Il
cimitero di Saint Lake City era immerso nell’oscurità di
una calda sera estiva, illuminato dalla luce dorata delle luci delle
tombe e da quella argentea delle stelle, che erano incastonate
nell’azzurrità del cielo.
Con
passo calmo, Steven Boy camminava, seguendo una direzione precisa, un
mazzo di fresie* bianche nella mano destra. Quella serata estiva era
magnifica e aveva bisogno di solitudine, lontano dalle voci di I9.
Un
sorriso melanconico sollevò le sue labbra e, con un gesto
brusco, allontanò dal volto alcune lacrime, che avevano rigato
le sue guance. Certo, i suoi compagni gli volevano bene e lo
rispettavano, ma, in quel momento, il suo cuore richiedeva
raccoglimento e solitudine.
I
suoi amici, vedendo l’inusuale tristezza sul suo volto, gli
avrebbero fatto delle domande inopportune, a cui lui non voleva
rispondere.
Forse
Isac non gli avrebbe chiesto nulla, ma non riusciva a essere sicuro
di niente.
E
già quando aveva letto la notizia sul giornale aveva fatto
fatica a controllarsi…
Si
fermò e si appoggiò ad un cipresso, lo sguardo volto
verso il cielo stellato. In quei lunghi giorni d’attesa aveva
mantenuto una maschera di allegria che era lontana dai suoi
sentimenti.
In
quel cimitero, immerso nell’oscurità di una notte
estiva, poteva finalmente togliersi quel paramento, che era diventato
opprimente per lui.
Se
fosse ancora rimasto su I9, quel suo falso buonumore sarebbe svanito
e lui non poteva permettere che i suoi compagni lo vedessero in
quello stato.
Sospirò
e chinò la testa. Erano passate circa tre settimane e
ricordava ancora bene il terribile momento in cui aveva appreso
quella notizia che lo aveva prostrato.
Aveva
accompagnato Cyn, da tempo sofferente di dolori ai denti, dal dottor
Williams, uno dei più famosi dentisti dei quartieri spaziali.
– Ci
sarà molto da aspettare. – aveva mormorato sconfortato,
lanciando uno sguardo rapido nella sala d’aspetto. C’erano
tante persone, attirate dalla affabilità e dalla bravura di
quel medico di origini anglo – tedesche, e impegnavano il
proprio tempo ora leggendo, ora parlando.
– Già,
per fortuna ho il modo di passare il tempo. – aveva replicato
il bambino e aveva cominciato a giocare con un videogame.
Per
un po’, l’aveva osservato, poi aveva preso un giornale
dal tavolo e, con movimenti distratti, aveva cominciato a sfogliarlo.
– Non
è possibile... – aveva sussurrato, il volto pallido e le
mani tremanti. Quel giornale riportava una notizia che non avrebbe
mai voluto leggere.
Suor
Maria, la donna che, per lui, era stata una madre adottiva, era
morta, consumata da una forma assai aggressiva di cancro al cervello.
L’articolo,
pur con uno stile enfatico e magniloquente, sottolineava la sua
dolcezza verso i bambini, che quel male terribile non aveva
distrutto, anzi aveva accentuato.
Si
era irrigidito, cercando di placare il tumulto del suo cuore. In
quegli istanti, voleva restare solo col suo dolore, ma non si era
dimenticato della presenza di Cyn.
Cosa
sarebbe successo se si fosse accorto del suo improvviso turbamento?
Era
un bambino sveglio ed era sicuro che non avrebbe esitato a parlarne
col resto della squadra I9.
Non
metteva in dubbio la buonafede di Cyn, ma non gli piaceva mostrare il
lato più fragile della sua indole.
Anche
se era consapevole dell’affetto dei suoi compagni, la sua
reticenza non svaniva.
Una
mano posata sulla schiena lo aveva scosso dai suoi pensieri, come una
potente scossa elettrica.
Di
scatto, si era girato e aveva scorto Cyn, che lo fissava preoccupato.
– Stai
bene? Sei pallido. – aveva chiesto il ragazzino.
Pur
con fatica, aveva sorriso. Quello sforzo, in quegli istanti, era per
lui innaturale e doloroso, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non
mostrare la sofferenza che, in quel momento, gli stringeva l’anima
in una morsa.
– Sì,
non preoccuparti. Pensa solo alla tua visita. – aveva risposto
e, poco tempo dopo, un’infermiera era uscita, annunciando il
turno di Cyn.
