei personaggi o luoghi invece che altri.
Detto questo, spero di non avervi intrattenuti troppo e vi auguro una buona lettura. Aspetto con ansia le vostre recensioni, e per qualsiasi dubbio e osservazione sono sempre disponibile!!!
 
Teoth

 
 




 
Cuore di Drago
 
 
Gli elementi che identificano il carisma sono tre: 
l’indole innata degli eroi e dei profeti, 
la capacità di infondere benessere agli altri con la sola presenza 
e una cultura che ti permetta una conversazione brillante su ogni argomento.
(Psycho-Pass)
 
 

 
CAPITOLO I – RYUJIN




Iniziamo col dire una cosa.
Io, questo dannatissimo Diario Reale, non volevo proprio scriverlo.
Già ora che tutto è concluso, e ormai la mia fine è vicina, ho ben altre faccende di cui occuparmi, ci manchi solo che quella dolcissima e adorata rompiscatole di mia moglie non se ne venisse fuori con questa storia del “Lasciamo un ricordo ai posteri”.
Ovviamente, io le ho detto chiaro e tondo che nemmeno sotto tortura mi sarei messo a scrivere questa robaccia.
E quindi eccomi qui.
Ogni sacrosanta volta, va sempre a finire così. Anche se so che dovrò diventare imbecille per soddisfare i suoi desideri, alla fine lei e quel suo sorrisino innocente finiscono sempre per farmi fare tutto quello che vuole, manco fossi il suo animaletto domestico.
Dannato matrimonio … lo sapevo che mi stavo scavando la fossa quando la sposai.
Però, quando viene da me con quegli occhioni da cerbiatta supplicante, come diavolo dovrei fare a dirle di no?
Comunque, meglio che mi presenti.
Io sono Ryujin Tianlong … e questa è la mia storia.
 

A quel tempo, vivevo ancora a Shukai – Shi, la Città Celeste dei Naga.
Un posto dalla bellezza sublime, così remoto e irraggiungibile che, per quei poveri mortali che potevano solo limitarsi a osservarlo abbagliati, pareva più un miraggio lontano che altro.
Dopotutto, loro erano sempre stati, sin dal nostro arrivo ad Ayumu, niente di meno che un gruppo eterogeneo e caotico che nomadi e vagabondi barbari e incivili. Continuamente braccati dagli Oni, non avevano né i mezzi né il modo per concedersi il lusso di puntare a un futuro più luminoso e grande, per cui si limitavano a vivere alla giornata, raggomitolati nel loro angolo di terrore, nella speranza che, almeno fino a sera, non venisse un qualche demone affamato a divorarli vivi. Era ancora l’Era della Notte Eterna, e, nel loro futuro, non intravvedevano nemmeno uno squarcio di luce, solo un orizzonte buio e cupo, con cui si erano abituati a convivere e che nemmeno avevano più la forza di affrontare.
Dopotutto, erano solo che delle creature deboli e spaurite, per gli Oni, cacciarli e sterminarli come animali era un giochetto da ragazzi, un passatempo divertente e appagante di cui andavano fieri. In attesa che quella terra che credevano loro venisse finalmente conquistata.
O almeno, così era prima dell’arrivo dei Naga.
Ora, a quel tempo non avevo nemmeno la più pallida idea di perché diavolo i miei antenati avessero deciso di abbandonare il Nirvana per proteggere quella che era, sotto tutti gli aspetti, una razza spregevole e inferiore, che nemmeno meritava le nostre attenzioni, figuriamoci una protezione contro i demoni.
Giunsero una notte, lasciando per sempre quella dimensione che per loro era casa, e le cui porte si chiusero una volta per tutte alle loro spalle.
E offrirono agli umani la loro protezione.
Inutile dire che, quando si trovarono di fronte a quei rettiloni possenti, i mortali rimasero abbagliati dallo splendore che emanavano, arrivando a ritenerli persino divini e inchinandosi senza esitazione al loro cospetto, ringraziandoli quindi per quel generosissimo, e del tutto inatteso, aiuto.
Da allora, i Naga vissero ad Ayumu, combattendo notte e giorno una guerra che divenne, col tempo, prima centenaria e poi millenaria, uno scontro eterno e perenne che nessuno pensava sarebbe mai stato destinato a finire. Si stabilirono sui cieli, costruendo Shukai – Shi, una dimora ben lontana dalle diatribe e dai dolori terreni, che invano cercava di perseguire il miraggio di quella dimensione natia il cui ricordo si era, col tempo, affievolito fino quasi a svanire. Solo una nostalgia infinita permaneva, verso quella casa che mai avremmo potuto rivedere. Quella parte del nostro cuore che mai sarebbe tornata.
Gli anni passarono, mutando in Ere, e lentamente, gli esseri umani parvero, seppur poco a poco, uscire da quello stato di letargo in cui si erano lasciati scivolare durante la Notte Eterna. Certo, erano ben lontani dal raggiungere uno scopo superiore, e la loro cultura ancora regredita e frammentaria, ma, almeno, non erano più costretti a fuggire come conigli spauriti.
Grazie alla protezione offerta da noi, furono liberi di dedicarsi alle colture e agli allevamenti, di costruire villaggi e culti, di tirare su famiglia e di ottenere un lavoro.
Tutto grazie ai Naga.
Inutile dire che, col tempo, si convinsero così radicalmente delle nostre origini divine che finirono col venerarci sul serio, costruendo templi in nostro onore, facendo offerte e indicendo feste in nome nostro. Essi davano le loro figlie in dono ai culti che avevano costruito, perché soddisfacessero i nostri desideri e ci dessero tutto ciò che desideravamo.
Col tempo, i Naga che, inizialmente, avevano cercato di rifiutare con modestia tali doni, finirono col ritenerli prima scontati e poi persino dovuti. Dopotutto, molti di noi donavano il proprio potere e la propria vita per proteggerli, quindi era quantomeno opportuno che loro ricambiassero, no? Anzi, se volevano veramente che continuassimo a garantire la loro pace, se la dovevano proprio guadagnare, e non erano in pochi a pensarlo.
I tributi divennero quindi obbligatori e regolari, anche se, probabilmente, i mortali non lo ritennero mai un problema. Dopotutto, noi li proteggevamo, quindi erano anche felici di dare qualcosa in cambio.
Io crebbi in quell’ambiente, come unico e solo Erede del Grande Tianlong, l’Imperatore Drago che, con il suo Karisuma in grado di guidare interi eserciti, regnava indiscusso su tutta la Città Celeste. Potete quindi immaginare come fui educato, vissi per anni nel lusso più sfrenato, con centinaia di lecchini a elogiare ogni mio singolo gesto e servitrici disposte a soddisfare ogni mio desiderio, anche quello più malsano.
Ero bello, forte e intelligente, perfetto per il trono.
Beh … più o meno. Per essere sincero, ora che ci penso ho seri dubbi che, quando mi voltavo di lato, la mia reputazione fosse proprio buona.
Anche se avevo quasi raggiunto l’età adulta, non mi ero mai interessato agli affari di corte. Ignoravo completamente i continui richiami, i consigli di guerra e i balli della nobiltà che avrebbero dovuto vedermi al centro dell’azione politica ed economica del paese. Spendevo il mio tempo svagandomi come meglio mi veniva, che fosse intrattenendomi con le meretrici dei bordelli della città o a caccia col mio falcone, poco importava.
Guardavo con divertita commiserazione quelle povere anime dei miei simili che, invece, si sbattevano notte e giorno al Fronte Occidentale per combattere con gli Oni. Li deridevo persino, chiedendo loro che senso avesse spendere le nostre inestimabili vite per proteggere quegli inetti dei mortali che erano stati creati solo per leccarci i piedi e soddisfare i nostri desideri.
Peccato, però, che la cosa non fosse destinata a durare.
Dopotutto, ero l’Erede, avrei dovuto immaginarlo che, prima o poi, mio padre mi avrebbe convocato, perché prendessi il mio posto tra i Naga.
 

