Premessa d'obbligo:
Questa storia sarà composta da quattro capitoli,
né più, né meno, che verranno
regolarmente postati circa una volta a settimana. E' frutto di
un'ispirazione sparaflashante la cui genesi verrà affrontata
sotto per non togliere spazio vitale. E' una storia strana, a tratti
umoristici, a tratti drammatici. E' una SasuNaru e una MadaHashi, anche
se segue i miei personali standard, quindi niente dobe-teme &
parrucconi a profusione, bensì personaggi il più
possibile IC, uno stile spero scorrevole e una trama che allo stesso
modo mi auguro possa sia divertirvi che trasmettervi qualcosa. Forse...
forse tutto il sugo della storia (per dirla alla Manzoni lol) si
comprenderà davvero alla fine.
Buona lettura!
R.I.P. & Play Again
Riposa
in Pace…
Pausa – una storia di redenzione e seconde occasioni.
“Now
that he is gone and the spell is broken, the actual fear is greater.
Memories and possibilities are ever more hideous than
realities”
“Ora
che se n’è andato e l’incantesimo si
è rotto, la paura vera e propria è più
grande. Le memorie e le possibilità sono ancora
più orribili delle realtà.”
Herbert
West – Reanimator; By H.P. Lovecraft
I
Stop - Reanimator
Di
solito tutti i grandi incipit cominciano con qualcosa di epico,
qualcosa che rimane inchiodato nella testa del lettore e lo costringe a
leggere, ancora, fino a capire cosa accidenti succede in quella notte buia e tempestosa
o per quale mistico motivo un uomo all’improvviso si
risveglia trasformato,
nel suo letto, in un enorme insetto immondo.
Questo Madara lo sapeva bene, facendo lo scrittore per vivere.
Ed effettivamente la sua storia era iniziata in maniera non solo
accattivante ma addirittura scenografica, pronta per essere scritturata
direttamente da Hollywood: con un’esplosione. Peccato che,
ecco… in quell’esplosione ci avesse rimesso la
vita.
Non che la sua fosse esattamente una vita modello, al contrario: il
fumo, la sodomia, una profusione di parolacce usate come intercalare
erano giusto un breve riassunto di come la sua esistenza fosse ben
lungi dal potersi definire esemplare. Eppure era la sua e
l’uomo, come una buona parte degli esseri umani, tutto
sommato ci teneva. Suvvia, nonostante le scarse aspettative della
collettività era divenuto uno scrittore di successo, autore
persino di favole horror per bambini, amate e puntualmente denunciate
dalle mamme perbeniste del mondo: come si potrebbe non voler continuare
a vivere, dati simili ghiotti presupposti?
La sera in cui tutta quella sua caotica e imperfetta vita era cessata,
Madara stava oltretutto facendo qualcosa di altrettanto caotico e
imperfetto ma che amava alla follia, quasi quanto scrivere;
più precisamente, stava facendo sesso. Aggiungiamo, giusto
per i fanatici dei dettagli, anche un particolare importante
soprattutto per il resto della vicenda a seguire: stava facendo sesso con un uomo.
Sì, forse la parola sodomia buttata nel mezzo
dell’esistenza non-modello dello scrittore poteva essere un
indizio notevole, ma in queste situazioni è meglio non
lasciare nulla al caso: Madara Uchiha era proprio omosessuale.
Torniamo indietro di qualche riga; dicevamo, Madara Uchiha era a letto
con un uomo. Non un uomo qualunque, bensì una persona che
conosceva da decine di anni, con la quale aveva intrecciato un rapporto
lavorativo, poi d’amicizia e infine…
d’amore – o la maniera in cui si poteva definire la
strana e tortuosa relazione che li legava.
Tale persona era il suo illustratore: Hashirama Senju. Le sue tavole, i
suoi scenari, i suoi inchiostri avevano animato le pagine dei racconti
di Madara, rendendo ancora più vive e potenti le sue
già evocative parole, come se davvero i dipinti lunari di
una casa solitaria fossero stati direttamente plasmati dalle righe
scritte su carta.
In quel momento, quando tutto ebbe inizio, Madara stringeva le natiche
di Hashirama, le teneva, contemplandole, osservando la muscolatura
soda, la corporatura alta e asciutta che aveva sempre contraddistinto
l’uomo e i capelli che cadevano sulla schiena, simili a linee
d’inchiostro che, come china sull’acqua,
scivolavano diffondendosi sopra la nuda pelle.
Stava per arrivare all’orgasmo, affondando con spinte sempre
più decise in quel corpo che amava, e così vicino
all’orgasmo notava dettagli che nemmeno credeva di poter
vedere: il modo deciso in cui Hashirama artigliava le lenzuola, la
naturalezza con cui si armonizzava ai suoi movimenti, la bellezza della
muscolatura quando inarcava la schiena, nascondendo nella pelle la
spina dorsale, come se girandosi dovesse proteggerla.
