Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno
scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera dei caratteri di
queste persone, né offenderle in alcun modo. In particolare, i frammenti del
racconto legati all’infanzia di Dominic Sherwood sono all 80 % frutto della mia
immaginazione, mescolati ai pochi dettagli sul suo passato – e sulla sua vita
personale – che sono riuscita a scovare in rete.
“Oh,
sì, il passato può fare male. Ma a mio modo di vedere dal passato puoi scappare
oppure imparare qualcosa.”
Rafiki. Il Re
Leone
Remember who
you are;
Il
suono della risata di Matt rimbombò nell’Hair and Make Up Trailer, ravvivando
le postazioni vuote.
Dom
scoppiò a ridere a sua volta, riponendo il piega-ciglia di Em sul tavolino
dedicato ai suoi trucchi.
“Ce
la vedi Em a minacciare un uomo con questo in mano?” commentò, prima di
lasciarsi cadere sulla sua sedia, di fronte allo specchio. Si era tolto la
maglietta per liberarsi delle rune, ma fino a quel momento aveva preferito
bighellonare qua e là per il trailer e strimpellare con la chitarra. Matt si
era impegnato un po’ di più – aveva rimosso la maggior parte delle rune sulle
braccia – ma anche lui se la stava prendendo comoda. I loro colleghi
avevano finito di struccarsi almeno mezz’ora prima e questo, unito alla
stanchezza della giornata, avrebbe dovuto motivarli a fare più in fretta.
Tuttavia, il fatto che fossero soli e che le riprese fossero finite per quel
giorno non faceva altro che alimentare la loro pigrizia, permettendo loro di
scherzare e fare gli stupidi senza avere addosso il peso del poco tempo a
disposizione – o lo sguardo seccato del regista.
“Non so quale delle due immagini mi spaventi di
più” commentò Matt, facendo aderire una striscia di scotch sul collo, sopra
alla runa di blocco. “Em che dimena la frusta o Em che brandisce un
piega-ciglia?”
“La frusta è più allettante, dai” ribatté Dom, eliminando
con una salvietta gli strati di trucco che gli ricoprivano i tatuaggi.
Righe ondulate, lettere e tratteggi colorati
tornarono a disegnare le sue braccia, sostituendo le rune nere degli
Shadowhunters.
Matt osservò attento quell’operazione – le
sopracciglia aggrottate e le dita impegnate a districare un batuffolo di cotone
dal resto della matassa.
Un sorriso piegò appena le labbra di Dom.
“Sei ancora a Toronto o stai volando sul pianeta
Daddario?” chiese, incuriosito dalla sua espressione meditabonda. “Hai la
stessa faccia che fai quando guardi un bel programma di cucina.”
Matt sembrava ancora
assorto, ma le parole di Dom gli strapparono un sorriso.
“Quel tatuaggio” esordì
infine, indicando col mento il disegno che occupava l’avambraccio sinistro di
Dom.
Il collega glielo
mostrò.
“Ti piace?”
“È permanente” commentò Matt, strofinandosi
il collo con il cotone.
Dom fece una smorfia, fingendosi
impressionato.
“Sul serio? Non ne avevo idea, te l’ha
detto google?”
“Roba che non si può cancellare” proseguì
Matt, ignorando la sua provocazione. Inclinò la testa per studiare il disegno
sul braccio di Dom, cercando di comprenderne il significato.
“E se un giorno te ne stufassi?”
insistette, riprendendo a grattarsi via la runa dal collo. “Ci si stanca di tutto,
prima o poi. Perfino delle persone.”
Dom scosse la testa e diede una scrollata
di spalle, prima di appallottolare la salvietta e fare canestro nel cestino.
“Non posso cancellarli” replicò,
sfilandogli il cotone di mano per aiutarlo. “E non voglio nemmeno: ogni
tatuaggio è parte della mia storia. Li ho scelti per raccontare pezzi del mio
passato e ognuno di questi momenti mi ha insegnato qualcosa; non avrebbe senso
cancellarli.”
Spinse di lato la testa dell’amico, per
sfregargli via l’ultimo tratto di runa. Matt lo lasciò fare; il sorrisetto con
cui lo guardava non era sufficiente a mascherare il cinismo nel suo sguardo.
“Non mi credi?” insistette Dom,
lanciandogli in faccia il cotone. “Scegline uno” propose, mostrandogli le
braccia: i tatuaggi erano ormai visibili, liberi da rune e strati di trucco. “Uno
qualsiasi.”
Matt li studiò per qualche istante, chiaramente
divertito dalla sfida implicita lanciatagli da Dom.