Ricordo ancora chiaramente come, quel giorno, mi trovassi al Drago Vorace.
Situato nel Quartiere dei Piaceri di Shukai – Shi, quel magnifico locale era il solo che proponesse, ai suoi ricchi frequentatori, dei servizi di sole donne mortali.
Perché dovevo ammetterlo.
Forse, quelle dannate bestioline erano anche inutili sotto parecchi aspetti, ma diavolo se scopavano bene! Quindi, un bel giorno, al proprietario del posto venne la geniale idea di farne arrivare alcune, propriamente addestrate al compito, direttamente dalle terre mortali, perché soddisfacessero le voglie dei Naga ricorrendo al loro fascino di fanciulle dolci e indifese. Inutile dire che gli piovvero in testa soldi a palate.
Dopotutto, anche se la stragrande maggioranza poteva solo sognarsi di raggiungere la Città Celeste, non era comunque raro che alcuni esseri umani avessero la fortuna sfacciata di poterla visitare. Erano ottimi lavoratori, e avrebbero dato la testa per noi, perché non sfruttarli al meglio? Come servi, erano perfetti … non si ribellavano e ci baciavano i piedi come fossero nati per farlo. Inoltre, per evitare un inutile dispendio di energie nel cercarne sempre di nuovi, la consuetudine di concedere a chi di loro alloggiava stabilmente nella città parte della nostra durata vitale si era fatta sempre più diffusa. Anche se, ovviamente, non poteva eguagliare nemmeno remotamente quella di noi Naga.
Quindi perché non usarli anche per altre, e ben più piacevoli (sia per noi che per loro), attività?
Il Drago Vorace era, quindi, la Casa di Piacere più frequentata di tutta Shukai – Shi. E io ne ero, sotto ogni aspetto, il frequentatore più dedito e fedele.
Ero giunto, come ogni sabato, a mattina presto, dopo aver largamente anticipato al proprietario il mio desiderio di vedermi servite, per quella volta, delle fanciulle dalla chioma rosso sangue. Magre, perché in quel periodo mi piacevano quelle con poche tette e fisico esile, e con tante e dolcissime lentiggini a punteggiare il loro volto. Adoravo le lentiggini, mi facevano andare letteralmente fuori di testa.
Quando arrivai, trovai, come sempre, l’accoglienza migliore che potessi desiderare.
Una decina di fanciulle mi accolsero sorridenti, osservando estasiate il mio fisico perfetto e atletico, la mia superba chioma dorata, marchio indelebile del mio sangue reale e mio maggiore vanto. Guardarono contente le mie iridi rettilinee, di tutte le sfumature del tramonto, e la schiera imponente di corna dragonesche che andavano a mettere la ciliegina sulla torta ai miei invidiabili 180 cm di altezza. Soprattutto, cosa che ovviamente non mi sfuggì, osservarono il mio Yukata* dalla foggia pregiata, in seta color porpora con intarsi dorati, che sul dorso andavano a formare l’immagine di un dragone rampate, e così anche l’Obi* che mi cingeva la vita e la magnifica katana che mi pendeva minacciosa sul fianco.
Dopotutto, erano abituate a capire al volo quanto gli sarebbe fruttato un servizio, osservando il modo di vestire dei loro clienti. E più uno era ben vestito, più, una volta tornate a casa, avrebbero avuto il reggipetto grondante di monete d’oro.
Mi guidarono, ancheggiando provocanti, verso una zona appartata, divisa dal resto del locale da un separé raffigurante scene decisamente spinte di sesso.
L’aria era densa e quasi soffocante, così bollente da creare un’atmosfera ovattata e fuori dal tempo, mentre il profumo d’incenso e candele profumate si spargeva per le stanze, da cui chiari suoni di risa, mugolii e gemiti confusi raggiungevano le orecchie dei clienti.
Mi accomodai, abbandonandomi soddisfatto su un letto di cuscini foderati in rosso e oro, e lasciandomi imboccare divertito da quelle bellezze che si diedero subito un gran d’affare per mettermi più a mio agio possibile, iniziando una lenta e pigra danza di forme e colori di fronte al mio sguardo languidamente interessato.
Sorridevo, cercando di penetrare in quel muro di sete e velluti che, ne ero ben consapevole, di lì a poco sarebbe finito a terra, abbandonato sul pavimento di legno, per lasciare spazio a ben più gradevoli panorami.
E ci sarei anche arrivato a quel punto, se improvvisamente una folata gelida non avesse interrotto i miei ben poco casti pensieri, mentre le porte del locale si aprivano di botto e passi pesanti percorrevano il corridoio, fino a penetrare nel mio non più personale angolo di piacere.  Alzai gli occhi al cielo, consapevole che, ormai, il divertimento era andato a farsi benedire.
Spostai lo sguardo a pochi passi da me, dove un molosso dai capelli raccolti in una (a mio parere molto effeminata) coda di cavallo mi osservava gelido.
Isao ed io eravamo amici da tempo, per la precisione, da quando scorazzavamo coi pannolini addosso per il Palazzo di Giada, facendo disperare le nostre matrone coi nostri capricci e le nostre marachelle.
Successivamente, lui si arruolò nella Guardia Reale, succedendo poi al padre come Generale della Settima Divisione, e io mi diedi invece alla pazza gioia tra i piaceri di corte. Quando tornò dall’Accademia Militare, le cose erano ormai totalmente cambiate.
Lui, devoto e fedele sostenitore del dovere e dell’onore, perenne compagno di mio padre in ogni singola riunione strategica nella guerra contro i demoni e rispettatissimo comandante dei suoi uomini. E io, che preferivo di gran lunga non sprecare la mia reale esistenza con tali e inutili perdite di tempo ed energie. Inutile dire come, puntualmente, il mio spasso finiva sempre con l’essere interrotto sul più bello, perché mio padre gli chiedeva di sequestrarmi e ricondurmi e corte anche con la forza se necessario.
Come quel giorno.
Gli occhi gelidi del mio in quel momento non molto carissimo amico mi osservavano critici, mentre concedeva una rapida e abbastanza disapprovata occhiata verso le mie dolci compagne, per poi tornare a soffermarsi su di me.
Incrociò le braccia, per poi dire, schietto e diretto: “Tuo padre ti vuole nella Sala del Trono. Subito. E questa volta sembra anche parecchio importante. Dice che è ora che tu ottenga il tuo Karisuma … cavolo Ryu … si può sapere che hai nel cervello?”
Sospirai, accarezzando annoiato la spalla morbida e perfetta di una delle fanciulle che, nel frattempo, si era accoccolata sul mio petto, ridacchiando divertita alla scena. “Ehi … cerca di calmarti. Guarda che sono passati solo sei mesi dal mio compleanno … ho tutto il tempo per entrare nel Consiglio dei Mille.”
Quello alzò un sopracciglio, per poi massaggiarsi le tempie, con aria visibilmente esasperata: “Lo sai che quando si raggiunge il 777° Anno di Vita arriva per noi il momento di entrare nell’età adulta. Tutti coloro che vivono qui sono impazienti di prendere il loro vero posto tra i Naga, sconfiggendo i 100 demoni e ottenendo finalmente quella forma di cui, a quanto pare, tu non vai affatto fiero. Santo cielo Ryu! Non avrai mica in mente di restartene in quelle spoglie da mortale per il resto dei tuoi giorni, spero! Sei l’Erede, devi prendere il tuo posto sul Fronte!”
Feci una smorfia, ripensando con rammarico a quella patetica situazione che, nonostante tutto, ci vedeva ancora a combattere con gli Oni in quella guerra senza fine. Poi sbuffai: “Senti … io sto bene qui, ok? Non mi interessa il Passaggio, non se questo significa essere spedito in quel buco di fogna che è il Fronte Occidentale, a sbattermi notte e giorno per una causa di cui, francamente, non me ne può fregare proprio una beata sega. Io me ne starò qui, con le mie puttane e i miei servitori, a spassarmela come ho sempre fatto … non sono disposto a buttare via la mia esistenza per dei perdenti che, tanto, alla fine muoiono comunque!”
Inarcò nuovamente un sopracciglio, per poi dire, schietto: “Come ti pare … ma che ti piaccia o no, ora l’Imperatore vuole parlarti. E scommetto che, nonostante tutto, nemmeno tu vuoi disobbedire a una sua convocazione, dico bene?”
Sospirai … in effetti, non aveva tutti i torti.
Anche se negli ultimi anni aveva quasi smesso di farmi chiamare, mio padre era sempre e comunque il re, e che mi piacesse o meno, se mi faceva convocare, dovevo andare, volente o nolente.
Sbuffai, alzandomi e spazzolandomi irritato le vesti, per poi fare un cenno frettoloso a una delle fanciulle: “Torno appena possibile … voi aspettatemi qui, chiaro?”, quindi, prima ancora di ascoltare una risposta, mi avviai tristemente verso il Palazzo di Giada, seguito a ruota da Isao.
 