Era quindi un bel momento, l’avrete provato un po’
tutti, in fondo. Capirete dunque che farebbe piuttosto incazzare se
qualcosa, esattamente in quel preciso istante di sublime perfezione,
dovesse non solo interrompere tutto il flusso di orgasmica
felicità ma addirittura uccidervi. Incazzare è
riduttivo, come termine; forse sareste proprio tornati
dall’aldilà giusto per fare un dispetto al creato
– e, sostanzialmente, almeno in parte questo fu quanto
accadde in seguito a quello spiacevole evento. Ma… ci
sarà tempo per parlarne.
Con spiacevole evento, in ogni caso, si intende un incidente non solo
tragico ma altamente improbabile, anzi, con una soglia di
probabilità che rasenta l’1%. Giusto per
intenderci: quante volte si è sentito di qualcuno che ha
perso la vita dopo essere stato colpito da detriti in fiamme di un
satellite che aveva concluso il suo moto gravitazionale?
Ebbene, questo fu ciò che accadde quella sfortunata sera in
un motel lungo una statale a Madara Uchiha e Hashirama Senju: uomini,
amanti, colleghi di lavoro. Travolti da un satellite che andava a fuoco
e morti forse in seguito all’esplosione, forse per via del
crollo dell’edificio che, pur essendo basso, si era ripiegato
su se stesso come carta zuppa d’acqua.
“Porca troia!” esclamò Madara
all’improvviso, annaspando quasi avesse ritrovato la
capacità di respirare, per poi rendersi conto di essere nudo
di fronte all’hotel in fiamme.
“Non me l’aspettavo.” Commentò
Hashirama scuotendo la testa; l’uomo sembrò
comparire al fianco dello scrittore. Anch’egli nudo come
mamma l’aveva fatto, con un’espressione preoccupata
ma non troppo, tanto più tranquillo e razionale in tutto
rispetto al suo compagno.
Madara gli afferrò le spalle: “Ma che è
sta faccia? Guardaci! Siamo nudi, qui fuori! E là
c’è un fottutissimo edificio in fiamme crollato in
mille pezzi! E tutto quello che mi riesci a dire è non me l’aspettavo?”
Hashirama rise, portandosi la mano dietro la testa: “Che vuoi
che ti dica, sei tu lo scrittore qui.”
Lo scrittore in oggetto stava replicando altro, quando a suon di sirene
e frenate brusche entrarono nel piccolo spiazzo del motel delle
ambulanze e dei camion dei vigili del fuoco, seguiti dalla polizia che
sembrava essere venuta lì più a far casino che
altro.
Ulteriori persone uscirono in strada un po’ ammaccate ma
sopravvissute perché distanti dal luogo di impatto, visto
che l’edificio aveva un solo piano, oppure provenienti dalle
strutture adiacenti e pronte ad aiutare. Ci furono pianti, grida e
lamenti in uno scenario quasi apocalittico; nessuno sembrava comunque
eccessivamente turbato dalla presenza di due uomini, nudi, in piedi di
fronte al luogo dell’incidente.
Madara, poco abituato a essere ignorato, stava per dirigersi verso un
soccorritore improvvisato che aveva avuto la brillante idea di scavare
a mani nude tra macerie e detriti metallici roventi, quando si
voltò verso Hashirama per esortarlo a far presente che, ehi, loro erano dei
sopravvissuti, quindi meritavano un po’ di riguardo. In quel
preciso istante un’ambulanza guidò con noncuranza
nella direzione del disegnatore e, prima che loro due potessero fare
qualcosa, l’auto lo travolse in pieno.
Madara, con il cuore in gola e il respiro bloccato, già si
aspettava di vedere il corpo dell’uomo che amava intento a
volare via, cascare a terra e scomporsi come un puzzle malfatto.
Invece, non testimoniò nulla di tanto ordinario;
perché, semplicemente, l’ambulanza
passò attraverso il suo corpo.
Hashirama infatti sentì solo qualcosa di metallico e freddo
entrargli dentro, avvertì i propri capelli venire scossi,
volteggiare e rimanere sospesi, come spinti da una forza inevitabile,
ma non percepì dolore o alcuna parte di sé
spostarsi. Tutto tornò alla normalità –
per quanto quella situazione assurda potesse definirsi normale
– e l’uomo si guardò le mani, il proprio
petto, per poi rendersi conto che non gli era successo assolutamente
nulla, né tantomeno era stato investito.
“Madara…” mormorò poi,
alzando il volto verso di lui.
Sembrò volergli dire altro, un’infinità
di parole e di rivelazioni, ma un vigile del fuoco passò
anche attraverso Madara. Fu come vedere un’immagine
olografica disfarsi dei contorni dove
veniva toccata per poi ricomporsi: scie di luce, frammenti, volarono un
istante ribelli e tornarono al loro posto in un movimento fluido, come
se fossero stati mercurio che fuggiva da un termometro.
