Il
letto sotto cui era steso era soffice eppure ruvido, nulla a che
vedere con la morbidezza e comodità di quello che era stato
il suo
letto per quasi sette anni ad Hogwarts. Si mosse e si
rigirò,
inquieto, cercando di darsi pace e tregua, ma senza riuscirci,
così
rimase semplicemente fermo tra le lenzuola sfatte, stanco anche senza
aver fatto nulla da quella mattina e sudato anche se era ormai il
tramonto e non faceva poi così caldo. La stanza era
illuminata
d'arancione e dalla finestra aperta entrava un venticello fresco, ma
tutto ciò non bastava a fargli trovare anche solo la voglia
di
alzarsi, uscire dalla porta e tornare a vivere.
Alzò
una mano verso il soffitto, osservando con attenzione come le dita si
stringevano intorno al legno della bacchetta, come se fosse la cosa
più normale del mondo, come se non servissero a fare
nient'altro.
Peccato solo che, adesso, quella bacchetta – la bacchetta di
Draco
Malfoy, quella che aveva ucciso Voldemort, quella che gli aveva
portato via la sua magia – era del tutto inutile tra le sue
mani.
«C'era
da aspettarsi che sarebbe finita così.» disse, a
nulla e a nessuno
in particolare. Era da solo, in quella camera. Aveva fatto chiudere
le barriere di Grimmauld Place a Kreacher prima che Ron o Hermione
sarebbero potuti arrivare e cercare di farlo uscire, magari
facendogli pure una lavata di capo. Per cosa, poi? Non aveva molta
voglia di andare fuori, vedere tutti loro come usavano la magia anche
solo per scaldarsi il tea nella tazza, mentre lui sarebbe rimasto a
guardarli, invidioso, peggio di un Magonò. E non aveva la
forza di
sopportare il Mondo Magico adesso, come tutti si sarebbero prostrati
ai suoi piedi ringraziandolo dell'enorme sacrificio che aveva fatto,
come i giornalisti avrebbero continuato a fare domande su domande
sulla sua vita e di come l'avrebbe vissuta da quel giorno in poi.
Grimmauld Place, nonostante le sue stanze tetre e le teste degli elfi
appese ai soffitti, era di gran lunga più accogliente che il
mondo
fuori da quelle mura.
Solo...
solo che doveva fare un'ultima cosa, prima di abbandonare anche quel
posto – odiato quanto amato, l'ultima cosa che gli ricordava
Sirius, ma che gli ricordava anche i troppi mesi di latitanza che
erano finiti appena un paio di settimane prima, o poco più.
Si mise
a sedere e strinse la bacchetta di Malfoy, avvicinandosi alla
finestra spalancata; su un trespolo appoggiato sul davanzale, stava
appollaiato il gufo che Hermione, disperata, gli aveva chiesto, quasi
con le lacrime agli occhi, di tenere con sé e di scriverle
non
appena avrebbe avuto voglia di vederla. Non aveva nome, e non pensava
di dargliene uno – non pensava neanche di portarlo con
sé, quando
sarebbe andato via da lì.
Lo
chiamò con un leggero fischio e il piccolo gufo
volò fino ad
appoggiarsi sul davanzale, allungandogli poi la zampetta, restando in
attesa. Senza pensarci troppo a lungo, legò con un nastro di
seta
nascosto in un cassetto la bacchetta al gufo e disse:
«Portala a
Draco Malfoy, non aspettare alcuna risposta. Poi va' da Hermione e
resta con lei.»
Il
gufo, prima di spiccare il volo, piegò la testa, confuso. Si
allontanò con la bacchetta attaccata alla zampa: sapeva che
non era
un modo sicuro per riconsegnare una bacchetta, poteva slacciarsi,
cadere e perdersi, oppure qualcuno poteva rintracciarlo e rubarla, ma
ormai, cosa gli importava? Non erano più affari suoi dal
momento in
cui il gufo l'aveva portata via. Adesso, nessun
problema
del Mondo Magico era affar suo. Se non sarebbe riuscito a vivere in
quel mondo che gli aveva dato tanto, ma che gli aveva altrettanto
tolto tutto, senza magia, significava che ormai il suo compito,
lì,
era finito. Aveva fatto il suo dovere, adesso non serviva
più.