“Qual è stato il primo?” chiese,
spostandogli un braccio per studiare il Taijitu che aveva sul fianco.
Dom appoggiò un piede sulla sedia e si
scoprì la gamba.
“Avevo appena compiuto diciott’anni”
spiegò, indicando un punto all’interno, poco sopra la caviglia. “Pensa, non ero
nemmeno ubriaco.”
“Che cos’è? Una stampella?”
Matt lo esaminò con sguardo perplesso –
un accenno di sorriso sulle labbra a suggerire che lo stesse prendendo in giro.
“Fottiti.”
Dom sorrise a sua volta, prima di
riprendere a strappare pezzi di scotch.
“È il bastone di Rafiki. Te lo ricordi il
Re Leone, vero?” chiese, armeggiando per cancellarsi dal fianco la runa parabatai.
“Ricordo quanto mi hai stressato prima
che mi convincessi a guardarlo con te” replicò Matt. “E che abbiamo mangiato i pop-corn.
Pessimi, tra l’altro. Non sai cucinarli.”
“I pop-corn non si cucinano. Si infilano
nel microonde e si aspetta che scoppino.”
“Preparare i pop-corn è un’arte”
s’impuntò Matt, con sguardo sdegnata. “Prima di tutto è necessario procurarsi…”
“… Una persona in grado di sopportarti”
tagliò corto Dom, tirando lo scotch con fin troppa enfasi. “… Specialmente
quando attacchi a parlare di cibo.”
“Questa è chiaramente ingratitudine”
osservò Matt, fingendosi piccato. “Devo ricordarti che, ogni volta che cucino
per il cast, tre quarti delle cose che preparo finiscono nel tuo stomaco?”
Dom si strinse nelle spalle.
“Lo stomaco di Kat ha le dimensioni di
quello di uno gnomo, devo mangiare anche per lei.”
“Tornando alla stampella…”
Matt lasciò cadere la digressione sul
cibo, indicando la gamba di Dom.
“… Mi hai promesso la sua storia.”
Dom tracciò con il dito i contorni del
bastone di Rafiki.
“È una storia molto vecchia, in realtà”
ammise.
“Quanto vecchia?”
“Vent’anni o giù di lì. Non ne ho parlato
con molte persone, qui.”
Non ebbe bisogno di spiegare a cosa
stesse alludendo con quella frase. Matt lo conosceva abbastanza bene da sapere
che c’erano degli aspetti di lui che preferiva custodire nel Kent, fra i
discorsi e i ricordi della sua famiglia e dei suoi amici d’infanzia: era molto
legato al suo passato e ne parlava con un riguardo che dava da pensare, se
messo in confronto alla schiettezza disarmante con cui discuteva di qualsiasi
altra cosa.
“Voglio ascoltarla” si sorprese a
dichiarare, scordandosi di inibire la curiosità che lo caratterizzava. Non si
era mai sforzato di provare interesse per le persone – per qualunque persona –
e nonostante quell’aspetto di lui si fosse spesso rivelato utile, cercava
spesso di trattenerla, per non far sentire gli altri a disagio.
“Se a te va di raccontarla” aggiunse,
cercando una risposta nel suo sguardo.
Dom smise di percorrere il tatuaggio con
il dito e alzò la testa per guardarlo.
“Avrò avuto cinque anni” ricordò – il
volto privo di qualsiasi esitazione. “Allora c’eravamo solo io e Seb. E i miei
genitori discutevano in continuazione…”
*
Le noti accattivanti di “Voglio
diventar presto un re” rallegravano la stanza, tentando di mascherare le
voci nervose in sottofondo.
“Voglio di-ven-tar presto un re!”
Il canticchiare di un bambino biondo
faceva eco a quello di Simba – ogni parola scandita dai movimenti esagitati
della sua spada di legno.
“La salverò io la principessa!”
Dominic balzò sul divano e fendette
l’aria con la spada, mancando per un pelo le mani del fratello minore.
Sebastian, che stava facendo dondolare annoiato i piedi oltre il bracciolo, le
ritrasse subito, e con quella scusa se ne portò una in bocca con soddisfazione. Stava cercando di seguire il cartone animato, ma era costretto a muovere la testa di
continuo, per riuscire a vedere il televisore al di là dei salti e delle corse
del fratello maggiore.
“Adesso uccido Scar, sta’ a vedere!”
Dominic prese la rincorsa e tentò di balzare
addosso al fratello, ma uno dei suoi piedi s’impigliò nel copri-divano e il
bambino rovinò a terra, trascinandosi dietro diversi cuscini.