Lo scrittore aprì la bocca, rimase immobile un istante, poi
girò lo sguardo verso il motel o ciò che ne
rimaneva. Qualcuno iniziò ad estrarre dei corpi, magari solo
un braccio che spuntava dalle macerie o dei resti schiacciati,
distrutti, da qualcosa di più grande e potente.
“Siamo morti.” Concluse alla fine, lasciando cadere
le braccia lungo i fianchi.
Altra gente li oltrepassò, attraversandoli, scuotendo i loro
capelli, smuovendo gli echi di ciò che erano stati in vita.
Dalla presa di coscienza della propria morte, cominciava anche la vita
di altre due persone: Sasuke e Naruto. Ma, come dicevamo qualche riga
addietro, portate pazienza; prima c’è un piccolo
dettaglio da approfondire: perché, sostanzialmente, due
morti camminavano ancora sulla Terra?
*
Ormai l’incendio era stato spento, i soccorsi prestati, le
macerie tolte e i corpi di chi non ce l’aveva fatta estratti,
per venire messi dentro i sacchi da obitorio. Una fine triste, quasi
ironica, perché chi era andato in quel motel per dormire una
sola notte di certo non si aspettava che lo avrebbe fatto per sempre.
Madara e Hashirama finirono, inconsciamente, per tenersi per mano. In
quelle ore di consapevolezza che chiunque poteva passare loro
attraverso come se essi non esistessero, fu confortante realizzare di
riuscire, invece, a toccarsi; inoltre, fatto non da poco, nessuno
poteva avere qualcosa da ridire, visto che i due amanti erano
sostanzialmente invisibili.
Rimasero lì tutto quel tempo, a guardare i soccorsi, a
vedere altre fiamme e crolli, senza provare sonno, stanchezza, fame o
sete. Si sentivano a vicenda e tanto bastava. Stavano per estrarre gli
ultimi corpi, i loro, forse. Fu difficile respirare o…
insomma, quel gesto che erano così abituati a fare in vita.
“Fidatevi, non volete vedervi.” Disse una voce,
all’improvviso.
I due si voltarono: videro un ragazzo dai capelli lisci e piatti che in
parte ricadevano sulla fronte, con stampato addosso un mezzo sorriso e
gli occhi scuri attenti. Aveva addosso una sorta di tunica semplice,
portava una collana con tantissimi monili diversi e nel complesso
sembrava uscito da un film d’epoca in costume.
“E tu chi cazzo sei? – anche da morto, Madara
sapeva essere sempre gentile
– odio la gente che mi arriva da dietro le spalle.”
“Ho tanti nomi – replicò
l’altro, per nulla turbato dall’accesso
d’ira – ma per semplificarci la vita diciamo che
sono il ponte tra qui e l’aldilà. Chiamatemi
Sai.”
“Mi porti verso l’aldilà?”
domandò Hashirama, scrutandolo.
“Non esattamente. Il passaggio è…
bloccato, per così dire.” Spiegò colui
che, a vederlo, sembrava un ragazzo. I pendenti al collo ciondolarono:
si intravide una croce, un triskell, persino una croce uncinata egizia.
Quasi una fiera di cattivo gusto delle paccottiglie religiose,
eppure… emanava qualcosa di forte, un’aura
assoluta che inchiodava i due uomini lì, davanti a
quell’essere, incapaci di andarsene.
“Bloccato? Nel senso che abbiamo conti in sospeso e tutte
queste stronzate qua?” sbottò Madara.
Sai gli sorrise, ma il suo volto sembrava quasi inquietante:
“No. Nel senso che la vita è stata vissuta nella
menzogna. E questa menzogna sarà rivelata, lasciando
corrotti, incapaci di raggiungere la morte soddisfacente che natura
vorrebbe. Perché avete comunque fatto tutti e due qualcosa
di buono nella vostra esistenza; anche se tu Madara… ecco,
su di te ci sono stati un po’ di dibattiti. La tua
situazione, comprenderai, è diversa da quella di
Hashirama.”
Quest’ultimo non disse nulla. Guardò semplicemente
l’uomo che amava, il quale invece replicò velenoso:
“Dibattiti? Chi è che dibatte? Dio? Buddah? Allah?
Sai quanto cazzo me ne frega? Nulla! Se avevano qualcosa da dirmi che
me lo dicessero quando potevo ancora rispondere, visto che si sono
sempre risparmiati di farsi sentire; io di certo non li ho
cercati.”
Era ateo convinto più o meno da sempre e nemmeno Hashirama,
che pure credeva in qualcosa di più grande, era mai riuscito
a smuoverlo dalle sue posizioni.
“Non sono qui per istruirti di religione o filosofia.
Limitiamoci a dire che ciascuno, nella sua sfera privata, ha attribuito
un nome a ciò in cui crede. Il fatto che tu non abbia
creduto in nulla non fa cessare di esistere ciò che vive nel
cuore e nella mente degli altri. Ora – fece un sorriso ancora
più inquietante – posso concludere o volete
rimanere per sempre nudi di fronte ai resti di un motel?”
