Era
buio, lì dentro.
Talmente
tanto che gli altri sensi si erano acuiti, affinati, e quasi poteva
vedere con
essi.
Sentiva
l'odore pungente del
cuoio, dei paracolpi che ricoprivano il suo corpo, logori dopo anni
di utilizzo; era così spesso che lo poteva quasi assaporare,
assieme
al puzzo della crema analgesica per lenire il dolore della contusione
che aveva ricevuto nell'ultimo combattimento, alla gamba sinistra, al
quadricipite.
Persino camminare gli faceva
male e lui doveva fare ben altro, doveva stringere i denti e
continuare, fino alla fine.
Doveva essere pronto a tutto.
Passò
una mano distratta sulle
cinghie delle armi per assicurarsi che fossero ben tese e ne
sentì i
solchi e le lacerazioni accumulate con gli anni, col passare del
tempo, con l'usura ammucchiata incontro dopo incontro; nel
controllare quella sulla spalla sinistra sfiorò senza
accorgersene
le punte acuminate sul suo petto, il bordo del piastrone frastagliato
e scheggiato, graffiandosi.
All'inizio
scostò la mano,
sorpreso dal dolore, seguì poi col dito il contorno delle
punte
affilate, assorto, ogni sbeccatura un ricordo doloroso, -inciso come
una cicatrice,- della sua giovane vita. Alcuni erano più
profondi di
altri; alcuni erano più dolorosi di altri e non solo
fisicamente.
Non aveva voluto che Mister
Bowman gli sistemasse il piastrone, che gli ricostruisse il bordo
liscio con resine speciali, perché lui doveva ricordare, e
ogni
scheggia che era caduta da esso, -creando la seghettatura naturale,
che a volte feriva anche lui, che a volte sfiorava facendosi male,-
era un momento in cui aveva fallito, in cui aveva fatto una scelta
sbagliata, in cui aveva sofferto fino a desiderare quasi di morire.
E non erano cose che potesse
concedersi il lusso di scordare.
Respirò
a fondo per calmare il
battito impazzito del cuore, che nel buio si amplificava, riempiendo
ogni cosa.
L'eccitazione minacciava di
prenderlo, ma lui doveva restare calmo, come Gustav il lanciatore di
coltelli gli aveva insegnato; era sbagliato cedere all'ansia, poteva
far tremare la mano e mandare tutto in rovina. Bastava un solo
istante di disattenzione e tutto era perduto.
E nessuno più di lui lo sapeva.
Lui che aveva perso tutto. Tutti
coloro che amava.
Ora che il
suo cuore era tornato
ad un ritmo normale, solo allora lo sentì, il lieve ronzio
che si
faceva strada dal di là delle mura: voci concitate ed
emozionate,
che urlavano ed esortavano, che incitavano e premevano, per avere la
loro eccitazione, per vederlo all'opera.
Per l'ultima volta.
L'ultima battaglia.
Vincere o morire. Oblio o
libertà.
E per lui libertà era sinonimo
di vendetta. Perciò la bramava, la voleva più di
ogni altra cosa,
intossicante come il veleno, necessaria come l'aria.
Inghiottì
a vuoto il groppo in
gola, mentre il brusio cresceva, secondo dopo secondo, infilandosi da
sotto alla porta insieme al flebile spiraglio di luce, così
fioco da
non illuminare nulla, riempiendo ogni spazio vuoto che trovava, anche
quello dentro il suo cuore.
Non c'era più il battito ad
animarlo, ma il coro a tempo che ormai scandiva il suo nome, con una
voce sola, che lo chiamava nell'arena.
Sentì lo statico del microfono
che si azionava e poi la voce amplificata dello speaker, che faceva
la sua solita apertura ad effetto, suscitando un boato di
approvazione tra il pubblico.
Saltellò
appena sul posto per
sciogliere la tensione dai muscoli e provare il dolore alla gamba;
avrebbe retto, doveva solo stringere i denti e tenersi alla larga da
calci che potevano colpire dove era già ferito.