Sebastian si aggrappò al bracciolo per
non cadere.
“Dai, Dommy!” brontolò, senza distogliere
lo sguardo dal televisore. Dominic si alzò all’improvviso, bloccandogli la
visuale, e Sebastian risolse il problema buttandosi dall’altra parte del
divano. “Voglio vedere il cartone!”
Le voci dei genitori aumentarono
d’intensità da qualche parte, oltre la porta del soggiorno. Dom scoccò
un’occhiata nervosa al fratellino e corse ad alzare il volume della TV.
“Va bene, però puoi fare Scar
intanto?” chiese, arrampicandosi di nuovo sul divano. “Perché sennò da chi la
salvo la principessa?”
“Ma non ci sono le principesse, qui! Solo
i leoni! E gli elefanti. E i leoni femmina che si chiamano leonesse e poi c’è
anche Pumba, che è tipo un maiale, ma ha le zanne!”
“Allora io salvo Pumba!” decise Dom,
puntandogli contro la spada. “I miei muscoli sono più forti delle sue zanne.
Poi divento re, se lo salvo!”
Girò su se stesso, inseguendo il ritmo della
canzone di Simba, e si lanciò sul fratello.
Sebastian cercò di scrollarselo di dosso,
ma quando intuì che l’anno e mezzo di differenza assottigliava le sue
possibilità di successo, contorse il volto in una smorfia offesa.
“Mamma!” gridò - gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime.
Dominic si affrettò a ad abbracciarlo e a
pettinargli i capelli con la mano, deciso a non dare alla mamma ragioni per
sgridarlo.
Sebastian lo allontanò con gentilezza e ripresero
entrambi a guardare il cartone, dimenticando il breve screzio. Nessuno dei due,
tuttavia, riuscì a fare altrettanto con le grida dei genitori – lontane dal
soggiorno, ma perfettamente distinguibili.
Dominic si mise a giocherellare, nervoso,
con il cordino dei pantaloni: la mamma e il papà gridavano spesso così, ma quella
volta la voce della mamma sembrava davvero arrabbiata. Aveva voglia di andare
in cucina per chiedere a tutti e due di smetterla, ma era anche spaventato: non
l’aveva mai detto a nessuno, ma non era un bambino particolarmente coraggioso.
Non era come Simba, che giocava a saltare e a rincorrersi con Nala in mezzo
agli animali imbizzarriti. E di certo non sarebbe mai andato a un Cimitero
degli Elefanti, nemmeno se assieme a lui ci fosse stato il suo amico Simon.
Ma la mamma e il papà non erano
pericolosi… Erano solo la mamma e il papà.
Scoccò un’ultima occhiata incerta al
fratellino e balzò giù dal divano. La voce spavalda del piccolo Simba e quella
roca di Scar lo inseguirono fuori dal soggiorno e lungo il corridoio,
difendendolo dalle urla dei genitori.
Quando raggiunse la cucina, tuttavia, i
suoni del cartone sembrarono spegnersi tutti insieme. Le sue orecchie erano
piene della voce ferma, ma incrinata dal pianto, della sua mamma, e da quella
supplichevole del suo papà.
“Mary, per favore…”
Il signor Sherwood non gridava più, ma
aveva qualcosa di strano nello sguardo e Dom ne rimase turbato. Sembrava
triste, come quella volta in cui il nonno si era sentito male e avevano dovuto
portarlo di corsa in ospedale.
Anche la mamma era triste, ma lei
sembrava anche arrabbiata. Il senso di colpa permeò lo sguardo di entrambi i
genitori quando Dominic s’intrufolò, esitante, in mezzo a loro.
“Ehi, Dommy boy…”
Il padre si accovacciò di fronte a lui e
tentò di sorridergli, ma la sua voce era talmente preoccupata che Dom non
riuscì a sentirsi rassicurato.
“È tutto a posto… I tuoi vecchi
bisticciano un po’ come sempre. Perché non torni di là con Sebby?”
“Perché la mamma piange?”
Solo in quel momento, Dominic notò
qualcosa di nero – e con le ruote – dietro la schiena del papà: una valigia.
Allungò il collo per guardare meglio, ma la madre lo avvicinò a sé, posandogli
una mano sul petto.
“Papà va via per qualche giorno” mormorò con voce tremula, ma decisa.
“Mary, non fare così…”
Gli occhi del signor Sherwood erano
bagnati come quelli della mamma, ma Dominic era convinto che non stesse
piangendo: i maschi non piangono mai, si disse scuotendo la testa. Loro
combattono i mostri e vincono le guerre e salvano le principesse, e se proprio
devono piangere lo fanno nella loro stanza, quando non li vede nessuno. Ma suo
padre aveva gli occhi blu come l’acqua e quindi forse era per quello che
sembravano bagnati.
