bocciolo
Il
mio nome è Enamor. Quando venni alla luce, nel pallido
pomeriggio di un Middas di Stella del Mattino, correva l'ottavo anno
della terza Era e nelle Isole di Summerset da lunghi anni regnava ormai
la pace e la prosperità.
Enamor,
nel linguaggio dunmer significa "fierezza", fu mia madre a sceglierlo
per me. Non mi disse mai cosa la portò a preferire questo nome
ad un altro, o come avesse appreso l'idioma parlato dai Mer delle
grigie terre continentali, così distanti e diversi dai popoli
dei verdi lidi di Summerset.
Ma d'altronde io non glielo chiesi mai.
Solamente
molti anni dopo, quando ormai ineluttabili eventi mi avevano spinta ben
oltre i confini delle Isole compresi a fondo la doppia accezione del
termine Enamor. Secondo l'idioma delle Terre di Cenere infatti, esso
simboleggia la fierezza ma in egual misura anche la superbia,
racchiudendo in se valori positivi e negativi. Curioso come mia madre
abbia potuto scegliere per me un nome tanto appropriato, nonostante
ella non potesse ancora sapere che cosa il destino mi avrebbe riservato.
I
primi anni della mia vita li trascorsi proprio con mia madre, nella
casa che le avevano lasciato i suoi genitori. Una piccola capanna in
legno in riva al mare, nell’Auridon, non molto distante dal
villaggio di Potansa. Mio padre non lo ho mai conosciuto.
Nonostante
ciò che aveva fosse ben poco e la gente del villaggio
l’avesse bollata come sgualdrina, mia madre mi crebbe da sola,
senza mai farmi mancare nulla. Doveva amarmi davvero molto, ma a
quell’epoca ero ancora troppo cieca per rendermene conto.
Ricordo ancora il suo sorriso e le sue parole gentili, mi manca terribilmente.
Sebbene
siano trascorse due Ere e lei ormai sia morta da tempo mi piace pensare
che sia ancora lì; sotto il porticato della nostra casa, in
piedi accanto alla porta ad aspettarmi. Proprio come quando ero
bambina, i tiepidi raggi del sole al tramonto a baciare il suo dolce
viso ed i suoi capelli dorati, mentre una brezza leggera le arriccia il
bordo della lunga veste in tela grezza.
E
ricordo bene il mare, i suoi colori e il suo profumo. Trascorsi la mia
infanzia su quelle rive, lasciandomi cullare dal suono delle onde e dai
caldi raggi del sole di Summerset. Era un luogo incontaminato, pregno
di una grazia ancestrale. Il sole lambiva la superficie del mare
facendola rifulgere di mille gradazioni di blu profondo, per poi
tingersi di cremisi al sopraggiungere del tramonto.
Un
lungo litorale, bagnato da limpide acque cristalline si estendeva per
chilometri verso oriente. Lì la vegetazione cresceva incolta, in
una natura che aveva un che di selvaggio e primordiale, una bellezza
antica della quale oggi non mi rimane altro che uno sbiadito ricordo.
Un’immensa
distesa di erba ricopriva l’intero lido; lunghi fili color verde
smeraldo si muovevano sinuosi, trasportati dalla brezza leggera
proveniente dal mare. Tra di essi crescevano numerose margherite e
piccoli fiori dai petali color celeste chiaro dei quali ormai non
rammento più il nome.
Ricordo
però il loro dolce ed intenso profumo, mentre ne intrecciavo gli
steli delicati in piccole ghirlande, seduta ai piedi del litorale.
E
ricordo le farfalle. Così belle e leggiadre, mentre
volteggiavano intorno a me come se danzassero sospese dal vento stesso.
Le loro ali risplendevano di mille colori diversi; alcune pallide ed
opalescenti, altre vivide ed attraversate da leggere venature, mentre
altre ancora, al contatto con i raggi del sole parevano quasi esser
state scolpite nell'oro.
Avrei
voluto restare in quella piccola casa, accanto a mia madre, ad
intrecciare ghirlande di fiori cullata dal dolce suono delle onde fino
alla fine dei miei giorni. Ma a volte è la vita stessa a
prendere pieghe inaspettate e per quanto indesiderate siano, spesso non
vi è alcun modo di sottrarvisi; tutto ciò che ci è
concesso è osservare impotenti gli eventi compiere il loro corso.