Hashirama buttò un occhio alla strada e
all’edificio; avevano portato fuori gli ultimi resti, non
c’era davvero più nulla lì dentro,
oltre alla morte. Non aveva notato il proprio corpo e fu sollevato
all’idea: anche se prima credeva che guardarsi sarebbe stata
l’unica cosa giusta da fare, a posteriori comprese che non
avrebbe tratto alcun beneficio dal vedere il se stesso di tutti i
giorni ridotto a un cumulo di carne.
“Concludi.” Lo esortò, serio. Madara
tacque. Entrambi sapevano, in fondo, a quale menzogna si riferisse
quella creatura.
“Ho un compito da proporre. Evitare che due persone compiano
– fissò entrambi ma specialmente Hashirama
– il vostro stesso errore. O, sostanzialmente, si tratta di
migliorare la loro vita prima che tutto si concluda nel disastro
più totale.”
Madara e Hashirama si lanciarono un’occhiata. Poi lo
scrittore si portò una mano al fianco,
assottigliò gli occhi e replicò, chiaramente
scettico:
“Fammi capire: voi, chiunque voi siate, siete
diventati un’accozzaglia di enti improvvisamente dediti alla
carità? Perché, esseri superiori fantafighi,
dovrebbe importarvi qualcosa di quelle due persone? Di noi vi è
mai importato?”
Hashirama gli lanciò un’occhiata per poi
commentare: “Accidenti, sei davvero polemico! Meno male che
non sei invecchiato oltre o saresti stato come quegli anziani acidi che
si lamentano tutto il tempo.”
Accennò a un sorriso morbido, con un’ombra di
rassegnazione all’idea che l’ironia era tutto
ciò che gli restava, a quel punto.
Lo scrittore borbottò qualcosa ma tacque quando Sai gli
dette le tanto anelate spiegazioni:
“E’ una questione di equilibri. Poi,
sostanzialmente, posso andare anche contro questa forza e portare via
con me l’energia vitale. Ma… non è la
continuazione che entrambi desiderate, o sbaglio?”
Nonostante l’uso del plurale guardò comunque prima
Hashirama. Questi lo fissò, con il volto spaventosamente
serio, marchiato da una consapevolezza in qualche forma più
grande.
Abbiamo parlato tanto di Madara in questo inizio storia, accennando
qualcosa della sua vita, dei suoi orientamenti e del suo carattere. Ma
di Hashirama, filtrato attraverso gli occhi di chi lo amava,
è stato omesso un particolare importante: egli, infatti, era
sposato.
Non certo con Madara, questo era impossibile, bensì con una
donna, moglie e madre dei suoi figli. Figlia, precisamente. Loro due
– la sua famiglia, almeno sulla carta –
congiuntamente alla notizia della morte di Hashirama, avrebbero saputo
che questi non era da solo al momento della sua scomparsa,
bensì era stato trovato nudo nella camera di un motel
assieme a un altro uomo, che peraltro conoscevano. Non ci voleva un
genio per trarre le somme e capire che l’esemplare marito e
padre di famiglia stava tradendo il sacro vincolo del matrimonio con un
amante, per giunta un amante uomo che in svariate occasioni aveva pure
varcato la soglia della loro casa.
No, decisamente non un bel modo di andarsene, un peso tenuto nascosto
per troppo tempo che avrebbe causato ulteriore sofferenza alla
legittima consorte Mito Uzumaki. Forse il poter sistemare delle altre
vite avrebbe in parte compensato le sue mancanze: Hashirama non lo
sapeva, l’unica cosa di cui era certo era che non accettava
di andarsene così, avrebbe tentato di poterle dire ancora
qualcosa, di…
Dannazione. Non avrebbe più abbracciato sua figlia che era
già donna, non l’avrebbe vista invecchiare, far
nascere la bimba che teneva in grembo, diventare una donna in carriera,
realizzarsi. Fu quella consapevolezza, più di qualsiasi
altra cosa, a rendere ad Hashirama così indigesta la morte.
“Non sbagli. Chi dobbiamo aiutare?”
Gli piacque parlare al plurale, sembrava quasi un’avventura.
Madara sospirò ma non disse nulla: aveva proprio voglia di
fumare.
Sai sorrise:
“Oh, vi piaceranno.”
Ecco, se solo Madara avesse potuto prevedere con quella frase cosa, o
meglio, chi esattamente gli sarebbe capitato, avrebbe dato del fuori di
testa ad Hashirama e accettato l’offerta di andarsene con
tutti i pesi del caso. Ma all’epoca, appunto, aveva solo
voglia di fumare, di aiutare l’uomo che amava e con cui aveva
condiviso vita, e morte, a sistemare quel grandissimo casino che era la
loro esistenza.