Era impossibile non innamorarsi per Palazzo di Giada.
Che foste Naga o umani, uomini o donne, vecchi decrepiti o giovani aitanti, quel posto riusciva a conquistarvi l’anima.
E se sapeste quanto ne sia costata la costruzione, non vi sorprendereste nemmeno così tanto.
Comunque, sebbene in molti considererebbero indubbiamente folle l’idea che qualcuno possa cercare di descriverla a parole, temo di non potermi proprio esimere, a seguito di tale premessa, dal parlarvene. E poi, sapevo che stilare questo diario sarebbe stata un’impresa, quindi almeno mi sono preparato.
Allora, il Palazzo di Giada si innalzava sopra Shukai – Shi, costruito su una rupe che permetteva di abbracciare con un solo sguardo il magnifico panorama di ville nobili e perfettamente allineate sotto di esso, dai tetti dipinti in oro zecchino che gettavano su tutta la città quell’atmosfera semi eterea che tanto veniva elogiata nei racconti dei mortali.
Si trattava di un’imponente struttura, un palazzo in stile tipicamente orientaleggiante, difeso da una muraglia in muratura bianca come il latte e vigilata da due possenti dragoni in oro battuto che osservavano con il loro sguardo vigile il passaggio di coloro che desideravano superarli.
Una volta superato l’ingresso, vegliato notte e giorno da due Naga dalle accese sfumature verdi e dorate (di cui ovviamente mi dimenticavo sempre il nome, sebbene fossero anni che lavorano in quel posto), sul loro petto rettilineo spiccavano due gemme dorate, lucenti e grosse quanto un masso, segno che il loro Karisuma doveva essere indubbiamente potente per aver ottenuto un ruolo simile. Una volta superati, ci si trovava in un ampio cortile, il pavimento coperto da mattonelle in marmo, da cui un sentiero in terra battuta guidava dritti dritti verso l’edificio principale, in cui si trovava la Sala del Trono, quella del Consiglio e quella della Meditazione. Ai lati del sentiero, imponenti vasi in giada verde, pieni di … si, oro liquido, decoravano l’ingresso, accompagnati da innumerevoli vetrine in cristallo, contenti katane, kusarigama* e naginata* vecchie di secoli, talmente pregiate da essere praticamente impagabili.
Superato il cortile, vi era la struttura principale e, oltre a essa, tutte le residenze private, l’armeria e la scuderia, i templi e le terme. E fiore all’occhiello, i giardini. Cortili giapponesi con ruscelli d’acqua fresca a cristallina, ninfee dai mille colori e magnifici alberi di pesco e ciliegio, e poi ponticelli sospesi, tempietti e statue in oro zecchino.
Un paradiso.
E poi la Sala del Trono, o Stanza degli Specchi.
Incedetti tranquillo, non era la prima volta che vi entravo, quindi non prestai alcuna attenzione alle pareti coperte da specchi la cui superficie riflettente era interamente in oro, mentre colonne in giada verde smeraldo sorreggevano il soffitto intarsiato d’oro e il pavimento, in onice nera, conduceva direttamente al cosiddetto trono.
In realtà, quello in cui stava sempre mio padre non era proprio un trono nel senso stretto del termine. Dopotutto, è gran difficile trovarne uno in formato Drago. Quindi solitamente se ne stava arrotolato su sé stesso, comodamente e impassibilmente sistemato su un letto di cuscini dall’aria pregiata.
Non era un caso che Tianlong fosse l’Imperatore Drago. Nessuno, e sottolineo nessuno, possedeva un Karisuma come il suo.
Meglio però dare una spiegazione, il Karisuma, o Carisma, è TUTTO, per un Naga. Non denota solo il suo potere, la sua forza e la sua resistenza, ma rappresenta anche la sua capacità di comando, quella virtù unica e insostituibile che ti permette di spiccare sulle masse, incutendo timore e rispetto e spingendo le persone a sacrificare ogni cosa per te.
Tuttavia, ottenerlo non è semplice. E io lo avrei imparato presto.
Quando mi fermai di fronte a lui, mi morsi appena il labbro. Anche se mi ero sempre mostrato strafottente verso tutti gli altri, con lui era diverso … non era esattamente il tipo d’individuo con cui ci si potesse permettere di alzare la voce, e sebbene fossi il suo erede, non facevo eccezione.
Mi fermai, attendendo un suo cenno, mentre uno dei due occhi rettilinei, rimasti fino ad allora socchiusi a dormicchiare pigramente, si apriva, posando le sue pagliuzze color dell’oro su di me. Le squame color rubino risplendettero, riflettendo la luce naturale delle fiaccole e delle candele presenti nel luogo, per poi spandersi sulle pareti dorate e da lì in tutta la sala. La criniera, dorata, come quella di tutti i membri della stirpe reale, brillava come di luce propria, mentre i lunghi baffi volteggiavano nell’aria e una gemma color tramonto splendeva sul suo petto, in tutto il suo unico e reale fulgore. Il suo Karisuma.
Lentamente, come tendeva sempre a fare, d’altronde, si mosse, abbandonando la posizione accoccolata per osservarmi negli occhi, in silenzio.
Mi schiarii la voce, nervoso. Quell’attesa mi stava decisamente dando alla testa … se doveva dirmi qualcosa, che lo facesse in fretta, altrimenti avrei potuto implodere dall’ansia. Sul serio.
Un sospiro, e da lì capii, prima ancora che potesse esordire con: “Ryujin … pensavo che, ormai, avessi iniziato a fare i preparativi per il viaggio.”, disse, osservandomi, questa volta, con un pelo di rassegnazione sul muso rettilineo. Mi morsi il labbro, visibilmente frustrato, quindi dissi, in tutta risposta: “Padre … sono passati solo sei mesi da …”
“SENTI UN PO’, TI CHIEDI MAI COSA CI FAI QUI?!?”, sbottò, di scatto.
Indietreggiai, di riflesso, guardandomi teso alle spalle, dove, fuori dal portone, probabilmente le guardie si stavano godendo il nostro spettacolino con delle battutine idiote sulla mia discutibile condotta come principe.
Parve calmarsi, sospirando allora con aria stanca, e spostando lo sguardo verso la sala, con aria assorta, prima di proseguire: “Sto morendo, Ryujin.”, mi bloccai, di scatto, osservando basito quello che era sempre stato a tutti gli effetti, per me e per tutto il Regno Celeste, l’essenza stessa del potere. Insomma, era Tianlong, il leggendario Dragone Immortale, Imperatore di Mille Regni e Sterminatore di Piaghe … nessuno era come lui, nessuno poteva nemmeno SOGNARSI di eguagliarlo. Quindi, come sarebbe a dire che stava morendo? Era del tutto inaudito, inconcepibile, una realtà così assurda che non potei non rimanerne sconcertato. “E non so più cosa fare, Ryujin. Mi serve un erede, qualcuno che guidi questo popolo quando non ci sarò più … ma tu continui con le tue condotte assurde, coi tuoi passatempi del tutto privi di responsabilità e coi tuoi atteggiamenti incuranti di tutto e di tutti.
Ormai, non può più andare avanti così. Che ti piaccia o meno, il tuo tempo è ormai giunto. Domani partirai, per ottenere il tuo Karisuma, come avresti dovuto fare già da tempo ormai, e allora potrai finalmente entrare a far parte del nostro mondo a tutti gli effetti e prendere sulle tue spalle il destino che ti è stato donato.”, disse, osservandomi in silenzio.
Sospirai, scuotendo il capo, del tutto incredulo: “E’ assurdo.”, dissi, ancora incapace di credere a quelle sue ultime parole, “Mi state dicendo che state per morire? È impossibile, voi … voi … sapete bene che non potrò mai essere un vostro degno successore. E non potete lasciarci così.”
Quello sorrise.
Ora che ci penso, da quando mia madre era morta, non l’avevo mai più rivisto mostrarsi così divertito. Solitamente, era impossibile vederlo sorridere in quel modo, così spontaneo e sincero. Quindi ne rimasi alquanto sorpreso.
“Ryujin …”, era la prima volta che pronunciava il mio nome in quel modo, e confesso che, in quell’istante, sentii una stretta gelida afferrarmi il cuore, “… anche se siamo Naga, non viviamo in eterno. Anche noi giungiamo alla fine del nostro ciclo vitale, quando il nostro Potere si indebolisce, e il Carisma viene meno … anche tu te ne sei accorto, no? Non sono più quello di un tempo, e un Imperatore che non ha un Karisuma in grado di guidare il proprio popolo non serve a nessuno. Per ora, ciò non è stato notato, ma è solo questione di tempo, la mia ora è vicina ed è necessario che il mio trono passi a qualcuno col mio stesso sangue.
Anche se molti potrebbero non essere d’accordo, tu sei il mio erede. E non solo di sangue, quando avrai ottenuto il tuo Carisma, sono sicuro che ti dimostrerai un sovrano persino migliore di quanto io non sia mai stato. Per farlo, però, devi intraprendere il Passaggio.”
Abbassai gli occhi, poi, sorprendendo persino me stesso, a dire il vero, dissi, semplicemente: “Faccio preparare il necessario.”
 