Harry
Potter era tornato ad essere un Babbano come lo era prima dei suoi
undici anni – o persino peggio, dato che, anche allora, la
magia
c'era.
Già che c'era, nello stesso cassetto dove aveva trovato il
nastro di
seta, prese due pergamene e scrisse due lettere differenti a Ron e
Hermione, ringraziandoli dal profondo per tutto quello che avevano
fatto per lui, e per tutto ciò che erano stati ed erano
ancora per
lui. Forse era stato un po' troppo sentimentale e melodrammatico,
scrivendo loro che non li avrebbe mai dimenticati, sottolineando
più
volte il suo addio definitivo, ma non poté farci niente. Non
voleva
essere invidioso, non voleva vivere nella gelosia di vedere come i
suoi migliori amici e la sua famiglia potessero finalmente vivere
normalmente
mentre
lui, ancora una volta, doveva essere quello anormale
tra
loro. Era stanco. Per una volta, voleva essere uno come un altro
–
non essere né colui che ha ucciso Voldemort tra quelli che
lo
venerano come il Salvatone, né colui senza magia tra quelli
che lo
compatiscono.
Si
avvicinò allo stesso zaino che Hermione aveva incantato
durante il
loro viaggio alla ricerca degli Horcrux e ci infilò tutte le
sue
cose – che erano relativamente poche – e tutti i
soldi che era
riuscito a ritirare dalla Gringott, ringraziando il fatto che ancora
poteva usare oggetti incantati nonostante non avesse più
magia in
sé. Con un nodo in gola, piegò con cura tutti i
maglioni fatti da
Molly in tutti quegli anni, portò con sé anche la
Mappa del
Malandrino – nonostante non servisse più a nulla,
ma era un
ricordo di suo padre, Sirius e Remus, non poteva semplicemente
buttarla via o darla a qualcun altro – insieme al Mantello
dell'Invisibilità. Anche se era molto indeciso, mise
comunque nello
zaino il boccino d'oro dove al suo interno aveva trovato la Pietra
della Risurrezione che aveva perso dopo il suo utilizzo nella Foresta
Proibita, ma si giustificò dicendosi che anche quello era un
ricordo
di Silente e null'altro. Aveva un po' il terrore di diventare
nostalgico, fin troppo, se tra un po' di tempo avrebbe riguardato
tutte quelle cose che avevano segnato la sua vita e l'avevano resa
divertente e avventurosa, ma si sarebbe messo l'anima in pace.
In
ogni caso, non sarebbe potuto più tornare indietro.
Si
mise lo zaino in spalla, dicendosi che aveva rimandato fin troppo la
sua partenza. Aveva assistito a tutti i funerali – quelli di
Remus
e Tonks, quelli di Fred e di Lavanda Brown e Colin Canon erano stati
i più difficili da sopportare, ma era rimasto, fino alla
fine. Aveva
lasciato una testimonianza anche per i Malfoy, non dimenticando
quello che Narcissa aveva fatto nella Foresta Proibita e quando Draco
non lo aveva smascherato a Malfoy Manor. Non lasciò detto
nulla per
Lucius, per lui potevano farci quel che voleva – non era
più affar
suo. Aveva fatto tutto quello che doveva, nulla più, ormai,
lo
legava al Mondo Magico.
Lasciò
le due lettere sul tavolo della cucina, quando uscì dalla
sua stanza
che era stata, un tempo, quella di Sirius, dicendo a Kreacher di far
in modo che sia Hermione che Ron le ricevessero non appena sarebbero
venuti a cercarlo, e l'elfo, seppur borbottando che un
Magonò non
poteva dargli ordini, annuì controvoglia. Fece un respiro
profondo,
mettendosi lo zaino in spalla. Senza più guardarsi indietro,
si
chiuse la porta di Grimmauld Place alle spalle e si perse nella
nebbia di Londra.
Quando
arrivò Settembre, Harry sembrò aver sistemato la
sua vita. Con i
soldi che aveva preso alla Gringott prima di andar via dal Mondo
Magico, aveva affittato un piccolo appartamento più lontano
possibile da Londra, ma vicino alla costa. L'appartamento costava un
po', ma era piccolo e accogliente, ma soprattutto affacciava sul
mare: era stato quel particolare a convincere Harry a mettere radici
proprio lì – e anche perché era lontano
dai maggiori centri
Magici inglesi, così si sentiva con le spalle più
coperte.