“Dove vai, papà?”
Dominic non voleva lasciare l’abbraccio
della mamma, ma non voleva nemmeno che il papà se ne andasse.
Sgusciò via dalla sua presa e si avvicinò
all’uomo. Il grido di Sebastian ruppe il silenzio innaturale che si era creato
intorno a loro.
“Il papà di Simba è caduto!” annunciò con
una vocetta preoccupata.
“Torno presto, Dommy.”
Il signor Sherwood arruffò i capelli del
figlio e lo strinse a sé in maniera un po’ rozza, appoggiando la guancia alla
sua testa: sapeva di vino e di grasso per motori.
Non era esattamente un buon profumo, ma a
Dominic piaceva. Ogni volta che sentiva quegli odori pensava al suo papà.
“Presto” promise ancora, baciandogli la
testa e voltandosi in fretta, per prendere la valigia.
Il volume della TV tornò ad alzarsi,
nella testa di Dominic, e le urla di Simba inondarono le sue orecchie.
“Papà!” gridava il leoncino, con voce preoccupata. “Papà?”
La porta d’ingresso si aprì, i passi di
Sebastian riempirono il corridoio e i singhiozzi della mamma esplosero
all’improvviso.
“Papà!”
Dominic attraversò la cucina di corsa, ma
la porta si chiuse di fronte a lui.
“Papà, torna indietro!”
Dal soggiorno, appena attutiti,
provenivano i lamenti di Simba: Mufasa non rispondeva più.
E il papà… Il papà nemmeno.
*
A Dom faceva male la pancia.
Non proprio la pancia, ma un po’ più su,
verso il petto. Anzi, no, il collo.
Pensandoci meglio gli faceva male tutto, quella sera.
Perfino gli occhi gli pungevano, eppure non aveva passato troppo tempo di
fronte al televisore: non aveva nemmeno finito di vedere il Re Leone.
Né lui né Sebastian ne avevano avuto
voglia e così la mamma aveva spento il cartone e riposto la
videocassetta.
Non l’avrebbe mai continuato, si disse,
scuotendo la testa: non gli andava. Non avrebbe mai saputo dove stesse andando
Simba, mentre scappava via dalla Rupe dei Re.
Dominic aprì con cautela la porta della
stanza dei genitori – i piedi scalzi che continuavano a inciampare nella
moquette.
“Papà?” chiamò, posando una mano sulla
trapunta.
Un movimento fra le coperte giunse in
risposta al suo richiamo, ma non proveniva dalla parte del materasso di papà:
quella era vuota.
La lampada sul comodino della mamma si
accese.
“Vieni qui, Dommy.”
La signora Sherwood si alzò a sedere e
Dominic si arrampicò sul letto di fianco a lei.
“Dov’è papà?”
La madre gli posò un bacio sui capelli.
“Papà non torna, Dominic.”
Il mal di pancia – e al petto, e alla
gola – aumentò.
“Per quanto?”
“Non lo so.”
Dominic non capiva. Sua madre era una
maestra e le maestre sapevano sempre tutto. Perché non aveva idea di quando
sarebbe tornato papà?
“Ma non è morto, vero?”
“No, certo che no!”
Dominic si strinse più forte alla madre e
arricciò le dita intorno a un lembo del suo pigiama. La donna gli sollevò il
mento con delicatezza e lo guardò negli occhi.
“Stai bene, tesoro?”
Il bambino pensò al mal di pancia, alla
sensazione strana alla gola e agli occhi che bruciavano.
“Sì” rispose deciso.
La mamma gli accarezzò una guancia.
“Lo sai, Dom, ogni tanto capita a tutti di
stare male. Anche agli eroi della Disney” rivelò, passando una mano fra i
capelli arruffati del figlio. “Qualche volta si è tristi, o si ha paura, ma va
bene così.”
“A me invece non capita” s’impuntò il
bambino, mostrandole i bicipiti. “Sono forte: guarda che muscoli!”
La mamma sorrise e glieli tastò.
“Ti ricordi Simba? Anche lui ha pianto
per il suo papà” riprese il discorso, sussurrando contro i suoi capelli.
Dominic se lo ricordava bene, quel
momento. Il groppo alla gola si fece più intenso e le labbra gli tremarono, ma
il bambino scosse la testa.
