«No,
non Bach. Chiaramente non hai capito.
Suona te».
Sherlock
fissò Eurus.
«Me?»
«Te».
Sherlock
capì. Cominciò a suonare, gli
occhi puntati sul violino.
«Oh»
disse Eurus, maliziosa. «Hai fatto
sesso?».
Sherlock
guardò sua sorella, colpito.
***
«Non
dovresti essere qui».
Non era
nemmeno entrata nella stanza.
Neppure la punta delle sue scarpe laccate di rosso si trovava sul
palchetto di
legno del salotto. Era ancora sull’uscio, appena prima della
porta, sospesa.
Lui era in
piedi al centro della stanza, di
spalle, immobile. Si chiese se la stava aspettando. Un forte odore di
tabacco
le pungeva le narici.
«Come
fai?» sussurrò lei, a bassa voce,
appoggiando una mano sullo stipite della porta.
«Il
tuo profumo» rispose lui, secco. Poi si
voltò.
Quello che lei
sentì le ricordò la
sensazione che aveva provato, molti anni prima, facendo paracadutismo.
Cadere
senza alcun pensiero riguardo all’atterraggio, il cuore in
gola, le mani a
cercare di stringere aria, il ricordarsi che non fornisce appigli.
«Salve,
Miss Adler» disse Sherlock Holmes,
guardandola negli occhi.
I suoi ricci
erano spettinati, gli occhi
contornati da occhiaie viola. Un lembo della camicia gli fuoriusciva
dai
pantaloni. Trascurato, era questa
la
parola per descriverlo ma non fu la prima che le venne in mente.
Pensò invece che
la sua voce non rendeva giustizia nemmeno ai suoi occhi. Era come
musica.
«Ciao,
Sherlock» rispose. Entrò nella
stanza piano, un passo dietro l’altro, senza perderlo mai di
vista.
«Non
dovresti essere qui» ripeté lui.
Irene
sospirò.
«Lo
so».
Era tornata a
Londra per qualche giorno,
per affari che non si potevano raccontare a nessuno, e non aveva
resistito. D’altronde
come avrebbe potuto?
Si
avvicinò lentamente, fino quasi a
fronteggiarlo. Il profilo spigoloso di Sherlock era pallido.
«Starò
pochissimo» aggiunse.
Lui la
guardò per qualche istante, poi i
suoi occhi verdi rotearono. Per qualche lunghissimo secondo tutto
restò
immobile nel silenzio della stanza, poi Sherlock cadde
all’indietro, finendo
coricato a terra.
Irene Adler si
era immaginata di tutto: non
trovarlo in casa oppure trovarlo e non essere minimamente calcolata;
scoprirlo
in compagnia di Watson e perdere il privilegio di godere della sua
presenza da
sola; addirittura, e questo l’aveva sentito in certi punti
del suo corpo, la
vaga aspettativa di poterlo finalmente avere. Se immaginava il suo
corpo nudo
avvertiva parti di sé infiammarsi: non c’era nulla
che desiderava più di quelle
mani e quegli zigomi, quella voce nelle sue orecchie e quei ricci scuri
a
solleticarle le guance. Lo voleva così tanto
perché era l’unico uomo al mondo a
non averla chiesta, aveva concluso in mesi di riflessioni. Ammettere
invece che
in realtà le faceva male lo stomaco al solo pensiero della
sua figura era
un’ipotesi scartata fin dal principio. Il prezzo di
quell’ammissione era folle,
i debiti che l’avrebbero perseguitata insostenibili.
Per
l’occasione aveva comprato un vestito
in una boutique a Kensington, appena due ore prima. Si era tolta la
veste da
viaggio e l’aveva abbandonata nel camerino per indossare un
abito nero. Aveva
speso 250 sterline per arrivare da lui con qualcosa addosso che non
avesse
storia. Desiderava che lui la guardasse senza leggerla, voleva che lui
la
analizzasse per ricordarla meglio e non per ricostruire le sue ultime
ore.
Aveva preso il
taxi e buttato la ricevuta
perché non capisse come fosse arrivata; si era ripulita le
scarpe sulla porta,
eliminando qualsiasi traccia di polvere; aveva strofinato le mani in
una
salvietta per eliminare l’odore della tazza di
caffè che aveva stretto poche
ore prima. Si aspettava di essere accolta in una varietà di
modi che spaziavano
dal felice all’arrabbiato all’indifferente, e aveva
già fatto i conti con
ognuna di esse, decidendo che l’avrebbe accettata a
prescindere.
Per cui, con
tutta questa panoramica di
possibilità e aspettative, Irene Adler spalancò
gli occhi quando Sherlock Holmes
le svenne davanti. Lo guardò dall’alto: il
detective era a terra, la bocca semi
aperta e le palpebre socchiuse a mostrare la sclera arrossata, segno
che non
dormiva da probabilmente giorni.