Non
aveva alcun titolo di studio, quindi temeva che quel piccolo
appartamento sarebbe durato poco tra le sue mani dato che non avrebbe
trovato lavoro facilmente, quindi per i primi tempi non tolse neanche
le sue cose dal suo zaino, preferendo non lasciar alcun segno di
sé
in quella casa per non sentirla sua e rimanerci male se –
quando –
l'avrebbero sfrattato. Ma la buona stella, per una volta, aveva
illuminato il suo cammino quando la vecchietta che gli aveva
affittato l'appartamento gli aveva, facendogli persino un occhiolino
che lo lasciò piuttosto perplesso, lasciato un biglietto con
scritto
un indirizzo non molto lontano da casa. Non fece domande – la
vecchietta non sembrava molto propensa a dargli risposte che non
fossero ʻavanti, caro, non essere timido, puoi provare a chiedere
lì, dì che ti mando ioʼ – e
scoprì che, una volta arrivato nel
luogo del biglietto, era una Libreria Caffè di piccolo
calibro, ma
molto, molto carina, dove un sacco di turisti si sedevano lì
nelle
ore più calde a bere qualcosa di fresco o a comprare un
libro per
portarlo, poi, nella spiaggia poco lontana. Harry si
innamorò a
prima vista e, non appena fece domanda di assunzione, non
dimenticandosi di dire chi lo aveva mandato, lo presero subito come
nuovo commesso – che, successivamente, scoprì che
il posto era
stato lasciato libero solo poche settimane prima dal marito della
vecchietta che era andato in pensione alla veneranda età di
sessantotto anni.
Quindi,
quando l'autunno era ormai alle porte, Harry poté dire di
essere,
finalmente, in pace con se stesso. O almeno, era quello che cercava
di convincersi, dato che, talvolta, durante la notte ancora sognava
la guerra e i morti, e di giorno ancora versava qualche lacrima
stringendo il tessuto del Mantello dell'Invisibilità tra le
mani. Ma
prima o poi sarebbe passata, era questo quello che continuava a dirsi
ogni giorno. Col tempo sarebbe migliorato, si ripeteva, non appena
apriva gli occhi sotto il suono della fastidiosa sveglia.
Quel
paese che si affacciava sul mare – forse aveva un nome, o
forse era
solo un piccolo quartiere anonimo, ma Harry davvero non lo sapeva, e
un po' si vergognava a far notare ai cittadini la sua ignoranza a
riguardo. Come poteva dire in giro che non sapeva neanche come si
chiamava la terra che aveva sotto i piedi? In più, preferiva
non
saperlo per non cadere nella tentazione di mandare una lettera
Babbana agli Weasley e rendersi poi, così, rintracciabile.
Talvolta,
perdeva ore e ore a pensare a cosa stessero facendo. Ron era entrato
negli Auror come avevano intenzione di fare insieme prima della
Battaglia? Hermione era tornata ad Hogwarts per finire gli studi come
desiderava? E gli altri? Come stava George? E Ginny? Teddy stava
crescendo amato e coccolato come meritava, nonostante la morte dei
genitori?
Tutto
cambiò un venerdì di metà Settembre
quando, mentre Harry stava
placidamente bevendo un caffè regalatogli dalla proprietaria
della
Libreria Caffè, Vivianne, arrivò un gufo a
beccare proprio una
delle vetrate del negozio. Ed era proprio quel
gufo,
lo stesso che gli aveva regalato Hermione, e che aveva mandato via
prima di partire. Nessun gufo sarebbe dovuto riuscire a trovarlo, non
avendo più alcuna scia magica, dunque tutte le missive a lui
destinate sarebbero arrivate a Grimmauld Place – quindi
perché?
Perché quel dannato gufetto si trovava proprio
lì, a fissarlo con i
suoi occhi gialli e la testa piegata, come se fosse la cosa
più
naturale del mondo?