“Io non voglio piangere” dichiarò,
voltando la testa di scatto: un rumore di passetti affrettati tornò a riempire
il corridoio. “Poi Sebastian mi vede” aggiunse in un sussurro, quando il
fratello minore fece capolino dalla porta.
“Che succede, tesoro?” domandò la donna,
rivolta al figlio minore.
Sebastian si avvicinò al letto
tentennando, ancora insonnolito.
“Quando torna papà?” chiese, prima di
lasciarsi sfuggire uno sbadiglio.
Lo sguardo della madre tornò a
rabbuiarsi.
“Papà è andato a stare con i nonni per un
po’” spiegò, prima di tornare a voltarsi verso Dominic. “Ma lo vedrete presto.
Promesso.”
Dom corrucciò la fronte, per nulla
soddisfatto da quella risposta. Sebastian reagì diversamente; sembrò riflettere
per qualche istante, prima di stropicciarsi gli occhi e arrampicarsi sul
lettone.
“Allora posso dormirci io, con te?”
chiese, rannicchiandosi al suo fianco. Quando notò l’espressione contrariata
del fratello maggiore sorrise e gli prese una mano.
“Puoi dormirci anche tu, se vuoi. Papà è
grande e noi siamo piccoli: ci stiamo!”
Dominic rimase in silenzio per qualche
istante, indeciso su cosa rispondere: avrebbe voluto dire che quello era il
posto del loro papà e che non voleva starci lui, perché gli mancava e aveva
solo voglia che tornasse a casa.
Invece sorrise e si buttò sul cuscino di
fianco a Sebastian, combattendo contro il mal di pancia.
“Lo sai, mamma…” esclamò, tornando a
gonfiare i bicipiti. “…Siccome sono forte, posso prendere in braccio Sebby,
così insieme siamo alti come il papà e allora a te sembrerà che papà è qui che
dorme.”
La mamma sembrò triste per qualche
istante, ma poi scoppiò a ridere e quel suono scacciò via un po’ del groppo
alla gola che sentiva Dom.
Si addormentarono abbracciati e
riposarono per qualche ora, entrando e uscendo da sogni agitati.
Quando, verso le prime ore dell’alba,
Sebastian chiese alla madre l’ennesimo bicchiere d’acqua, la signora Sherwood
si liberò delle coperte.
“Venite con me, scimmiette” esclamò,
mentre i bambini le saltavano in braccio. “Abbiamo un cartone da finire.”
*
L’odore di latte e biscotti riempiva il
soggiorno, mescolato alle voci trasmesse dal televisore.
Sebastian e Dominic occupavano i due lati
del divano – le teste appoggiate al grembo della mamma e gli occhi incollati al
televisore.
“Ricordati chi sei.”
La voce profonda di Mufasa vibrò nelle
orecchie e nel petto di Dom, andando a stuzzicare quel groppo che sentiva in
gola e che non era ancora riuscito a scacciare.
“Tu sei mio figlio. L’unico vero Re.
Ricordati chi sei.”
Il muso del leone incominciò a
dissolversi, sparendo fra le nuvole, e Simba provò a rincorrerlo, affatto
pronto a lasciar andare suo padre una seconda volta.
“No, ti prego!”
Dominic aveva voglia di correre con lui.
Voleva alzarsi, scattare verso la porta della cucina, precipitarsi in cortile e
gridare il nome del suo papà.
Non lo fece, però: il papà era andato via
con la valigia. Forse sarebbe stato via più di un mese. Forse non sarebbe
tornato mai più.
“Non lasciarmi! Padre!”
Qualcosa di bagnato colò lungo le guance
del bambino. Dominic scacciò le lacrime con un gesto brusco della mano, prima
che Sebastian potesse vederle.
Sollevò tuttavia la testa per incrociare
lo sguardo della madre. La signora Sherwood gli sorrise, facendo scorrere le
dita fra i suoi capelli.
“Vieni qui…” sussurrò poi, aiutandolo a
tirarsi su per abbracciarlo. “…Dimmelo in un orecchio. Sebby non sentirà.”
Dominic si lasciò cullare dal tepore e
dalle carezze della madre per qualche istante.
“Mi manca papà” mormorò infine nel suo
orecchio, tirando su col naso. “E a Simba manca Mufasa.”
La mamma gli baciò una tempia e annuì, la
guancia appoggiata contro i suoi capelli.
“Va tutto bene…” lo rassicurò, riprendo
ad accarezzare i capelli di Sebastian. “… Essere tristi è brutto, ma prima o
poi tutte le cose brutte vanno via per lasciare il posto a quelle belle.
Vedrai, scommetto che domani accadranno un mucchio di cose divertenti.”