Tra tutte le varie, e a dir poco numerose, cose che mi facevano andare il sangue al cervello della vita di corte, ve ne era una, tra tutte, che mi dava sempre e immancabilmente sui nervi.
Portava due magnifiche fiaccole color acquamarina, segno di una maledizione che, tra gli esseri umani, l’aveva condannata sin dalla nascita a essere abbandonata nei boschi lontani dai villaggi. Due fiaccole simili agli occhi di una cerbiatta che, con quella chioma corvina e la carnagione di perla, avrebbero fatto volentieri capitolare qualsiasi altro esemplare sessualmente attivo di maschio etero nel giro di migliaia di chilometri. Magra come uno stuzzicadenti e piatta come una tavola, il suo nome era Hitomi … un nome dovuto a quegli stessi occhi che l’avevano quasi uccisa. Un nome che, personalmente, non avrei mai avuto il pessimo umorismo di scegliere, considerato che, tra gli umani, gli occhi acquamarina sono un biglietto di sola andata per l’obitorio, visto quanto gli Oni sembrano esserne attratti.
Comunque, la piccoletta di cui vi sto parlando era la mia ancella. Hitomi.
Sempre tra i piedi, anche quando non serviva, e sempre in ritardo, quando invece serviva. Non riusciva a starsene zitta un istante, e pareva fermamente convinta che, prima o poi, avrei finito col farmi ammazzare, vuoi durante una delle mie battute di caccia, vuoi durante una delle mie festicciole, vuoi per un altro motivo.
Persa come solo lei sapeva essere, era una continua minaccia per sé stessa e per gli altri. Aveva lo straordinario talento di inciampare sempre anche dove non c’era nulla, di perdersi anche quando doveva andare al bagno e di dimenticarsi spesso e volentieri persino il suo stesso compleanno. Insomma, era un pericolo pubblico mascherato da cerbiatta.
Eppure, quando tre giorni dopo me la trovai, con i bagagli già pronti, di fronte alle mie stanze, non potei non rimanerne tacitamente ammirato.
Guardai cinico il complesso assortimento di bisacce, pellicce e vivande che aveva radunato, in perfetto ordine e pronti per il viaggio, a fianco del mezzo che ci avrebbe condotti alle Porte del Naraka, ossia un magnifico, ma forse un pelo pacchiano, tappeto arabo.
Alzai un sopracciglio, fissando divertito la scena, prima di dire, in tronco: “Non se ne parla nemmeno. Tu stai qui, ho già dato disposizione di far convocare un’Eletta dal Tempio. Tornatene alle tue faccende.”
Quella alzò il capo, inaspettatamente tutt’altro che remissiva, come di solito era di fronte alle mie parole.
“Non se ne parla nemmeno. Io sono la vostra ancella, non potete sostituirmi con un’estranea, solo io posso guidarvi nel Naraka e non permetterò che un’altra ragazza, che nemmeno vi conosce o sa quali siano le vostre necessità, prenda il mio posto.”, mi osservò, decisa, “Sono nata per questo compito. Ho conservato la mia innocenza appositamente per potervi accompagnare nel vostro viaggio. Sono preparata, e so cosa mi attende. Non dovete preoccuparvi per me.”
Sbuffai, più infastidito che altro.
Poi le feci cenno di seguirmi, issandola senza mezze misure sul tappeto che, diligente, ci attendeva a pochi centimetri da terra, in attesa del decollo.
Fu in quell’istante, che sentii una leggera brezza colpirmi il capo.
Sorrisi, chiudendo appena gli occhi, prima di voltarmi nuovamente verso il cortile, dove sapevo già ciò che avrei visto.
Il drago color dello smeraldo sorrise, gentile, mentre in un soffio di vento primaverile atterrava debitamente sul terreno soffice del porticato, osservandomi divertito.
Shenlong era, sotto ogni aspetto, totalmente differente dal fratello. Diversamente da mio padre, le sue forme erano ben più armoniose e scattanti, prive della superba possanza del fratello, ma non per questo meno impressionanti. Le squame, verdi come le foglie novelle a primavera, brillavano smeraldine sotto i raggi caldi e avvolgenti del sole, mentre la criniera dorata gli volteggiava silenziosa attorno al collo possente, e imponenti corna color onice, impreziosite da una notevole collezione di anelli dorati, gli decoravano il capo, completando il quadro.
Osservò silenzioso, per un istante, Hitomi, prima di esordire, sereno come sempre: “Ebbene … anche tu hai deciso di partire, vedo.”
Sorrisi, come sempre di fronte a lui.
Dopotutto, diversamente che con gli altri membri della Corte Imperiale, con mio zio ero sempre riuscito ad avere un rapporto insolitamente stretto. Forse perché, sebbene celatamente, anche lui mal sopportava quella vita da schiavi che la guerra con gli Oni ci costringeva a seguire, come si poteva facilmente dedurre dagli innumerevoli viaggi che, puntualmente, gli permettevano di allontanarsi da quell’ambiente tutt’altro che piacevole. Almeno, però, lui poteva farlo.
Nessuno si sarebbe azzardato a dirgli niente.
Dopotutto, era il fratello del re, e la sua tendenza ad assentarsi, anche per lunghi periodi, da Shukai – Shi era tutt’altro che ignota.
Forse, era proprio grazie a questa tacita e comune insofferenza a quel mondo che, tra me a lui, c’era sempre stato quel legame silenzioso che solo noi due parevamo essere in grado di comprendere.
“Già … a quanto pare, il mio ritardo è stato notato. Mio padre ha detto che dovrò partire antro il finesettimana, e … beh, non potevo certo dirgli che avrei ben di meglio da fare, no?”, dissi, sornione. Quello sorrise, divertito, mentre una scintilla ironica gli attraversava lo sguardo: “Hai perfettamente ragione … in tal caso, è meglio che ti sbrighi. Non vorrai certo deludere le aspettative nella nobiltà, vero?”
Scossi il capo, divertito, prima di issarmi, quasi come nulla fosse, Hitomi sulla spalla.
La sentii sussultare, sorpresa, mentre la depositavo sul tappeto e, con un ultimo cenno di saluto, decollavamo verso l’inizio del nostro viaggio.
Osservai in silenzio le squame smeraldine di lui farsi sempre più fioche, fino a quando, lentamente, non scomparvero in lontananza.
 