Con
fatica, si rialzò e riprese il suo cammino. Quelle tre
settimane, per lui, erano state un incubo.
Aveva
vissuto con la paura di una domanda inopportuna e aveva faticato a
fingere il suo contegno gioviale e spensierato.
Nessuno,
per fortuna, gli aveva chiesto niente e questo silenzio era stato per
lui una tenue consolazione.
Nemmeno
Isac, che pure era dotato di un fine intuito, aveva mostrato di
sospettare qualcosa.
O
forse faceva finta di non accorgersene?
Ma
cosa gli importava?
Finalmente,
aveva la pace che cercava e niente l’avrebbe disturbato.
Raggiunse
una semplice lapide di forma rettangolare, sulla quale era posata la
foto di una anziana suora dai grandi occhi neri, che fissavano decisi
l’obiettivo della macchina fotografica.
Steven
si chinò e, per alcuni istanti, sfiorò il nome impresso
sul marmo candido.
Suor
Maria Alexandra del Sacro Cuore di Gesù.**
– Eccomi
qui… Spero mi perdoniate per il ritardo... – sussurrò
e tentò di sorridere, ma il suo volto si contrasse in una
maschera grottesca.
Scosse
la testa e, con delicatezza, appoggiò il mazzo di fiori
davanti alla lapide. In quell’oscura solitudine, non era
necessario mantenere un falso sorriso sul suo volto.
Nessuno
gli avrebbe fatto domande imbarazzanti, a cui non avrebbe voluto o
saputo rispondere.
– Già…
Qui non ho bisogno di mentire... – singhiozzò e,
d’istinto, si coprì gli occhi con le mani. Suor Maria
aveva la capacità di andare oltre le apparenze che, molto
spesso, portavano le persone a giudizi affrettati.
Lei
era riuscita a capire la sua anima e l’aveva salvato da dei
poliziotti che lo avevano accusato di furto e volevano portarlo in
prigione, perché, per loro, lui era un delinquente.
La
sua condizione di orfano e ragazzo di strada era un marchio di
infamia, che niente avrebbe potuto cancellare.
La
sua parola, anche se era vera, non aveva alcun valore.
–
Grazie…
Senza di voi non so dove sarei finito... – sussurrò, le
guance rigate di lacrime. Lei, dandogli fiducia, gli aveva fatto
capire che non era condannato ad un destino scritto da altri.
Lei
gli aveva insegnato che l’opinione delle persone non contava
niente, dinanzi alla verità della propria anima, e questo gli
aveva consentito di crescere e di realizzare i suoi sogni.
Tutto
quello che lui era diventato lo doveva alla sua ferma dolcezza e al
suo amore.
Quella
donna meravigliosa era stata animata, nella sua vita, dal fuoco
dell’amore verso il prossimo, che l’aveva portata a
compiere scelte durissime, pur di salvare la vita a quelli che lei,
con dolcezza di madre, chiamava «i suoi figli in Cristo».
Per
lei, i ragazzi di strada non erano perduti e, in loro, vedeva un
riflesso di Gesù.
Steven
sollevò il braccio destro e le sue dita si posarono sulla
foto. Suor Maria era morta e questo gli faceva male, ma doveva
ammettere che la morte per lei era stata una liberazione.
Sapeva
bene che il cancro, in certe, aggressive forme era una malattia
incurabile, anche per le potenti tecnologie del ventiduesimo secolo.
E
una donna come lei non meritava di soffrire senza alcuna speranza di
miglioramento.
– Spero
che siate in Paradiso... – mormorò.
Il
giovane pilota giunse le mani e cominciò a sussurrare una
preghiera. Per lui, era duro credere nell’esistenza di una
divinità buona e generosa, ma desiderava che lei potesse
godere delle gioie promesse ai cristiani virtuosi.
Qualche
minuto dopo, si alzò e, per un po’ di tempo, fissò
la foto, un sorriso malinconico sulle labbra.
– Se
potrò tornare, tornerò… State tranquilla, madre
mia. – promise e, dopo avere accostato le dita alle labbra, le
posò sulla foto. Il suo lavoro di ranger rendeva la sua
esistenza assai precaria e ogni missione poteva essere l’ultima.
Ma,
se la fortuna avesse continuato ad assisterlo, sarebbe tornato a
trovarla e a deporre fresie sulla sua tomba.
Girò
le spalle e si diresse all’uscita del cimitero. Sentiva il suo
cuore libero dal peso che, per tre settimane, lo aveva oppresso e ne
era felice.