“Forse domani divento un principe azzurro...”
azzardò il bambino, strofinando la guancia umida contro la spalla della madre.
“... Secondo te posso diventare un principe? O un re come Simba!”
“Puoi diventare tutto quello che vuoi”
promise la mamma.
Dominic sorrise appena, tirando su col
naso. Le lacrime c’erano ancora, così come con la tristezza nel suo sguardo. Ma
il discorso riuscì a distrarlo quel tanto che bastava a fargli dimenticare di
doverle nascondere.
“Anche un supereroe che combatte i
mostri?” chiese, dando un pugno al vuoto di fronte a sé. “Con i poteri e con la
spada?”
“Uffa con questa spada!” intervenne
Sebastian con voce insonnolita. “Quella finta me la tiri sempre in testa!”
“Sarai il migliore supereroe di sempre”
affermò ancora la signora Sherwood, arruffandogli i capelli. “Ma non tirare più
nulla addosso a tuo fratello.”
Dominic promise con fare solenne,
posandosi una mano sul petto.
Tornò a seguire il cartone e rise di
gusto, quando Rafiki colpì Simba con il suo bastone.
“Ahi! Che male, perché mi hai colpito?”
“Non ha importanza! Ormai è passato!”
“Sì, ma continua a fare male!”
“Mamma, hai visto?”
Sebastian tirò la manica del pigiama
della mamma, indicando il televisore.
“Dommy non è mica come Simba, è come
Rafiki! Anche lui tira le cose in testa agli altri!”
“Ma che dici!” s’inalberò il fratello
maggiore, dandogli un colpetto sulla nuca. “Io sono più bello di Rafiki: come
Simba! Rafiki è brutto! Vero che sono bello, mamma?”
Sorrise furbetto alla donna ma, quando si
accorse del velo di tristezza che le copriva lo sguardo, anche i suoi occhi
tornarono a farsi lucidi.
“Stai piangendo?” soffiò, parlandole in
un orecchio. Le lacrime della mamma erano silenziose, ma facevano paura quanto
la tristezza nel volto del papà, nel momento in cui l’aveva abbracciato
l’ultima volta.
Anche Sebastian si alzò a sedere,
preoccupato dalle parole del fratello.
La donna si affrettò a scuotere la testa.
“Non è niente, ragazzi” li rassicurò,
accarezzando la testa di entrambi. “Guardate il cartone: è buffa questa parte,
vero?”
“Oh, sì, il passato può fare male….”
Dominic cercò di concentrarsi su Rafiki,
ma questa volta non ci trovò nulla di divertente, in lui. Diceva cose che non
capiva e non sembravano allegre.
“… Ma a mio modo di vedere dal passato
puoi scappare oppure imparare qualcosa.”
“Mamma…”
Dominic si mise a giocherellare con i
capelli della donna, appoggiandosi allo schienale.
“… non mi piace quando parla Rafiki: ti
ha fatto piangere. Quando divento grande lo cancello dal film e ci metto un
supereroe. Superman e Spiderman le principesse le salvano, mica le fanno
piangere.”
Le sue parole strapparono un sorriso
alla donna.
“Hai ragione, Rafiki mi ha fatto
piangere” ammise, prendendolo in braccio. “Ma le cose che ha detto sono belle e
molto vere.”
“Che cos’è il passato?” domandò
Sebastian, allacciando le braccia al collo della madre.
Dominic gli scoccò un’occhiata di
sufficienza.
“È quello che si mangia, no?” obiettò,
dandogli un colpetto sulla testa. “Con le verdure.”
“Non dare colpi in testa a tuo fratello”
lo ammonì di nuovo la madre, allontanandogli la mano. “Il passato è l’insieme
di tutte le cose che ci sono successe: quelle belle e quelle brutte. Alcune
sono tristi o ci fanno paura, ma è importante ricordarle. Perché ci insegnano
sempre qualcosa.”
Sebastian e Dominic si scambiarono
un’occhiata confusa e scrollarono le spalle in sequenza – prima Dominic e poi
Sebastian, per imitazione.
“Non ci ho capito niente” ammise
candidamente Dom, tornando a sdraiarsi di fianco alla mamma.
“Nemmeno io” ribadì Sebby, facendo di
nuovo spallucce.
La madre sorrise.
“Capirete un giorno” promise, frugando
fra le cianfrusaglie che occupavano il tavolino, alla ricerca di una sigaretta.
“Quando riguarderete questo cartone da grandi.”
Dominic rimase in silenzio per qualche
istante, osservando la mamma mentre rimestava tra giocattoli e mazzi di chiavi.