«Un
gufo?» Vivianne, al suo fianco, si grattò la testa
ricoperta da
infiniti riccioli scuri. Una volta si era tolto gli occhiali per
pulirli dalle ditate che aveva lasciato sulle lenti, e la sua forma
sfocata gli era sembrata molto Hermione, tanto che stava per chiamare
ad alta voce il suo nome e scoppiare a piangere. Ma non lo fece.
«Di
giorno? Non li avevo mai visti da queste parti. Sai, vicino al mare.
Che cosa buffa!»
«Già.»
Harry non poté fare a meno di deglutire, il caffé
che ormai era
diventato imbevibile grazie alla bile che gli stava per salire.
«È
piccolo, forse si è allontanato da... dalla tana. Volevo
dire, dal
trespolo. No, dal nido?»
«Harry,
non andare nel panico per queste cose!» rise Vivianne, e la
sua
risata era così diversa da quella di Hermione che ogni volta
lo
faceva rimanere male, «Se ne andrà da
sé, tranquillo. In questo
periodo i clienti sono pochi e il paese deserto, dato che ormai
è
troppo freddo per farsi un bagno al mare. Non farà scappare
nessuno,
quel povero animaletto!»
«È
innocuo,» disse subito, avvicinandosi alla vetrata,
«lo mando via.»
Vivianne
si limitò a scrollare le spalle e a tornare alle sue
faccende. Si
avvicinò al gufo e notò praticamente subito il
pezzo di pergamena
arrotolata e attaccata alla zampina. Senza perdere tempo, lesse
velocemente il messaggio al suo interno e non poté fare a
meno di
sbiancare. Accartocciò la pergamena e la pestò
sotto ai piedi,
sperando che sparisse.
So
dove vivi.
Era
una minaccia? Harry si guardò intorno, ma non vide altro che
strade
deserte e non sentì altro che i gabbiani e il rumore del
mare alle
sue spalle. Quella scrittura non era di Hermione, poteva metterci la
mano sul fuoco. Conosceva bene quella della sua amica, avendo
ricopiato pagine e pagine di suoi appunti ad Hogwarts. Non era
neanche di Ron, o di Ginny. A sensazione, sapeva che non era di
nessuno degli Weasley. Quindi chi diamine...? Non era che chiunque
egli fosse, era già a casa sua, a rovistare tra le sue cose,
o a
dire a tutti dove abitava e cosa il loro Salvatore del Mondo Magico
Magonò stava facendo per sopravvivere? Doveva tornare a casa.
Tornò
nella Libreria Caffè e andò vicino Vivianne, che
stava zuccherando
del caffè per un cliente, «Hey, Vivianne, io...
devo tornare a
casa. Non mi sento per niente bene, ehm, la testa mi sta esplodendo e
ho lasciato le medicine a casa.»
Credeva
che quella scusa inventata su due piedi avrebbe fatto fare qualche
smorfia a Vivianne, perché nonostante la carenza di clienti
non
poteva lasciare il lavoro così per un
mal di testa.
«Oh,
non ti preoccupare, capisco!» Vivianne si indicò
la sua fronte,
assumendo l'espressione di chi sapeva
e
non aveva bisogno di
altre parole. Harry si toccò la fronte nello stesso punto e
scoprì
che era proprio dove aveva la cicatrice a forma di saetta.
«Puoi
tornare a casa, se hai bisogno di qualsiasi cosa non esitare a
mandarmi un messaggio, chiaro? Anche solo per un'aspirina!»
Gli
abitanti del paese lo conoscevano per la balla che aveva detto alla
vecchietta che gli aveva affittato casa, e che lei non aveva esitato
a raccontare a tutte le sue amiche coetanee: aveva detto di aver
avuto un incidente e di aver perso tutto, e di voler ricominciare da
capo proprio lì. Un po' era stato per questo che tutti lo
avevano
aiutato come potevano nel loro piccolo, e lui ne era stato davvero
grato. Vivianne, probabilmente, aveva collegato la cicatrice al
presunto incidente che aveva avuto – e che gli faceva ancora
male.
Il tutto non si allontanava poi troppo dalla realtà, anche
se ormai
la cicatrice non bruciava più da ormai Giugno.
«Me
ne ricorderò. Torno domani.» Forse.