Assolutamente
impreparata si abbassò,
chiedendosi che cosa si faceva in questi casi. Gli
schiaffeggiò delicatamente
le guance e gli tastò la fronte per carpirne la temperatura.
La sua pelle
diafana era fredda e umida di sudore. Fece scivolare una mano sotto i
bottoni
della camicia bianca, cercando di sentire il battito del cuore.
Irregolare. Si
ritrovò a sorridere nello scoprire che anche lui ne
possedeva uno.
«Sherlock!
Sherlock!» lo chiamò dopo
qualche istante, impaziente. «Sherlock!».
Ci volle
ancora qualche secondo perché
l’uomo sbattesse le palpebre. Irene osservò gli
occhi di Sherlock passare
dall’incoscienza alla consapevolezza, nel metterla a fuoco.
Alzò una mano a mezz’aria,
spalancandola come a voler afferrare qualcosa.
«Stai
bene?» sussurrò Irene, osservandogli
le dita affusolate, chiedendosi se avrebbe dovuto stringerle.
Sherlock fece
leva sui gomiti, sollevandosi
appena. Irene si sedette sul pavimento polveroso, scoprendo che non
gliene
poteva importare meno di sporcarsi l’abito nuovo. Lo
guardò ancora, confusa.
«Perché
sei svenuto?» chiese.
Non ci fu
bisogno che rispondesse. Come
chiamata da una forza superiore, Irene alzò gli occhi. Sul
tavolino accanto
alla poltrona c’era, su un piattino d’argento, una
siringa, un cucchiaio e un
laccio; si scoprì sorpresa. Sherlock Holmes non le sembrava
un personaggio
incline a scendere a patti coi vizi umani. Eccetto per le sigarette, ma
sapeva
che utilizzava cerotti al tabacco per sfuggire alla dipendenza.
Con tutta la
delicatezza di cui era capace
gli aprì il bottone della manica destra della camicia e,
impressionata del suo
non opporre resistenza, gli arrotolò la manica, scoprendo
una piccola macchia
rossa in prossimità della vena a sporcargli la pelle
candida, vicina ad altri
puntini più scuri, già rimarginati.
Lo
guardò di nuovo, stupita, e si stupì
ancora di più quando lesse nei suoi occhi la colpa
dell’ammissione.
Fu in
quell’istante che Irene Adler capì
due cose. La prima era che qualcosa di orribile doveva essere successo:
la
stanza disordinata, Sherlock Holmes ridotto ad un’ombra e
nulla che rimandava a
un recente passaggio di John Watson.
La seconda
cosa che Irene Adler capì fu che
la folle caduta che le era parso di fare, appena entrata nella stanza,
era
finita. Era atterrata. Lo guardò ancora, e scoprì
di essersi fatta male. Si
avvicinò di qualche centimetro, e seppe, con assoluta
certezza, che non avrebbe
mai fatto parte dei suoi buchi, esterni ed interni.
Allora
abbassò il volto e posò le labbra
sul suo braccio, schiudendole come se fosse pronta a bere.
Baciò le sue ferite
a lungo, felice che lui, immobile, non la stesse mandando via. Con una
leggera
pressione sul suo petto lo fece appoggiare nuovamente a terra, poi con
il naso
seguì il profilo prima del braccio e poi delle sue spalle,
desiderando che la
camicia non ci fosse solo per scoprirgli l’esatta angolazione
della clavicola.
Con le dita gli aprì il primo bottone, poi il secondo e poi
il terzo, mentre il
respiro di Sherlock era sempre più rado, come in attesa di
qualcosa, forse
della fine.
Quando il
petto dell’uomo fu nudo, Irene
Adler lo guardò negli occhi. Si chiese come fosse possibile
che quel colore che
aveva nelle iridi fosse reale, si domandò quale pittore gli
aveva dipinto le
labbra e con malizia avesse scelto proprio quella forma.
Incurvò appena la
testa.
«Posso?»
chiese, a bassa voce.
Sherlock non
disse nulla, limitandosi a
guardarla. Irene lo prese per un sì.
Lo
baciò, scoprendo che era anche meglio di
come immaginava. Sherlock Holmes odorava di tabacco e colonia e aveva
le labbra
secche. Con le mani gli carezzò le guance e i capelli, col
corpo cercò di
memorizzare la sensazione che stava provando, certa che non
l’avrebbe risentita
mai più.
A un certo
punto avvertì le dita dell’uomo
salire sulla sua schiena fino a raggiungere la cerniera. La
spogliò piano,
attento a respirare lentamente, non smettendo nemmeno per un istante di
guardarla. Quando Irene fu nuda lui le sondò il corpo con
gli occhi,
riconoscendolo.