*
C’era stato un periodo della vita di Sasuke Uchiha in cui
quest’ultimo aveva praticato la boxe a livello agonistico. Un
bel
periodo, nel complesso, fatto di allenamenti intensivi, corse e
incontri nei quali sua madre temeva di vederlo tornare a casa senza un
dente, nonostante le apposite protezioni. Una cosa del genere,
comunque, non era mai accaduta: Sasuke infatti era bravo, atletico,
capace di schivare, tenere alta la guardia e fare le sue dovute
contromosse. Poi era veloce e la pratica saltuaria con le arti marziali
aveva migliorato i suoi già agili riflessi: una macchina da
guerra, nonostante il fisico asciutto e nervoso, dai fasci muscolari
così in evidenza che era possibile vederli guizzare sotto la
pelle. Ricordava Bruce Lee, più che un massiccio pugile
moderno, ed era stato notato dalle federazioni professionistiche che
gli avevano proposto contratti piuttosto appetitosi.
Tutto questo percorso crono storico si era svolto più o meno
in contemporanea a quello del primo, vero, rivale di Sasuke,
nonché amico e compagno di allenamenti, visto che
frequentavano la stessa palestra da anni: Naruto Uzumaki.
Ora, questi due cognomi vi suoneranno famigliari, suppongo.
Ma… andiamo con ordine.
Naruto, al contrario di Sasuke, aveva un fisico meno asciutto, anche se
di pochi centimetri più basso dell’amico e aveva
una notevole forza d’attacco ma difettava nelle schivate.
Incassava bene i colpi, eppure quando l’avversario attaccava
con decisione il ragazzo rischiava di diventare un punching ball umano
e la resistenza negli incontri ne risentiva.
Purtroppo, però, a un certo punto le carriere sportive di
entrambi smisero di correre in parallelo: Sasuke infatti non
poté continuare la sua strada agonistica a seguito di un
incidente che, in un qualche modo profondo che forse leggendo potrete
comprendere, segnò anche Naruto. Quest’ultimo, per
quanto avesse sempre desiderato con tutto se stesso superare Sasuke e
migliorarsi, a sua volta azzerò le sue mire sportive,
accontentandosi, giorno dopo giorno, di venire allenato dal suo
compagno di boxe di un tempo.
Ogni tanto partecipava a qualche incontro ma sembrava più
uno svago, una macchia sul calendario, mentre la sua frequentazione
della palestra era diventata una sorta di tranquillizzante routine,
anziché un impegno vero e proprio.
Sasuke si arrabbiava, anzi, si incazzava a morte nel vedere tutto quel
talento sprecato ma Naruto, testardamente, si ostinava a non voler
sentire ragioni. Nonostante le premesse, ancora non era quello il
motivo vero e proprio per cui Sasuke e Naruto avevano decisamente
bisogno di un aiuto, a modo loro.
La palestra apparteneva al padre di Sasuke, Fugaku, che a sua volta era
stato boxeur e aveva allenato i due ragazzi sin da piccoli;
contrariamente alle opposizioni delle moglie e della madre di Naruto,
ogni volta che poteva si portava i ragazzi agli incontri, convinto che
la boxe fosse un’arte e una scuola di vita che li avrebbe
formati come uomini.
Affascinati, i due bambini guardavano il ring, le luci, la gente,
sognando un giorno di poter essere là sopra, di sentire
l’adrenalina dello scontro, il sudore colare sulla fronte, la
concentrazione verso l’avversario per comprenderne i
movimenti e anticiparli.
Crescendo, erano riusciti ad arrivare a quel punto, a quelle luci, a
sentire le incitazioni della folla, a calcare il suolo già
un po’ vissuto del ring. Ma da lì in avanti le
cose erano poi procedute diversamente rispetto alle aspettative.
Anche quella sera di tanti anni dopo, quando il resto degli atleti o
frequentatori casuali della palestra era andato via, Sasuke e Naruto si
trovavano sul ring ad allenarsi, ancora, assieme. Attorno a loro le
mura di quel luogo che tanto conoscevano, alte, che ricordavano una
fabbrica, con le sue vetrate un po’ sporche, gli infissi di
ferro dalla verniciatura blu scura che in alcuni punti stava saltando,
rivelando l’anima metallica che c’era sotto.
Le lampade, dal filo lungo e spesso, pendevano sopra le travi con la
loro luce gialla e a tratti smorta, come se le lampadine fossero
stanche, mentre il pavimento in pvc portava i segni degli attrezzi
spostati, dei passaggi e dei pesi, graffi e strisce nere simili a
ferite. A tratti c’era odore di ferro, misto a sudore quando
si era in tanti e l’aria era contesa, o quando si guardavano
match organizzati alla buona per capire i propri sbagli o semplicemente
per appassionato divertimento.
“Più alta la guardia! Alta! Bilancia le spalle,
sembri un troglodita!”
Sasuke alzava la voce con Naruto, mentre gli correggeva ogni movimento,
rilevava qualunque falla in una nave da guerra che non poteva
permettersi di affondare. Ma non urlava, mai. Aveva un tono duro,
persino autoritario a tratti, però sapeva distinguere un
incitamento a migliorare da una dimostrazione di rabbia, anche se non
necessariamente tale incitamento era privo di insulti. Quando si aveva
a che fare con Naruto, l’insulto era una parte costante del
dialogo.