Finalmente,
poteva tornare dai suoi amici.
Qualche
minuto dopo, il giovane raggiunse l’entrata del cimitero e,
tratta una lima dalla tasca, cominciò ad armeggiare con la
serratura.
Il
cancello d’ingresso, con un rumore secco, si aprì,
Steven uscì e, con cura, lo richiuse.
All’improvviso
si fermò e, con un gesto veloce, trasse una pistola. Gli era
parso di sentire un rumore di passi e poteva essere solo un criminale
di piccola taglia.
Ma
non gli importava.
Non
avrebbe esitato a fare fuoco in quel momento.
– Non
riconosci più nemmeno il tuo capo? – domandò una
voce roca, vibrante di benevola ironia.
Steven
sussultò e la mano gli tremò. Cosa ci faceva lui lì?
Qualche
istante dopo, da dietro un albero uscì Isac.
Steven
sbarrò gli occhi, esterefatto, e, d’istinto, abbassò
la mano che reggeva la pistola.
– Co…
Cosa fai qui? – domandò. Isac era dotato d’un
intuito assai fine, ma non poteva conoscere i segreti del suo
passato, in quanto non li aveva rivelati a nessuno.
Il
russo sospirò bonariamente. Da quando aveva accompagnato Cyn a
quella visita dal dentista, Steven era cambiato e, di questo, se ne
erano accorti tutti.
Il
suo sorriso, di solito così luminoso, aveva perduto la sua
spontaneità e sembrava una maschera di friabile gesso,
prossima alla distruzione.
Qualcosa
lo aveva sconvolto, anche se lui, testardo, non aveva mai rivelato
niente e aveva continuato a fingere allegria per tre lunghe
settimane.
Poi
Cyn aveva rivelato loro il contenuto dell’articolo da lui letto
nello studio dentistico, e, grazie a tale particolare, avevano capito
in parte l’origine del cambiamento del loro compagno.
Quella
suora era stata per Steven una persona importante e la sua morte,
dopo una terribile agonia, lo aveva scombussolato.
E
lui, con ostinato pudore, aveva cercato di nascondere il suo dolore.
–
Steven,
se non vuoi parlare, non posso costringerti, però non fare
l’errore di fingere un’allegria che non provi. –
disse Isac con tono pacato. Quelle tre settimane erano state un
incubo per tutti, in quanto si erano trovati divisi da un muro
apparentemente invalicabile.
A
fatica era riuscito a contenere l’ansia di Jotaro, Mei, Poncho
e Machiko, che volevano prendere di petto la situazione, e aveva
garantito che lui gli avrebbe parlato.
Steven
sospirò. Era stato stupido a credere di potere ingannare i
suoi compagni, che lo conoscevano bene.
– Non
vi si può nascondere niente... – constatò con
triste ironia.Eppure, quella chiarezza lo faceva stare bene.
Per
tanto, troppo tempo aveva represso il bisogno di un sostegno e le
semplici parole di Isac facevano riemergere quel desiderio assai
forte, che aveva ritenuto un segno di debolezza.
–
Grazie.
– si limitò a dire poi. Isac, ancora una volta, aveva
compreso il suo desiderio di non parlare e non lo aveva forzato.
Ed
era sicuro che avesse spiegato questo anche agli altri.
Come
aveva potuto non fidarsi di lui?
–
Andiamo
via. Gli altri ci stanno aspettando su I9. –dichiarò
Isac ed entrò nella sua auto, presto imitato dal compagno.
Due
auto, ben presto, si allontanarono dal cimitero e scomparvero nella
notte.
*le
fresie, nel linguaggio dei fiori, rappresentano la nostalgia
**
nome inventato da me, come anche la congregazione a cui la suora
appartiene. Questo background di Steven è ipotetico, basato
sulla puntata 25 di Bryger «Buon Natale, Boy!», in cui si
scopre parte del passato del personaggio (ossia l'incontro con i
poliziotti prima e la suora poi). Anche lo stato di orfano e ragazzo
di strada del personaggio è una mia ipotesi, basata sugli
abiti da lui indossati nel flash back, che sono quelli stereotipati
dei ragazzi poveri dell'800 (si vedono nel film Oliver Twist di
Roman Polansky).
La
sua poca voglia di parlare di sé si vede nella puntata, quando
Jotaro e Machiko notano la sua poca parlantina e lui risponde con
sarcasmo.
|