Sorvolare l’immensità di Ayumu era forse la sola cosa che avrebbe potuto spingermi a cercare di ottenere il mio Karisuma.
Insomma, non c’era assolutamente nulla di anche solo remotamente paragonabile alla sensazione dell’aria tersa sul volto, alle nuvole che ti sfioravano il viso e agli stormi di rondini che ti superavano in volo. E poi i paesaggi.
Perché, nonostante la cultura ancora regredita delle popolazioni mortali che la popolavano, Ayumu era una terra dai panorami impagabili. Distese di pinete color smeraldo, che si estendevano per miglia a miglia sotto di noi, praterie dall’erba gialla e secca, che brillava sotto il sole nelle giornate d’estate, vette ammantate di bianco latte, che si ergevano come a sfidare il cielo stesso.
Spettacoli che, sebbene non potessero certo cambiare il mio disprezzo verso le genti che lo abitavano, non potevano lasciarmi del tutto indifferente.
Le Porte del Naraka, la Dimensione degli Oni, si trovavano presso la zona più oscura di Ayumu … era regione conosciuta col nome di Terra della Notte, in cui le ore di luce si riducevano a si e no alcuni sparuti momenti tra mezzogiorno e pomeriggio.
Il resto del tempo, la regione era ammantata da una notte eterna, ma non per questo sgradevole.
Le piante notturne, dai vivaci colori fosforescenti, permettevano ai viandanti di orientarsi facilmente per quelle aree boscose, mentre i fuochi fatui e le lucciole formavano sentieri luminosi che impedivano a chicchessia di perdersi.
Incuneata tra i monti, in una piccola e modesta valle, la Terra della Notte era composta da un solo centro abitato, Kuraidesu.
Un posticino modesto, composto da niente di più e niente di meno che una cinquantina di catapecchie in legno ordinatamente disposte a cerchio attorno a una piazzetta altrettanto modesta, composta da pozzo, qualche taverna e un mercatino per il finesettimana.
Poco fuori da villaggio, la Capanna del Guardiano.
Il Naraka, infatti, è una dimensione completamente a parte. Raggiungerla, senza qualcuno ad aprire il portale, è pressoché impossibile … anche se, secondo alcuni, potrebbero esistere dei Naga dal Carisma così potente da creare Varchi artificiali per andare a venire a piacimento dalla Dimensione Demoniaca … tuttavia erano solo congetture.
Noi avremmo dovuto affidarci al Guardiano, per quanto, purtroppo, quell’idea non mi andasse particolarmente a genio.
 