Poteva farcela.
Il fragore crebbe, ora che era
arrivato il momento.
Lo
stomaco si strinse in una veloce morsa, nel secondo che precedeva la
sua chiamata: “Ecco
a voi l'indiscusso, imbattuto, fenomenale campione” disse
l'uomo al
microfono con enfasi, mentre la saracinesca metallica che lo separava
dall'arena iniziava a sollevarsi lentamente facendo entrare la luce
nella sua oscurità come un fiume in piena, gialla, forte,
calda.
Eppure per niente rassicurante.
D'un tratto anche quella fonte
di luce si spense e fu il buio totale, ovunque. Sentì
qualcuno
trattenere il fiato. E poi un bagliore ancora più intenso si
accese
alle sue spalle, gettando fuori la sua ombra, enorme, nera come
l'oblio, frastagliata, oscura e spaventosa.
“Leonardo,
il magnifico!”
strillò lo speaker, con un urlo poderoso.
Un paio di passi furono
necessari, per uscire nella gabbia di metallo che era l'arena. Al suo
passaggio decine di faretti si accendevano coreograficamente,
alimentando l'emozione negli spettatori.
Non
riuscì a vedere da subito,
la differenza era troppa dal nulla nero a tutta quella
luminosità,
ma non fu necessario: udì perfettamente i boati entusiasti
di chi lo
conosceva già e aveva scommesso su di lui e gli strilli
inorriditi
di chi invece non lo aveva mai visto prima.
Non sapeva cosa fosse, né lui
né i suoi fratelli avevano mai capito cosa fossero per
davvero: uno
strano ibrido umano-tartaruga, una evoluzione spontanea, una
mutazione; di teorie se n'erano fatte a milioni, negli anni, ma non
lo avevano mai scoperto.
Di certo, finché erano stati
tutti assieme, si erano considerati una famiglia.
Tanto, troppo tempo prima.
Camminò
fino al centro
dell'arena, indifferente agli sguardi, sulla sua persona, sulle
cicatrici più chiare che solcavano la sua pelle verde
foresta su
tutto il corpo, sul piastrone e il guscio scheggiati e dentellati dai
colpi e dalla cattiva sorte.
Chiuse gli occhi e attese,
assorbendo il calore dei fari e le voci come una spugna, ma distante
anni luce con la mente.
Forse, si
disse mentre lo
speaker seguitava la sua pappardella per annunciare il suo sfidante,
-l'ultimo finalmente,- forse sarebbe stato tutto diverso se avessero
avuto qualcuno che si fosse preso cura di loro fin da subito, se
avessero avuto dei genitori, qualcuno che li avesse accuditi e gli
avesse mostrato amore e come funzionava il mondo.
Forse sarebbero stati più
fortunati.
Forse sarebbero stati ancora
tutti e quattro assieme.
Forse sarebbero stati ancora
tutti vivi.
Forse sarebbero stati felici.
Se solo
quel maledetto giorno in
cui avevano aperto gli occhi nelle fogne non fossero stati soli.
Note:
Salve.
Ho deciso
di pubblicare questa
storia, e un'altra, anche se sono ancora impegnata con la serie
Heart's Mutation. Perché sono nella mia testa da troppo
tempo e
vogliono uscire fuori e now or never è diventato il mio
nuovo motto.
Ripeto: non hanno nulla a che
fare con la serie heart's mutation.
Questa
è una storia molto dark
che parte da un solo presupposto, un what if grande come una casa: e se
non ci fosse stato
Splinter quel giorno in cui il mutageno li ha trasformati? Se il topo
non li avesse visti e seguiti nelle fogne e quindi solo loro fossero
mutati, come sarebbe stata la loro storia?
Ovviamente non potranno più
essere ninja e li seguiremo per un po' prima dell'adolescenza, quindi
rimangono solo tartarughe mutanti.
Fatevi
portare in questa storia
dark, molto dark, così scura che non si riesce a vederne la
fine.
Abbraccio
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