Fecero
l’amore in silenzio sul pavimento
del salotto del 221b di Baker Street.
Irene gli
accarezzò le braccia e la
schiena, guardando quegli occhi e accettando ogni colpo che lui
assestava; si
impegnò al massimo nel memorizzare il più
possibile dettagli del suo corpo; lo
strinse forte per rendere quel momento più reale, calcando
con le unghie,
sperando di lasciargli i segni per farsi ricordare. A un certo punto,
da sopra
di lei, lui la guardò negli occhi con
un’intensità che la fece tremare.
Inclinò
appena la testa di lato, schiudendo le labbra e Irene capì
che la stava
implorando. Si distese a terra, stringendo i pugni. Sherlock fu rapido,
veloce,
disperato; raggiunse il suo culmine stringendole forte i fianchi,
sfiancato
dall’intensità degli ultimi minuti in cui, ne era
certa, aveva riversato tutto
il suo dolore nello sforzo di possederla.
Coricata sul
palchetto, nuda, Irene
sorrise.
«Lo
volevi anche tu» sussurrò.
Sherlock si
voltò a guardarla.
«Ti
conviene andare» rispose, afferrando la
camicia riversa sul pavimento.
Aveva ragione.
Irene Adler si rivestì in
silenzio, partendo dalla calze a rete fino ad arrivare ai capelli, che
raccolse
in uno chignon. Sherlock era seduto sulla sua poltrona, con la camicia
aperta e
i pantaloni a fasciargli i fianchi: la stava fissando.
«Qualsiasi
cosa ti sia successa -».
Sherlock la
interruppe bruscamente,
sollevando la mano sinistra a mezz’aria.
«Tu
non ne fai parte. Penso che il tuo taxi
sia appena arrivato».
Irene
lanciò un occhiata fuori dalla
finestra. Una luce che arrivava dal basso sembrava indicare la presenza
di
fari. Sospirò. Anche in questo, Sherlock Holmes aveva
ragione: non ne faceva
parte. Si domandò, distrattamente, perché si
sentisse triste. Aveva avuto
quello che voleva: lui. Eppure non bastava.
«Ho
fatto il mio lavoro, quindi prego».
Sherlock
socchiuse gli occhi.
«Scusa?»
chiese.
Irene sorrise.
«Questa
volta, sei tu che mi hai implorato»
«Non
penso proprio»
«Io
credo di sì».
Afferrò
la pochette color rubino e si voltò
verso l’uscita, scegliendo volontariamente di non guardarlo.
«Per
quando vorrai di nuovo essere trovato,
conosci il mio numero. Arrivederci, Sherlock Holmes».
Uscì
dalla porta senza aspettare una
risposta che, ne era certa, non sarebbe arrivata.
***
Il
cellulare si illuminò nella penombra della notte.
Si girò su se stessa, impigliandosi nelle lenzuola fresche.
Allungò
la mano e afferrò il cellulare, appoggiato sul comodino.
Il messaggio
appena arrivato era di un uomo
conosciuto la settimana prima durante una mostra; le stava chiedendo di
raggiungerla. La donna bloccò il cellulare e lo
riappoggiò sul tavolino di legno. Era tarda notte e
probabilmente in un altro momento sarebbe andata, ma ora
non ne aveva alcuna voglia. Si voltò nuovamente su se
stessa, seguendo con gli
occhi le increspature della luce della luna sulla parete.
Pensò
distrattamente al fatto che non aveva abbassato le tende, cosciente che
la
mattina dopo si sarebbe svegliata presto, illuminata dal sole freddo
che
sporcava l’acqua dell’oceano Atlantico. Poco
importava, non aveva voglia di
alzarsi neppure per fare quel semplice movimento.
Continuò
a fissare il riflesso della luna,
sbattendo le palpebre sempre più debolmente, vicina al
sonno. Un fascio di luce
artificiale illuminò la stanza quando ormai era quasi tra le
braccia di Morfeo.
Si
voltò di nuovo, chiedendosi quanto
doveva essere forte la voglia di vederla di quell’uomo.
Sbloccò
il cellulare e non appena lo fece
sentì tutta la stanchezza abbandonarla. Improvvisamente
vigile e attenta, lesse
il messaggio impresso sullo schermo.
Sai
dove trovarmi - SH.
Si
guardò la mano che stringeva il
telefonino. Stava tremando. Irene Adler sorrise.
Ci
ho provato anche io, dopo una totale esposizione
alla serie e una letale attrazione nata verso questi due –
Irene e Sherlock.
Una
piccola notazione, anche se penso sia
ovvio: la parte centrale è ambientata durante la dipendenza
del nostro
detective e la rottura del rapporto con John, a seguito della morte di
Mary.
Spero
sia di vostro gradimento.
Wawes.
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