“Ryujin.”, una parola, semplice, sintetica …
Peccato che a pronunciarla, con quell’aria ebetamente sorpresa, fosse stato proprio lui.
Era esattamente come lo ricordavo. Occhi blu lapislazzuli, lucenti come la notte più serena e il sonno più consolatorio. I capelli, ora raggelantemente TINTI DI NERO, gli cadevano sui fianchi come una cascata d’inchiostro, mentre la carnagione forse un po’ troppo poco virilmente delicata dava risalto alle sopracciglia arcuate e dal taglio nobile. Il fisico era magro, totalmente privo di quell’aura forte e decisa che avrebbe dovuto contraddistinguerlo … in quanto mio antico mentore, in quanto mio fratello ma, soprattutto, in quanto EX EREDE AL TRONO.
Makoto sorrideva, solare, avvolto in quel patetico saio da sacerdote mortale, e al suo fianco Lei.
Osservai critico quello scricciolo di femmina umana. Cercando di capire che diamine dovesse averci trovato quell’imbecille per innamorarsene, finendo di conseguenza per perdere tutto ciò che era e aveva … e si che, tra i Naga, non era proprio un gran segreto cosa succedeva a quegli idioti che finivano con l’innamorarsi dei mortali.
Eppure lui ci era cascato.
Con ambo i piedi, in una notte di mezz’estate.
Lo scemo aveva appena conseguito il proprio Karisuma, stabilendo un vero e proprio record nello sterminare i 100 demoni necessari per ottenerlo e conquistando senza nemmeno troppa fatica il proprio posto nel Consiglio dei Mille (che poi mille non erano nemmeno, visto che il numero di Naga adulti a quel tempo superava quella cifra, e di parecchio … ma visto che suonava bene veniva chiamato così, valli a capire).
Preso il proprio posto al Fronte Occidentale, nemmeno un mese dopo era riuscito a conseguire l’encomiabile numero di qualcosa come non so bene quante vittorie (non ci ho mai creduto che fossero davvero 100, non da un cretino che poi si fa mettere nel sacco da una mortale niente tette e tutto cervello).
Stava tornando a Shukai – Shi, quando si imbatté in un villaggio di confine, distrutto da una grave pestilenza. Ora … è vero, noi Naga viviamo per migliaia di anni. La nostra corazza è praticamente impenetrabile e le nostre capacità rigenerative così assurde da rasentare il divino … ma non siamo immuni alle malattie, o almeno non a quelle più letali. E questo doveva saperlo, mio fratello.
Quindi qual’era la cosa più naturale da fare?
Ovvio! Gettarsi in quella discarica di cadaveri e cercare di farsi ammazzare.
Come se non bastasse la guerra con gli Oni a decimarci, ora si metteva pure a fare l’eroe.
Comunque … fatto sta che lì conobbe lei, Aiko. Come ho detto sopra, non riuscivo proprio a comprendere cosa con esattezza avrebbe potuto spingerlo a tanto … insomma, era totalmente priva di curve, magra e striminzita da far paura, e ciliegina sulla torta, nemmeno così bella. Non con quel naso totalmente sproporzionato col resto del viso, o con quei denti assurdamente grandi, o ancora con quei capelli perennemente in disordine.
Certo, alcuni avrebbero potuto dire che, tutto sommato, non era così male. Gli occhi erano due onici lucenti e pieni di gentilezza, la carnagione quasi perfetta e il sorriso in grado di sciogliere gli animi. Ma da qui a rinunciare a TUTTO per lei … beh, ce ne voleva.
Anche perché, se quello scemo di Makoto non si fosse andato a invischiare in un guaio simile, in quel momento non avrei dovuto sbattermi tanto per tenere alte le aspettative di mezza corte imperiale. A quel tempo era lui il primogenito … se non avesse mollato tutto, nessuno mi sarebbe mai venuto a scassare i cosiddetti per farmi ottenere il mio Karisuma e un posto tra i Mille.
Invece no … doveva proprio rovinarmi la festa.
Perché non bastavano tutti i paragoni che, alle mie spalle e credendo che non potessi udirli, i membri della nobiltà facevano tra noi due.
Perché lui era perfetto.
Carismatico e deciso, intelligente e pieno d’iniziativa. Era gentile con tutto e con tutti, rispettoso della patria e del nostro “sacro” compito, solare, socievole e simpatico. Non si poteva proprio non esserne attirati.
Invece io ero … beh, ero io, no? Potete immaginare i salti di gioia che fecero quando si venne a sapere che avrei preso il suo posto come Erede al Trono.
Comunque … dove ero rimasto?
Ah, si … l’incontro con mio fratello.
Che dire.
Era sempre lo stesso.
Certo, forse aveva perso completamente l’aspetto di un tempo, abbandonando la forma di Naga per quella umana, ma gli occhi, il sorriso e i modi non erano minimamente cambiati.
Osservai critico la catapecchia alle sue spalle: nulla di più e nulla di meno che un rudere in legno di quercia, dall’aria a dir poco vissuta e vecchia. Un solo piano per un totale di quelle che, dedussi, potevano essere al massimo un paio di stanze, era fornito di un piccolo orticello di lato, così pieno di erbacce da apparire quasi in disuso, se non fosse per gli attrezzi da coltura che s’intravvedevano sul lato. Un pollaio decadente e un piccolo porcile apparentemente vuoto e dall’odore a dir poco nauseabondo completavano poi l’allegro quadretto.
Sorrisi, divertito, per poi tornare a fissarlo.
“Vedo che ti sei sistemato bene, fratellone … anche se, lo confesso, non mi aspettavo di vederti ancora in circolazione.”, esordii, mentre gli occhi di lui si oscuravano.
Lui rispose, serio: “Sai bene che non potrei mai abbandonare il compito che mi è stato affidato, Ryujin. E anche se non ho dubbi sul fatto che avresti di gran lunga preferito trovare un altro al posto mio, ti chiederei di mettere almeno per ora da parte il tuo disprezzo. Sempre se desideri accedere al Naraka, ovviamente.”
Alzai un sopracciglio, e avrei anche voluto ribattere a dovere, se un tonfo sordo non mi avesse interrotto sul più bello.
Mi voltai, fissando esasperato, ma non troppo sorpreso, la mia ancella.
Evidentemente, Hitomi aveva cercato di scaricare da sola tutta la mole di bisacce prese con noi per il viaggio, inceppando come sempre nei suoi stessi piedi per poi cadere a terra con la faccia nella sabbia.
Si rialzò, sorridendo come se nulla fosse, e volgendo ora lo sguardo su Makoto. Vidi i suoi occhi illuminarsi, sorpresi, mentre mi superava e gli si avvicinava baldanzosa, abbracciandolo solare: “Maki! È passato così tanto tempo … temevamo che non ti avremmo più rivisto. Come va con la famiglia? Mi hanno detto che ti sei sposato. A quando i bebè?”
Alzai un sopracciglio, a quel NOI sottinteso, quindi la presi per il kimono, riportandola senza mezze cerimonie al mio fianco per poi dire, falsamente gentile: “Si … ci farebbe veramente MOLTO piacere rimanere qui a discutere di come mio fratello ha gettato via la propria esistenza. Però abbiamo degli affari importanti da sbrigare, ricordi?”, feci, stizzito. Lei mi fissò, lievemente sorpresa, per poi schiarirsi nervosamente la voce e borbottare, indecisa: “Ehm … a-allora … i-io vado a prendere i bagagli!”, e si dileguò alle mie spalle.
Tornai a fissare serio Makoto, che per tutto il tempo aveva osservato la scena in silenzio.
Quindi dissi, spiccio: “Se puoi condurci subito il portale, vorrei liberarmi di questa faccenda il prima possibile.”, feci, impaziente di tornarmene, bello tranquillo, alla mia dimora presso Shukai- Shi.
Quello alzò il capo, guardandomi impassibile, prima di dire: “Sarà lei a guidarti?”, chiese, come se quell’idea non gli piacesse proprio per niente.
Sbuffai, ribattendo: “Si … e non fissarmi in quel modo. Fosse stato per me, mi sarei preso su un’altra Eletta senza tanti problemi … magari una in grado di farmi passare il tempo come si deve, durante il viaggio. Ma Hitomi ha insistito perché fosse lei a guidarmi nella Discesa, quindi alla fine me la sono dovuta portare dietro.”
Makoto osservò silenzioso la ragazza, che nel frattempo, soccorsa prontamente dalla sua compagna, aveva iniziato a scaricare diligentemente le bisacce dal tappeto.
Sospirò, osservandomi un’ultima volta, un’espressione indecifrabile in viso.
Solo dopo avrei capito come, già allora, lui avesse compreso perfettamente il motivo che aveva spinto la mia ancella a rischiare tanto per me.
 

