Un nuovo inizio

di Bebeta1990
(/viewuser.php?uid=1026687)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Durante i mesi estivi, intenta com’ero nello studio e sopraffatta dalla calura, mutavo leggermente le mie abitudini e solevo rileggere i miei appunti stando seduta su una poltrona sul mio balcone che, fatalità, sovrastava a destra quello di un signore da poco trasferitosi nel nostro condominio.
Mr Hoppy era seduto nell’angolo destro del suo giardino fiorito. Il suo sguardo si perdeva nel paesaggio senza meta, ricordava come quel particolare momento della giornata – il tramonto – affascinasse sempre sua moglie. La dolce Signora Silver, incantevole nei suoi variopinti vestitini fiorati, era morta da quasi due anni. Mr Hoppy adorava il suo modo di sorridere, il suo modo gioioso di essere al mondo, l’adolescenziale entusiasmo  delle buffe orecchie di coniglietto che usava indossare in Inghilterra. Ora, com’era stato prima del loro acerbo amore, gli pareva di galleggiare sospeso in una quotidianità amorfa. Solo il giardino, suo primo diletto, continuava ad esprimere tutta l’allegra opulenza di una foresta pluviale o di boschi fiabeschi: c’erano Lillà, Campanule, Margherite, Giacinti e Rose accuratamente invasate in vecchi barattoli di vernici e poste a guardia del perimetro dell’angusto balcone, sovrastato da profumatissime viti e glicini.
Mr Hoppy trascorreva molto tempo in mezzo alle piante, curandole ed innaffiandole con estrema perizia. Aveva il profumo del borotalco, di vestiti impregnati di lavanda e il passo lento e un poco strascicato di un bradipo, gli occhi intensamente verdi scintillavano come stelle ascoltando i brani di Luis Armstrong. Lo scorgevo spesso chino sui vasi, disteso sulla sedia sdraio a riposare nel quieto rumore d’onde del respiro. 
Quando, raramente, lo incontravo nel portone non potevo reprimere un moto di istintiva tenerezza per lui, il suo moto rapido di chinare schivo lo sguardo al mio discreto – e impaciato – saluto. Sgualcito, perennemente vestito di marrone (il lungo impermeabile, il gilet consunto, le scarpe scamosciate cosparse di polvere), sembrava essere l’incarnazione della semplicità priva di lusinghe che tanto cercavo nella mia vita: non c’erano sorrisi ostentati, non v’era frivola ed edonistica cura di sé in lui, il suo mistero si esauriva in quanto vedevi. La timidezza dei suoi modi era commovente e rara.
Un giorno arrancavo con le buste colme di articoli acquistati nel supermercato, e quando lui mi venne incontro per soccorrermi io posai temporaneamente il fardello chiuso nella mano destra sul pavimento, e gli sfiorai la mano poggiata sullo stipite del portone. Fu un contatto fuggevole, nemmeno delicato, eppure casualmente incrociai il suo sguardo e vi colsi un frammento di inusitata dolcezza. Timorosa che dal mio contegno potesse trasparire un’affezione immotivata, ritrassi le dita celermente che si chiusero strette attorno ai manici delle mie buste. “Che stupida!” mi rimproverai seccamente, una volta salutatolo con frettolosa evasività.




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3681207