Naruto si correggeva, mettendoci ancora più impegno, senza
mancare però di esclamare:
“Fossi un troglodita ti avrei già dato tante di
quelle mazzate in testa, brutto spocchioso, arrogante testa
di…”
Sasuke vide la guardia scoperta, ancora, e pensò bene di
rifilare a quel chiacchierone il pugno che si meritava, anche se era un
allenamento e anche
se in teoria avrebbe dovuto essere lui ad accogliere i suddetti pugni,
non viceversa.
“Ahia – esclamò il pugile dai capelli
biondi che sparavano da tutte le parti, grazie al taglio appena fatto
– sei uno stronzo. Stavo…”
Si rese conto che precisare parlando
non era esattamente una scelta saggia per far valere i propri diritti.
Sasuke si portò ai fianchi le mani coperte dai guantoni e,
con il suo solito cipiglio in parte schifato, in parte divertito, disse:
“Te lo sei meritato. Parla di meno e muoviti di
più, stupido – tacque un istante poi aggiunse,
gettandogli addosso un asciugamano – tra un paio di settimane
ci sarebbe un incontro a…”
“Lascia stare.” Lo interruppe Naruto, sfregandosi i
capelli con il pezzo di tessuto un po’ consumato ma bianco e
odoroso di pulito. Probabilmente c’era lo zampino di Sakura,
anche se Sasuke era sempre stato preciso in quelle cose.
L’altro arricciò appena le labbra sottili ma non
disse nulla, guardando da un’altra parte.
Naruto gli lanciò un occhiata, osservando lo sguardo
profondo e i capelli lasciati crescere fin quasi alle spalle, tirati
indietro da un sottile cerchietto nero: aveva sempre trovato Sasuke
bello, desiderabile nonostante il carattere chiuso, forse
perché in quegli anni aveva avuto modo di conoscere tanti
aspetti di lui.
Gli mise le mani sul collo, tra i capelli, e lo bloccò,
continuando a fissarlo; Sasuke inarcò un sopracciglio ma non
si mosse, né parlò.
“Sei un figo.” Decretò Naruto. Infine,
senza pensarci oltre, lo baciò.
L’allenatore si sfiorò le labbra poi, suo
malgrado, sorrise a sua volta e scosse la testa:
“Questo per che cos’era?”
L’asciugamano era caduto a terra.
Naruto scrollò le spalle: “Nulla in particolare.
Devo approfittarne prima che ti sposi con l’amore della mia
vita.”
Sakura. Maledetto
Sasuke, te l’ho fatta conoscere io. E lei è
cascata ai tuoi piedi. Non ho mai capito se dopo tutti questi anni
l’hai sposata per esasperazione.
“Credevo di essere io l’amore della tua
vita.” Lo prese in giro Sasuke, con quel modo brusco e
dall’ironia graffiante, quasi paradossalmente seria, che
aveva di solito. Raccolse l’asciugamano e lo tenne stretto
tra le dita, fissandolo, rendendosi conto del peso di quelle parole.
Naruto infatti lo colse in pieno e sentì un groppo in gola.
Gli diede un pugno sulla spalla per non pensarci:
“Ehiehi, non dirmi che sei geloso! Dovrei essere io quello
ferito e scartato, qui.”
All’improvviso Sasuke gli afferrò il polso,
bloccandolo:
“Allora…”
Il resto rimase lì, sospeso tra loro. Deviarono gli sguardi,
incapaci di bloccare quella spaventosa serie di eventi che stava
avanzando, inesorabile.
Non erano più ragazzini; erano adulti, avevano dei lavori,
delle vite, degli amici, colleghi e conoscenti al di fuori di quella
palestra nella quale in fondo erano cresciuti. Oh, sì,
casomai vi interessasse saperlo, dopo tutti quegli anni Sasuke e Naruto
erano finiti a letto insieme: era stato quasi naturale, anche se sulle
prime imbarazzante ed erano tutti e due imbranati cronici. Ma
progressivamente avevano imparato a conoscersi pure sotto
quell’aspetto, nonostante non fosse stato decisamente facile
capirsi e, puff,
finire a letto.
Eppure non si erano mai detti un vero e proprio ti amo; infatti,
con il passare del tempo si stavano rendendo conto che nessuno dei due
era in grado di portare a un altro livello la loro relazione, Sasuke
perché aveva un padre che pensava di aver deluso e che
avrebbe voluto vederlo sistemato nella vita, visto che nello sport
tutto era già andato a puttane. Naruto perché
sentiva un grandissimo, enorme, debito nei confronti di Sasuke, che per
colpa sua aveva dovuto dire addio alla boxe che amava con tutto se
stesso, accontentandosi di dover allenare uno stordito come lui e un
altro pugno di gente che non sarebbe andata da nessuna parte, in una
palestra che viveva dei fasti di un tempo ma era solo un rudere
consumato dalla ruggine.