Sebbene controvoglia, alla fine quella sera fummo costretti ad alloggiare presso la dimora di mio fratello.
Il Portale si trovava presso una vecchia rupe, accessibile solo passando attraverso un sentiero di fianco a quella casupola (???). Si trattava di un percorso parecchio infido a tortuoso, quasi invisibile a chi non sapesse esattamente dove guardare e così intaccato dagli anni da essere interamente coperto di erbacce e muschi. Si districava lungo la Gake no Sasayaki, o Rupe dei Sussurri, così chiamata a causa del rumore che il vento faceva la notte quando incontrava le fronde degli alberi sopra di essa. Comunque, era un percorso parecchio lungo e non poco pericoloso, visto che in più punti pareva quasi sporgersi a precipizio nel nulla, stringendosi fino a rendere la scalata difficile anche per gli avventori più tenaci.
Approcciarlo quel giorno, nel mezzo della tempesta che ci aveva sorpresi poco dopo il nostro arrivo, sarebbe stato un vero suicidio.
Ok, forse non per me, in quanto Naga ma … dubitavo seriamente che qualcuno che, come Hitomi, faticava a mantenersi stabile su una superficie liscia e retta avrebbe avuto vita facile con un percorso simile. Probabilmente, ci avrebbe rimesso le penne prima ancora di iniziare.
Quindi dovemmo fermarci alla vecchia catapecchia, con mio notevole e giustificatissimo disgusto.
Aiko si affrettò subito a farci consegnare i nostri vestiti, ormai sporchi per quel viaggio aereo che, comunque, tra una pausa e l’altra ci aveva preso quasi quattro giorni, e sistemarli al meglio. E per l’occasione, lei e Makoto decisero di fare un’eccezione a quella vita forse non molto tale che seguivano sempre, preparando per noi quello che forse loro ritenevano un banchetto e un lauto pasto, ma che a me parve più una merenda alquanto grezza che altro.
Tirarono fuori i formaggi e la carne secca che solitamente conservavano per l’inverno, preparano quello che definirono uno “stufato di verdure”, anche se mi parve più simile ad acqua calda, e infine ci offrirono anche del sakè vecchio, dal sapore a dir poco stantio e amaro. Comunque, Hitomi parve apprezzare molto quell’accoglienza, e io ero troppo concentrato a pensare alla missione che mi attendeva per spiccare parola e rovinare la loro allegra discussione. Quindi alla fine non dissi nulla. Anzi … consumai il mio pasto in silenzio, tra gli sguardi tesi di Aiko e quelli rassegnati di Makoto, per poi ritirarmi a dormire.
Fortunatamente, i due sposini si erano subito offerti di lasciarci la loro stanza da letto, mentre loro avrebbero dormito in salotto, per cui, almeno, potei dire di aver alloggiato in un posto, seppur vagamente, decente. Per quanto spifferi di vento, odore di chiuso, un letto duro come il marmo e l’odore dei polli di fuori non contribuissero esattamente al mio sonno.
Comunque, anche ne avessi avuto l’occasione, dubito che sarei riuscito a dormire.
Anche se avevo passato quegli ultimi 10 anni a biasimare e disprezzare mio fratello, l’averlo rivisto mi aveva scosso non poco, sebbene ovviamente non lo avrei ammesso nemmeno sotto tortura.
Per me, lui aveva sempre rappresentato tutto ciò che non avrei mai potuto essere. E il fatto che, nonostante il mio non molto celato rancore fosse chiaramente percepibile, lui si fosse dimostrato comunque gentile e solidale non poteva certo lasciarmi indifferente. Dubitavo seriamente che, al posto suo, avrei saputo essere altrettanto comprensivo.
Quindi, passai la maggior parte della notte e fissare il soffitto, le braccia incrociate dietro il capo e la mente persa nei ricordi.
Solo quando fu quasi l’alba sentii una mano delicata sfiorarmi il viso.
Mi voltai, in silenzio, incontrando gli occhi color acquamarina di Hitomi, che mi fissavano assonnati ma seri: “Sapete … non dovete per forza fingere che non vi manchi. È vostro fratello, e siete rimasti separati per moltissimo tempo … non c’è nulla di male nell’esservi ancora legato e sono sicura che se gliene parlaste potreste sicuramente riconciliarvi.”
La osservai, interdetto.
A volte, mi chiedevo come facesse, a capire sempre cosa mi passava per la testa.
Certo, eravamo cresciuti praticamente assieme, visto e considerato che, come la maggior parte dei mortali che risiedevano stabilmente a Shukai – Shi, le era stata concessa una durata vitale maggiore, anche se non estesa quanto quella di noi Naga. Però, nonostante l’apparente ottusità che dimostrava in certi momenti, quando si trattava di me pareva essere sempre in grado di capire cosa pensassi. Anche quando io stesso non ci arrivavo, o facevo di tutto per nasconderlo.
Spesso, era stato proprio grazie a questa sua caratteristica, se avevo ricevuto supporto nei momenti più complicati. Era lei a capire se qualcosa non andava, a chiedere aiuto laddove io non mi sarei mai abbassato a tanto, a far si che tutto andasse per il meglio anche quando, di meglio, non vi era poi molto su cui contare. A volte, le ero grato per questa sua dote … altre avrei decisamente preferito che si facesse gli affari suoi.
Odiavo mostrarmi debole di fronte agli altri, specialmente verso coloro che conoscevo.
Quindi mi voltai, turbato, rispondendo, schietto: “Io non fingo proprio niente. Quello scemo ha gettato via tutta la propria vita per quest’esistenza nel fango, non ho più niente a che vedere con lui. Non è più mio fratello.”, dissi, tetro.
Solo un sospiro rispose alle mie parole.
Pochi minuti dopo, Hitomi dormiva beata al mio fianco.
Eppure, quelle parole continuavano a rimbombarmi nella mente.
 