Si
tolse in fretta il cartellino con su il nome e il camice un po'
macchiato di caffè e cioccolata e se lo mise nello zaino,
scappando
poi a gambe levate senza neanche metterselo in spalla. Poteva
sembrare forse maleducato andare via in quel modo senza neanche
salutare i clienti – proprio lui che tutte le vecchiette del
paesino gli davano carezze dicendo quanto bravo ed educato era,
nonostante la sua goffaggine – ma avrebbe chiesto scusa poi.
Corse
per le strade vuote sotto il sole tiepido, il vento sferzava e gli
graffiava la faccia, ma non rallentò comunque, arrivando
quasi in
tempo record sotto il condominio di cinque piani ed entrò,
salendo
fino al quarto. Ringraziò i vari anni spesi ad allenarsi a
Quidditch
che gli avevano dato il fisico dello sportivo, altrimenti, senza
ascensore, sarebbe arrivato davanti al suo appartamento con la lingua
che arrivava al pavimento.
Con
le mani che tremavano dall'agitazione, riuscì comunque ad
infilare
la chiave della toppa e aprì la porta, osservando subito il
piccolo
soggiorno luminoso che si ritrovò davanti e trovandolo,
fortunatamente, vuoto.
«C'è
nessuno?» gridò, posando lo zaino sul tavolo dove
di solito
mangiava ed entrando nella stanza accanto, la cucina, accendendone la
luce, «Se c'è qualcuno che esca fuori altrimenti
finisce male!»
Non che avrebbe mai potuto far del male ad un Mago, ma forse avrebbe
potuto spaventarlo lo stesso. Era o non era, per tutti, colui che
aveva ucciso Voldemort?
Tornò
nel soggiorno nello stesso istante in cui un'ombra uscì
dalla sua
camera da letto. Di riflesso, cercò la sua bacchetta sia
nelle
maniche della maglietta smunta che indossava, sia nelle tasche del
jeans sbiadito, prima di ricordarsi che non aveva alcuna bacchetta.
«Cercavi
questa, Potter?»
Quando
la luce del sole che spuntava dalla vetrata che dava al piccolo
balcone colpì la testa del suo nonvoluto ospite,
imprecò tra i
denti. I capelli biondi sembravano quasi bianchi ed erano
più lunghi
di quanto ricordasse, tanto che per un secondo, Draco Malfoy gli era
sembrato molto suo padre, ma osservando poi il suo tipico sorriso
tagliente e sentendo come aveva strascicato le parole e come lo aveva
chiamato in quel modo strano tutto suo – molto più
Pottah
che
Potter – si
tolse ogni dubbio. E la cosa più strana non era neanche la
presenza
di Malfoy in mezzo al suo soggiorno Babbano, ma piuttosto era il
fatto che gli stava proprio porgendo la bacchetta, la sua bacchetta,
quella che aveva restituito prima di andar via.
«Ti
sei sistemato bene, vedo. Weasley e Granger continuano a infestare i
corridoi di Hogwarts con i loro lamenti sul fatto che non sanno dove
sei o che fine hai fatto o anche solo se stai bene, ma immagino che
dopo oggi posso rassicurarli.»
«No!»
urlò, facendo un passo avanti verso di lui, per poi fermarsi
e
guardare il pavimento. Maledizione, ci mancava solo questa.
«Malfoy,
no. Non dire nulla, a nessuno, che sono qui.»
Malfoy,
elegantemente, si mise a sedere su una sedia togliendola da sotto il
tavolo e accavallò le gambe, fissandolo e giudicandolo con
qualche
leggera smorfia su come era vestito. «Potrei farlo. Non sono
qui per
poi andare al Profeta
e
dire all'intero Mondo Magico dove si nasconde il loro
Salvatore.»
«Allora
perché sei qui?» chiese, grattandosi la cicatrice.
Non bruciava
più, ma certe abitudini erano davvero dure a morire. Malfoy
osservò
quel gesto con indifferenza, ma senza staccargli gli occhi di dosso.
«Senti,
so che ti sembrerà strano, ma sono qui per ringraziarti,
immagino.»
«Ringraziarmi?»
ripeté, incredulo. «Tu?!»