Erano quindi così, in sospeso, qualcosa di indefinito, per
quanto finissero sempre per cercarsi e capirsi, con un senso
d’intesa quasi chimico. Ma la vita, appunto, andava avanti e
a breve Sasuke si sarebbe sposato, i suoi sarebbero stati contenti,
avrebbe avuto una famiglia, magari avrebbe anche allenato di meno in
palestra e con Naruto si sarebbe visto solo ogni tanto, per qualche
sporadica lezione o per un’uscita assieme a tutti quanti.
Naruto avrebbe voluto prenderlo per le braccia e scuoterlo con forza,
visto che ormai la loro storica differenza d’altezza si era
praticamente appianata, per poi dirgli: ehi, deficiente, fregatene dei
tuoi, di quello che la società si aspetta da te e stiamo
assieme!
Ma… no, non poteva proprio portargli via anche quello.
“Cosa ne pensi?” gli domandò Sasuke
scendendo dal ring, anche se Naruto non mancò di notare
nemmeno quella volta che lui, come sempre, claudicava leggermente con
la gamba sinistra.
L’interrogato sgranò un istante gli occhi,
guardò il soffitto nel quale ebbe tempo di notare anche
delle interessantissime ragnatele e tornò a posare gli occhi
sull’amico:
“Ehr… vediamo… domanda di
riserva?”
Si passò la mano dietro la testa, ridacchiando.
Con le braccia incrociate Sasuke notò, glaciale:
“Non mi stavi ascoltando.”
“Bah, ascoltare è una parola grossa,
sopravvalutata direi…”
Ma non finì di parlare che l’allenatore gli
afferrò la caviglia: “Smettila di straparlare e
scendi o la prossima cosa che farò sarà darti una
coltellata al piede.”
“Wow, fai paura Uchiha! Scendo, scendo.”
Borbottò Naruto, anche se piegandosi la mano di Sasuke era
risalita al polpaccio. Si guardarono un istante, fermi così,
con Naruto accovacciato e Sasuke che teneva la testa sollevata per
guardarlo, oltre le corde del ring. Attorno a loro la palestra dalle
mura alte e vuote sembrava silenziosa ma accogliente, nella sua anima
in ferro, cemento e mattoni.
Prima che però il compagno d’allenamenti potesse
muoversi, Sasuke gli spiegò:
“Sakura. Vorrebbe farti conoscere una ragazza. Voleva
organizzare un’uscita assieme.”
Naruto, che lo conosceva bene, scorse un velo di rossore e un certo
cipiglio infastidito. La cosa lo fece genuinamente sorridere,
così si mise seduto per far scivolare le gambe da oltre il
ring e passare sotto le corde con un breve salto.
Si pulì i pantaloncini, ma la sua testa era un continuo:
Che gli dico? Se mi ha
informato è perché evidentemente ci tiene. Ma che
me ne frega a me? Boh, dai, per Sasuke lo posso anche fare, che vuoi
che sia, no?
“Okay! – annuì –
Perché no?”
Per te è
così facile frequentare un’altra persona?
Avrebbe voluto replicare Sasuke ma tacque, limitandosi ad annuire con
un cenno secco della testa.
“Tsk, vedi di non farmi fare brutte figure.” Anche
se non lo pensava davvero. L’ultima cosa di cui gli importava
era proprio fare bella figura con Sakura o chiunque altro. Anzi, forse
in realtà voleva solo lo scatenarsi
dell’Apocalisse, così Naruto non sarebbe mai
uscito con quella ragazza e capito cosa significasse amare davvero
qualcuno. Perché quello stupido testone evidentemente
proprio non aveva alcuna idea a riguardo.
“Ehi, lord, se voglio posso essere un figo anch’io
– gettò i guantoni, si tolse la canotta e, dopo
averla fatta ondeggiare, la lanciò in faccia a Sasuke, per
poi ammiccare cercando di non scoppiare a ridere alla vista della sua
maglietta ancorata alla spalla del ragazzo –
allora?”
L’allenatore afferrò il vestito e lo
lanciò sul ring assieme all’asciugamano:
“Allora mi metti in testa strane idee.”
Lo sospinse contro le corde e lo baciò, sentendo poi le sue
mani su di sé, sul suo corpo, sotto la sua canotta. Non
c’erano state più parole, scherzi o insulti,
quelli li riservavano per quando dovevano riempire i vuoti delle loro
distanze. Avessero potuto continuare così per sempre, con la
palestra, con le loro abitudini, sarebbe stato fantastico ma, appunto,
la vita andava avanti e non aspettava certo le indecisioni o i dubbi
che si trascinavano dietro.
In quel preciso momento, quando si erano tolti anche i boxer e,
indifferenti al sudore o alla stanchezza, avevano finito per
trascinarsi contro il ring, ecco, in quella pessima circostanza
suonò il cellulare di Naruto.