Partimmo una settimana dopo.
Dopotutto, era la stagione delle piogge, temporali come quello appena trascorso erano all’ordine del giorno e, spesso, potevano trascorrere settimane prima che la furia dei venti si placasse e fosse nuovamente possibile uscire di casa.
Ci alzammo all’alba, le bisacce e i viveri in spalla, e fu salutando silenziosamente la compagna di mio fratello che io, lui e Hitomi ci dirigemmo decisi verso la cima di Gake no Sasayaki.
Solitamente, io e Makoto ci avremmo messo poco più di un’ora a raggiungere la nostra destinazione. Tuttavia, con noi c’era anche Hitomi, che continuava a inciampare ovunque e più di una volta rischiò quasi di finire sotto il precipizio. Fortunatamente per lei, era così magrolina che non faticavo affatto a prenderla in tempo, per poi piazzarmela accanto e riprendere il tragitto con lei vicino.
In quelle occasioni, lei arrossiva sempre, imbarazzata, per poi mormorare un paio di scuse e riprendere la marcia.
E parlare.
Non so cosa avesse esattamente in testa, ma di fronte al silenzio ostinato mio e alla pacatezza tranquilla di lui, evidentemente si era convinta che, continuando a ciarlare di questo o quest’altro, sarebbe riuscita in qualche modo a farci riconciliare prima della nostra definitiva partenza. Non che servisse a molto … io ero troppo assorto nei miei pensieri anche solo per seguire il filo del suo discorso, mentre mio fratello era sempre parecchi passi più avanti, a osservare attento il terreno per non perdere di vista il sentiero e adempiere al suo ruolo di guida.
Giungemmo al Portale verso mezzogiorno.
“Bene … allora, vi aprirò il passaggio per il Naraka. Quando sarà fatto, dovrete solo seguire il sentiero che porta all’entroterra, e vi troverete sulla riva del Namida no Kawa … da li potrete accedere alla Shirosa Baku e raggiungere la Città delle Ossa. Il tragitto vi prenderà almeno qualche mese ma, oltre alla capitale del regno, quello è il solo posto dove si radunano i demoni e potrete certamente trovarne un numero sufficiente a compiere la vostra missione.”, si fermò, osservandoci serio, prima di osservare quindi in silenzio il Portale.
Essenzialmente, si trattava di un semplice arco a sesto acuto aperto sul nulla. Oltre a esso, la rupe si gettava nel vuoto della notte e il vento fischiava forte tra le fronde della pineta alle nostre spalle. Era una struttura in pietra scura, simile all’onice, crepata dagli anni e coperta da fitti tralci di rampicanti. Sotto di essi, si potevano intravvedere appena dei geroglifici scolpiti nella pietra, ma erano troppo usurati per poter essere compresi. Ai lati, due torce dalle fiamme bluette, che illuminavano silenziose il luogo, donando all’atmosfera un non so che di surreale e insolito.
Feci un profondo sospiro, guardando deciso Hitomi, che annuì, al mio fianco.
“Perfetto … vi suggerirei di indietreggiare un istante.”, disse Makoto, prima di sfiorare lievemente la superficie della porta.
Parole arcane e ignote gli uscirono di bocca, sussurri così lievi da apparire quasi incomprensibili, mentre un leggero vento si alzava attorno a noi e il Portale pareva quasi fremere, reagendo a quell’antico richiamo. Un istante dopo, il varco che prima si gettava nel vuoto fu riempito da un tunnel di tenebre scure e informi, da cui proveniva un vago odore di stantio e chiuso.
Lo guardammo, mentre, visibilmente spossato e col volto madido di sudore, mio fratello si faceva da parte.
La mano di Hitomi sfiorò la mia, afferrandola tremante.
La guardai, inespressivo.
Poi, ci inoltrammo nell’oblio senza fine.




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