Il Signore dei Sogni
Brian
Kinney era appoggiato alla balaustra di un piccolo ponte di pietra,
guardava lo scorrere del canale sotto di sé, poi alzò lo
sguardo al labirinto di vicoli, anfratti, scale e rialzi che lo
circondava.
Era a Venezia, concluse. E non aveva la più pallida idea di come diavolo
aveva fatto ad arrivare fin lì.
Si grattò la testa, indeciso, e notò i pantaloni
di pelle nera che indossava e la camicia tigrata che gli fasciava il
busto. Niente male, pensò. Aveva visto qualcosa del genere
nell’ultima collezione di Roberto Cavalli... peccato che, con quella miseria che lo pagavano nell’agenzia pubblicitaria
doveva faceva tirocinio, non poteva permettersi neanche un polsino di
quella favolosa camicia.
Lo splendore di quel costoso straccetto illuminò la sua
mente.
Vide uscire da una porticina minuscola un ragazzo che correva. Brian lo
chiamò, ma questi non si fermò ne
rallentò, quindi l’uomo lo rincorse per le calli
veneziane. Lo raggiunse, lo afferrò per un braccio e lo
costrinse a voltarsi. Indossava una maschera, che gli
copriva la parte superiore del volto, lasciando scoperta la bocca. La
bocca più bella che Brian avesse mai visto. Prima ancora di
pensare di farlo, lo stava già stringendo a sé e lo divorava
in un bacio appassionato. Dopo un attimo di sorpresa, la sua giovane
preda rispose al suo bacio, buttandogli le braccia al collo.
"Chi sei?”, chiese il giovane.
“Sono il Cattivo”, rispose Brian e riprese a
baciarlo. Quando gli tolse la maschera, chiarissimi occhi incazzati
si levarono su di lui, e il ragazzino si liberò dal suo abbraccio, fremente di rabbia.
“Tu non sei tra gli invitati alla
festa…” disse il ragazzo piccato,
“perché sei qui? Come puoi essere qui?”
“Questo è esattamente il mio punto”,
concesse Brian magnanimo, “non che questo posto non abbia
qualche attrattiva…” e dicendolo
accarezzò collo sguardo il corpo glabro e molto poco vestito
del suo nuovo incontro, “ma Venezia è ormai
inflazionata come meta turistica.. anche se onirica”.
Il ragazzo gli voltò la schiena e se ne andò
tutto impettito.
“Tornatene da dove sei venuto”, gli urlò
poi, “questo posto non è per te!”
Brian gli rispose col suo bel sorriso, e poi lo seguì nel
palazzo illuminato in cui l’aveva visto entrare.
Era una festa in maschera. Sembrava il set di un film tanto ogni
particolare era decadente e ricercato, dalle maschere e i costumi
all’architettura dell’immenso salone, gocce di luce
pendevano dal soffitto e il flebile tremolio di mille candele dominava
la stanza, inebriata nella musica di Mozart: chi aveva messo su quel
teatrino aveva senza dubbio un certo senso estetico ma… era ordinario. Non
originale, l’imitazione di buoni maestri, ma non espressione
di una personalità definita o completamente formata.
Brian decise però che il ragazzino aveva gusto, poteva
migliorare, così come poteva involvere nello scontato
ovviamente. Vagò collo sguardo alla ricerca di una zazzera
bionda e lo vide dall’altra parte della sala, circondato da
una piccola corte, mentre Casanova gli porgeva da bere.
Attraversò la sala per raggiungerlo, il suo abbigliamento
era decisamente fuori tema, ma non lo sarebbe stato per molto.
“Questo parco giochi è piuttosto
dozzinale”, gli disse sorridendo. Il volto del ragazzo si
congelò, la musica cessò, decine e decine di
occhi puntarono Brian.
“Ma infondo non è che la fantasia di un
bambino”.
Il ragazzo si alzò dalla sua poltrona di velluto rosso e
infuriato si piazzò di fronte a Brian.
“Io non sono un bambino!”, disse. “Ho 13
anni”.
In precedenza gli aveva intimato di andarsene, ma adesso Justin era
roso dal tarlo del dubbio. Si guardò intorno,
cercò di vedere le sue immagini cogli occhi di un
estraneo… ed effettivamente un po’ scontate lo
erano. Del resto, non era mai stato a Venezia e tutto quello che sapeva
della laguna e delle feste in maschera era dovuto ai film.
Guardò quello straniero che non avrebbe dovuto essere
lì, era più grande di lui, aveva sicuramente
visto più cose, fatto più cose: agli occhi di un
adulto, il suo mondo doveva apparire stupido, superficiale, vuoto.
Justin si rabbuiò: il suo universo fantastico era
l’unica cosa che rendeva la sua vita sopportabile, era
l’unica cosa che lo rendeva speciale, se la sua fantasia era
soltanto pattume, allora che restava di lui? Sentì le
lacrime pungergli gli occhi, ma si sforzò di trattenerle: non
voleva farsi veder piangere dal quel brutto e cattivo signor Disdegno.