Ma si trattava di una chiamata importante, direi addirittura
fondamentale ai fini della nostra storia: se non avesse risposto,
infatti, forse le cose sarebbero andate in maniera un po’
diversa.
Dopo aver guardato il compagno di boxe, che gli aveva lanciato
un’occhiata seguita da silenziosa ma ben chiara minaccia di
morte se Naruto avesse osato rispondere, il ragazzo sospirò
e spiegò che proprio non poteva ignorare la telefonata, pur
sentendo le sue mani strette attorno al petto e il cazzo di Sasuke che,
sostanzialmente, era lì, tra le natiche. Insomma,
decisamente una situazione non ideale per interagire al telefono.
Ma quella era la suoneria di sua mamma, la quale lo chiamava
all’incirca ogni morte di Papa e, se lo faceva, non avveniva
di certo a quell’ora. Il fatto che telefonasse presupponeva,
dunque, che se non fosse esattamente morta una qualche
autorità religiosa, si trattava comunque di un fatto
abbastanza grave.
“Devo rispondere.” Disse in un sussurro,
semplicemente perché l’eccitazione era ancora
lì e parlare non era poi così facile.
Sasuke si morse il labbro superiore e chiuse un istante gli occhi,
appoggiando la fronte sulla spalla di Naruto. Sospirò,
infine lo lasciò libero dal suo abbraccio:
“Vai, sbrigati.”
Mise una mano sul ring e rimase così, per poi passarsi le
dita tra i capelli.
Impacciato, Naruto corse verso la borsa appoggiata su una panca,
rovistò tra le mille inutilità e cartacce che si
portava dietro, infine rispose. Dopo le lamentele di sua madre,
evidentemente incapace di realizzare che suo figlio avesse qualcosa da
fare nella vita, Naruto cercò di tagliare corto, di certo
non intenzionato a dirle che, insomma, stava facendo sesso con Sasuke,
lo stesso Sasuke tanto carino che portava sempre qualcosa quando
passava a trovarli sotto le feste.
“Dimmi ma’.”
“Tuo zio, il marito di zia Mito – un sospiro
– è morto in un incidente e a quanto pare
è stato coinvolto anche un amico di famiglia. Madara
Uchiha… è parente di Sasuke, no? Dopodomani ci
sarà il funerale.”
Sì, precisamente da questa telefonata e da quella frase
comincia la vera storia di Sasuke e Naruto ma, soprattutto, della loro
relazione con i fantasmi di Madara e Hashirama.
La vita va avanti… giusto?
Sproloqui
di una zucca
Ho concluso questa
storia all'1,30 di notte di qualche giorno fa. Poche settimane addietro
(che terminone, eh?) parlavo con il mio ragazzo che mi chiedeva
un'opinione su come procedere con la stesura di una storia. Gli ho
detto che tendenzialmente quando ho una trama in mente comincio a
buttare giù il tutto, perché poi magari sul
momento mi vengono in mente delle situazioni o idee particolari e mi
piace tornare indietro per inserire dettagli aggiuntivi che le
approfondiscano o le anticipino. Gli ho fatto l'esempio di due tizi che
fanno a botte, sostenendo che sarebbe bello magari riprendere a qualche
capitolo prima e inserire una scena dei due che sono in una palestra ad
allenarsi. Così... sbam, mi è venuta in mente la
scena di questa palestra un po' lasciata andare, stile film di boxe e
redenzione americano. Da lì tutto il resto è
seguito a ruota appena mi sono trovata del tempo, e pensare che nemmeno
abuso di sostanze stupefacenti XD
Le citazioni a inizio
capitolo saranno, tranne in un caso, tratte da libri che ho letto e che
per me hanno significato qualcosa nel frangente di cui ho voluto
scrivere. Lovecraft, per esempio, è uno di questi. Le frasi
in italico a inizio storia sono incipit famosi: Paul Clifford di
Bulwer-Lytton e la Metamorfosi di Kafka.
Per quanto riguarda il
mio racconto vero e proprio... che dire, ha uno stile con accenni
più ironici del mio solito (e, chi mi conosce, sa che
effettivamente so essere molto ironica) e un approccio più
confidenziale, secondo me si adattava alla tipologia di storia.
Ho provato un sincero affetto verso tutti e quattro i personaggi
trattati, da Madara cinico e parolacciaio, passando per Hashirama solo
apparentemente pacato, senza dimenticarci di Naruto, così
vitale ma e caotico ma al tempo stesso pieno di riguardi per Sasuke.
Ah, Sasuke...in tutte le mie storie hai sempre qualche problema,
sei proprio un rottame. E pensare che io lo adoro, davvero. Specie il
Sasuke adulto della new generation anche fisicamente m'acchiappa (uno
dei pochi che sia uscito vincente dai deliri di Kishimoto nel recap
finale).
Spero che il tutto vi piaccia e che vogliate seguirmi anche per i
prossimi capitoli; se commentate giuro che non mordo, ho fatto
appositamente l'antirabbica e pure l'antitetanica, olé!
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