«Io,
sì. L'ho detto che ti sarebbe sembrato strano. Senti,
Potter, mi hai
tolto dai casini quando nessuno te l'ha chiesto: a quest'ora sarei
dovuto essere ad Azkaban se non fosse stato per te. Il minimo che
potessi fare è trovarti e piegarmi
a
ringraziarti.»
«Beh,
potevi anche non abbassarti tanto, non cercavo dei ringraziamenti
quando l'ho fatto!»
Il
sorriso di Malfoy si allargò, ma in qualche modo
addolcì i tratti,
nonostante fosse ancora tagliente come le peggiori lamette economiche
che usava per radersi la barba. «Se vuoi, puoi piegarti
tu.» Harry
non capì subito cosa volesse dire, ma non ebbe il tempo di
chiedere
spiegazioni perché Malfoy parlò di nuovo:
«In ogni caso, grazie,
Potter. E questa non mi serve, puoi tenertela.» Fece sbattere
la sua
bacchetta sul tavolo e la fece rotolare lontano da lui, come se non
volesse neanche più vederla.
«Non
ti serve? È tua, non mia. A me serve meno che a
te.» disse,
amaramente.
«Sei
rimasto senza, a quanto so. Io ne ho presa un'altra.»
«Sai
bene anche che non posso
usarla,
Malfoy, quindi
smettila di mettere il dito nella piaga, prenditi la bacchetta e
sparisci!»
Malfoy
sospirò e mise un gomito sul tavolo, per poi appoggiare il
mento sul
palmo della mano, «Non voglio quella bacchetta. Puoi farci
quello
che vuoi, ma io non la voglio. Non la sento più mia e, per
quanto
odi ammetterlo, ha fatto molto più per te. Io la usavo solo
per,
come dire, darti fastidio. Arrecarti danno. Rovinarti la
vita.»
«Ci
riuscivi piuttosto bene.»
«Mi
ci impegnavo.»
Quella
era stata la conversazione più lunga e più strana
che aveva mai
avuto con Malfoy – senza finire alle mani almeno –
e il tutto lo
stava lasciando piuttosto confuso perché sembrava
così semplice
parlarci,
quando
evitava le peggiori minacce e insulti e quando lui evitava di
prendere negativamente ogni parola che usciva dalla sua bocca
– gli
mancava così tanto parlare con qualcuno della sua vecchia e
desiderata vita. Senza volerlo, si rilassò e si sedette
sulla sedia
di fronte al suo ospite, chiedendosi se non sarebbe stato carino
offrirgli forse qualcosa, anche se in credenza non aveva poi molto.
Piuttosto, invece che chiedergli cosa desiderasse, aveva un'altra
domanda di gran lunga più importante da porgli.
Tossì
per schiarirsi la gola, «Come hai fatto a trovarmi?»
«Quel
gufo. L'ho costretto a restare con me perché volevo
risponderti.
Avevo bisogno dei miei tempi, capisci. Poi ho scoperto che te ne sei
andato, e non vedendoti neanche tornare ad Hogwarts, l'ho
semplicemente seguito, portandomi qui.» disse, indicando con
un
lungo dito fuori dalla vetrata dove, appollaiato sulla ringhiera del
balcone, c'era il gufetto di Hermione.
«Come
diavolo ha fatto?! Tutte le mie lettere arrivano a Grimmauld
Place!»
«Non
lo so,» scrollò le spalle, incurante,
«magia?»
«Sai
che non è possibile! Non... ehm, non ho magia, non
può seguire la
mia scia magica, non...»
Malfoy
si limitò a scrollare le spalle di nuovo, e il discorso
cadde.
Probabilmente, quella sarebbe rimasta una delle tante cose che gli
succedevano che sarebbero rimaste senza spiegazione.
Dopo
momenti di silenzio imbarazzante, Malfoy si alzò con innata
grazia e
disse: «Si è fatto tardi, devo andare. Devo
preparare un saggio per
Trasfigurazione, prima comincio e prima finisco.» Entrambi
rimasero
zitti per dei secondi, poi fu il turno di Malfoy di tossire per
schiarirsi la gola. O per togliersi dall'imbarazzo,
«È stato bello
vederti, Potter. Buona giornata.»
Il
suono della smaterializzazione fu l'unico rumore che si
sentì per un
po' di tempo.
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