La signora Sherwood recuperò un pacchetto
di sigarette e si spostò in cucina per prendere un accendino, inseguita dai
passetti rapidi del suo primogenito.
“Mamma?”
La voce di Dominic era di nuovo incerta.
“Che cosa c’è, tesoro?”
La mamma gli dava le spalle e Dom non
poteva vederla in faccia, però se lo sentiva lo stesso che era triste.
“Simba nel cartone sta tornando a casa”
rivelò, stringendole le dita nelle sue. “Forse domani torna anche papà.”
La donna guardò attentamente il figlio,
prima di posare sul tavolo il pacchetto di sigarette.
“Forse hai ragione, Dommy” mormorò
infine, prendendolo in braccio.
“Lo sai, mamma? Secondo me puoi piangere
un po’ anche tu. Non fa niente se sei una mamma” riprese Dom, posandole le mani
sui capelli. “Secondo me anche la mamma di Simba ha pianto quando Mufasa è
caduto dalla rupe.”
Le labbra della donna si piegarono appena.
“Sei proprio un bambino speciale, lo
sai?” commentò, prima di dargli un bacio. “E secondo me tuo fratello si
sbaglia: assomigli proprio a Simba!”
“Simba ha rubato il bastone a Rafiki!”
rivelò Dominic, con un sorriso birichino. “Anche io voglio un bastone così da
grande. Domani lo disegniamo?”
“Perché non ora?” propose la madre,
facendolo scendere a terra. “Dai, vai a prendere i colori.”
Dominic annuì e sgusciò fuori dalla
cucina. La sua testa, tuttavia, fece capolino dalla porta dopo appena una
manciata di secondi.
“Papà mi manca ancora, però” ammise,
fissandola esitante. “Forse mi viene ancora un po’ da piangere.”
La madre gli sorrise.
“E allora vorrà dire che piangeremo
insieme” promise con voce allegra, prendendolo per mano. “Adesso forza,
torniamo in soggiorno, o Sebby ci darà per dispersi.”
La nottata sfumò in fretta, riempita
dalla colonna sonora del Re Leone, dal lieve russare di Sebastian e dalle mani
imbrattate di pennarello di un bambino di cinque anni.
Dominic e sua madre si misero d’impegno
per disegnare un bastone come quello di Rafiki, e piansero anche – insieme,
come si erano ripromessi di fare.
Quella non fu l’ultima volta che piansero.
Ma da quel giorno, nessuno dei due cercò
più di nasconderlo.
*
La superficie dei tavolini del trailer
era a malapena visibile, sotto l’accumulo di frammenti di scotch e batuffoli di
cotone.
La pelle di Matt e Dom, al contrario, era
ormai spoglia di ogni runa.
Matt indossò la maglietta con sguardo
assente – la mente che lavorava con calma, alla ricerca di qualcosa di adatto
da dire. I morsi della curiosità continuavano a farsi sentire, ma non gli
andava di sottoporre Dom a un interrogatorio.
“È poi tornato tuo padre, il giorno
dopo?” scelse di chiedere infine, appoggiandosi al tavolo, di fronte al
collega.
Dom scosse la testa.
“Né il giorno dopo, né quelli seguenti”
rispose, facendosi ruotare lo scotch sul dito. “Nel giro di un mese lui e mia
madre erano ufficialmente separati, ma ho continuato a vederlo spesso.”
Si improvvisò giocoliere con i rotoli di
scotch e ne fece volare un paio per aria. Quando tentò di passarsene tre di
mano in mano fallì miseramente e Matt glieli rubò per provarci a sua volta. Dom
scosse la testa, irritato e affascinato al tempo stesso: i rotoli non caddero
nemmeno quando cercò di fargli perdere la concentrazione, dandogli schiaffetti
sulle braccia.
“E lo vedi ancora?” intervenne
all’improvviso Matt – lo guardo focalizzato sui movimenti degli scotch.
Dom grattò via un trattino di runa iratze
rimasto sul suo torace.
“Ogni volta che torno in Europa. Siamo
sempre stati molto uniti… anche dopo che sono nati i miei fratelli.”
Matt fece cadere un rotolo e l’amico cercò
di salvarlo con un piede, ma l’operazione non ebbe successo: in certe cose Dom ricordava
Jace, ma i riflessi pronti e una buona coordinazione non erano decisamente fra
queste.
“Quindi è per questo che sei così
attaccato al Re Leone?” riprese Matt, recuperando lo scotch da terra. “Tanto da
tatuarti sulla gamba una stampella?”