“Non piangere bambino”, gli disse Brian, poi lo
prese per mano e lo scenario cambiò.
Justin si guardò intorno, l’oscurità
era predominante, odore di fumo, alcol e umanità, pullulare
di corpi invasati e posseduti dalla musica tecno.
“Benvenuto nel mio regno”, gli disse Brian,
sorridendo senza allegria.
Brian sparì in una stanza laterale, Justin vide che
c’era un cartello con scritto Backroom e, per quanto non
sapesse cosa fosse una Backroom, il buon senso gli suggerì
di non seguirlo là dentro. Deglutendo nervosamente, si
guardò intorno. In mezzo alla sala da ballo, colla
moltitudine intorno che lo confondeva, si sentì
terribilmente solo.
Avanzava tra le ombre, travolto dalle immagini mai sognate di tutti
quei corpi di uomini mezzi nudi, impegnati in una danza scatenata, come
quella di un’antica tribù, che pur mescolata
all’interno della società, resta comunque
straniera, identificata ed identificante, furiosa di passioni
brucianti, pericolosa, forte.
Justin si rese conto che il suo cuore aveva aumentato i battiti, si
sentiva pulsare la vena del collo, e si allentò il colletto
della camicia, in cerca d’aria. Non respirava bene, aveva un
macigno nel petto che gli bloccava il respiro, non aveva mai provato
prima quella sensazione, e solo quando vide le sue mani tremare
capì cos’era.
Justin Taylor, che nella realtà non l’aveva ma
sperimentata, scoprì nel mondo del sogno cos’era
la paura.
Si appoggiò stremato ad una colonna mentre, ad occhi
spalancati e ansante, guardava quegli uomini immensi ballare sul cubo,
il loro corpo perfetto completamente esposto, lucidi muscoli gonfi, e
le mani nervose e la piega del collo, invitante, e la pelle glabra da
baciare, da mordere, da succhiare e quell’odore che lo
invadeva, era forse quello che gli chiudeva la gola, era
l’odore del sesso, caldo, pulsante, vischioso, avido.
Fece l’unica cosa che poteva per non essere sopraffatto:
scappò.
Brian lo ritrovò, dopo parecchio tempo, nel vicolo dietro il
locale, seduto per terra, solitario ed imbronciato. Justin lo
guardò pieno di rancore, gli occhi bagnati di lacrime eppure
deciso a non arrendersi.
“Un giorno…” gli
disse”… un giorno tu e io c’incontreremo
ancora”.
Brian si mise seduto di fianco a lui, la testa pigramente appoggiata
alla saracinesca abbassata del negozio alle loro spalle, e in bocca una
sigaretta dall’odore particolarmente acre.
“Tu credi che c’incontreremo ancora? Già
è un’anomalia che ci siamo incontrati adesso. Non
ho ancora capito chi dei due abbia invaso i sogni
dell’altro”.
Justin parve allarmato, non aveva pensato che nella realtà
loro due potevano vivere ai capi opposti del globo, e poi la memoria dei
suoi viaggi era sempre incompleta: anche incontrando
quell’uomo nella realtà, avrebbe potuto non
riconoscerlo.
Calde lacrime cominciarono a segnargli le guance.
“Potrei non riconoscerti”, disse, cercando di
mantenere il controllo e fallendo miseramente.
Brian guardò quel dolce volto infantile, la zazzera bionda e
l’unica parola che gli venne in mente era
“adorabile”. Gli accarezzò bonariamente
la testa.
“Io ti riconoscerò. Sono il Signore dei Sogni,
sai? La mia volontà è forte, la mia memoria
inossidabile, il mio potere immenso. Quando sarai diventato
un po’ più grande”, gli disse con voce
falsamente dolce, “ti farò il culo,
sunshine”.
Justin tirò su col naso.
“Sei un bastardo”, gli disse.” Magari
sarò io a fare il culo a te”.
Brian uscì dal Babylon una sera uguale a mille altre. I suoi
amici erano con lui e il mondo era ai suoi piedi. Il solito
insomma… poi lo vide. Il ragazzo biondo, fantasia gay che
cammina, appoggiato a quel lampione con l’aria languida e
sperduta a un tempo.
Era assolutamente perfetto. Brian non aveva gusti difficili in fatto di
uomini, fintanto che erano belli, ma da qualche anno aveva una
predilezione per i cuccioli biondi, dagli occhi splendenti e la
bocca… quella bocca… era la realizzazione di un
sogno.
Si avvicinò rapace alla sua preda, dimentico di tutto il
resto. Quel ragazzino era così fottutamente il suo tipo che,
adesso che l’aveva trovato, gli avrebbe dato la caccia fino
in capo al mondo.
|