“È strano ma dopo quel giorno, ogni volta
che avevo voglia di piangere, chiamavo Seb e ci mettevamo a guardare il Re
Leone” rivelò Dom. “Crescendo mi sono fissato con un mucchio di altri film, ma
ogni volta che riguardavo quel cartone finivo per innamorarmene di nuovo. È lo
stesso per mia madre: conserva ancora il disegno che avevamo fatto assieme la
volta in cui papà è andato via. E in un certo senso anch’io” aggiunse,
mostrandogli il bastone tatuato sulla gamba.
“Ma non ti rattrista quando lo guardi?” osservò
ancora Matt. “Non si ispira a un momento allegro.”
“Ma quel momento c’è comunque” replicò
Dom, allungandosi sul tavolo per recuperare la sua maglietta. “Mi ha lasciato
dentro dei segni: tanto vale che si vedano” aggiunse, facendosi scorrere un
pollice sul braccio, a rincorrere i contorni dei suoi tatuaggi. “Mi aiutano a
ricordarmi chi sono.”
“Ricordati chi sei” ripeté Matt,
sovrappensiero, citando le parole di Rafiki.
Anche Dom rimase assorto fra i suoi
pensieri per qualche istante, prima di rispondere.
“Sono solo un ragazzino un po’ idiota del
Kent” ammise, facendo spallucce. “Ma mi sta bene così. Il perfettino da urlo
dell’Upper East Side lo lascio fare a te” lo stuzzicò, sorridendo sghembo.
Matt sorrise e gli diede un calcetto poco
convinto. Dom stava aspettando che rispondesse alla presa in giro, ma intuì,
dal modo in cui lo guardava, che stesse ancora riflettendo – la mente lontana
anni luce, nonostante i suoi occhi fossero ancora su di lui.
Solo quando fece per infilarsi la maglietta, Matt sembrò risvegliarsi.
“Un altro” esordì, posandogli una mano
sul braccio.
Dom si bloccò con la T-shirt sollevata a
mezz’aria.
“Cosa?”
“Raccontamene un altro” ripeté con voce
tranquilla Matt, studiando i suoi tatuaggi per qualche istante. “Questo”
decise, indicando la piuma disegnata sul suo avambraccio.
Sorrise, in risposta allo sguardo confuso
di Dom.
“Voglio sentire altre storie” ammise, tornando
a sedersi.
Dom ammiccò.
“Mi trovi così interessante?”
Matt accavallò le gambe e diede una
scrollata di spalle.
“Non ho ancora rinnovato Netflix” si
giustificò, dando un’occhiata al display del cellulare. “Non posso
intrattenermi con qualche bel servizio naturalistico o un documentario storico
ed Esther è a New York, perciò devo ripiegare su altro.”
“Come
no.”
Dom
tornò a scuotere rassegnato la testa, prima di posarsi la maglietta su una
spalla.
“Mettiti
comodo, allora” suggerì, incrociando le braccia e appoggiando un piede sul
tavolino. “Perché questa storia è ancora più lunga e più noiosa dell’altra.”
“L’altra
non era noiosa” replicò Matt, intrecciando le dita su un ginocchio e
improvvisando un’espressione concentrata. “E comunque non ho fretta.”
Dom
gli sorrise, prima di controllare l’ora: gli Studios avrebbero chiuso nel giro di
venti minuti ma in quel momento non gli andava di preoccuparsene.
Nemmeno
lui aveva fretta: non ne aveva mai, quando era con Matt.
Per questo – e per il ricordo che premeva
incombente contro la sua pelle, pulsando sotto il tatuaggio – riprese a
raccontare.
Note Finali.
Questa chilometrica storia
è nata quasi di getto, dopo mesi e mesi di blocco dello scrittore, e un po’ per
questo, un po’ perché tratta di cose che mi stanno particolarmente a cuore, le
voglio un bene particolare. Ci ho messo un po’ a convincermi a pubblicarla,
perché scrivere della vita privata di una celebrità – specialmente se quel
qualcuno tiene così tanto alla sua privacy, come Dom – mi mette sempre un po’ a
disagio. Alla fine, dopo aver chiesto un paio di pareri, ho deciso di
condividerla comunque.
Molte delle cose che
sono accennate in questa storia sono vere: il nome e l’età del fratello di Dom,
alcuni dettagli sui genitori (ma non tutti!), la sua fissazione – da bambino –
per principi, principesse e cartoni Disney. E, soprattutto, il tatuaggio del Re
Leone. Per il resto, quasi tutto
ciò che accade nel racconto resta, ovviamente, inventato.
Nel frattempo, ringrazio
chiunque passerà anche solo a dare un’occhiata!