Allora
avevo dieci anni circa, il pomeriggio era trascorso velocemente e
giunto il tramonto mi affrettai a rientrare a casa. Mia madre mi
attendeva sulla soglia sotto il porticato; accanto a lei una donna
più anziana, dagli occhi verdi ed i capelli ramati attendeva
immobile a sua volta. Era abbigliata in modo sontuoso, una lunga veste
color porpora dalle maniche ampie le ricadeva fino ai piedi, stretta in
vita da una cintura d’argento. I capelli ramati, attraversati
solo da alcuni fili bianchi le incorniciavano il volto chiusi in una
crocchia. Il suo sguardo gelido aveva un che di severo e nobile al
tempo stesso.
Mia
madre me la presentò come una sua zia, giunta da Alinor a farle
visita. Prima d’allora non avevo mai visto qualcuno proveniente
dalla Capitale, ma d'altronde non avevo mai lasciato i Lidi Orientali,
se non una o due volte per recarmi con mia madre al vicino villaggio di
Potansa.
La
signora della Capitale era molto diversa dalle persone che avevo
incontrato finora, i suoi gesti erano lenti e misurati, di una grazia
quasi imperiosa. Per tutta la cena non riuscii a non distogliere lo
sguardo dalla sua figura, rapita da tanta eleganza a me
sconosciuta.
Gestiva
la servitù nella tenuta di una nobile e prestigiosa famiglia di
Alinor, spiegò mia madre. Si sarebbe fermata da noi per la
notte, per poi ripartire per la Capitale la mattina seguente, assieme a
me.
Quando
udii questa sentenza fu come se il tempo stesso rallentasse il suo
corso fino a fermarsi, lasciandomi immobile come pietrificata mentre le
parole di mia madre mi attraversavano simili ad una pioggia gelida.
La
signora della Capitale mi avrebbe garantito una casa ed un futuro. Una
vita dignitosa, lontano dalle spiagge dei Lidi Orientali, una casa dove
non avrei più dovuto patire ne fame ne povertà.
Desiderava di meglio per me della vita di miserie e privazioni che lei
stessa aveva vissuto in quella casa, sola, costretta ai lavori
più squallidi ed umilianti.
Mia
madre proferì queste parole con il capo chino, quasi a non voler
incontrare il mio sguardo. Io non dissi nulla, rimasi lì, seduta
di fronte a lei, incapace di reagire. Rimanemmo così per un
lungo istante, immobili, con solo il suono del vento autunnale a
colmare il silenzio tra noi.
Quella
notte piansi a lungo, in silenzio, rannicchiata in un angolo della mia
stanza. Per la prima volta nella mia vita mi sentii davvero sola.
Il
mattino seguente fui svegliata all’alba, le mie cose erano
già state sistemate in un piccolo fagotto che ora giaceva ai
piedi della porta d’ingresso. Mia madre si chinò per
abbracciarmi un’ultima volta. La signora della Capitale mi
attendeva fuori e una volta raccolto il mio fagotto, mi avviai al suo
fianco verso il sentiero che conduceva al villaggio di Potansa. Mi
voltai indietro ancora una volta, prima di vedere scomparire
all’orizzonte quella che era stata la mia casa. Mia madre era
ancora lì, accanto alla porta a guardarmi partire. Quella fu
l’ultima volta che la vidi.
Il
tratto a piedi fino a Potansa lo trascorsi in silenzio, camminando
accanto alla signora della Capitale. Giunte al villaggio ci attendeva
il cocchio che ci avrebbe condotte fino al porto di Silsailen. Il
viaggio fu lungo e senza soste. Seduta in un angolo del cocchio,
osservai in silenzio il paesaggio scorrere veloce sotto i miei occhi.
Quando
infine giungemmo alle porte di Silsailen il sole stava ormai
tramontando; le acque placide del mare sembravano ardere del medesimo
fuoco mentre lambivano coi loro flutti le fiancate dell'immensa
imbarcazione dalle vele dorate che ci aspettava ormeggiata al porto.
Non
ero mai salita su una nave simile prima d'allora, né avevo mai
attraversato il Mare Interno che separa l'Auridon dalla grande isola di
Summerset.
Quando
infine vennero mollati gli ormeggi e avvertii l'enorme vascello
muoversi sotto i miei piedi cullato dalle possenti braccia del mare
sussultai all'improvviso. Per quanto sul mio giovane cuore già
gravasse il peso della lontananza, non potei che sgranare i miei occhi
dalla meraviglia e sorridere incantata alla vista dello spettacolo che
si aprì d'innanzi a me. Le acque profonde del Mare Interno,
tinte di un color porpora acceso, circondavano l'imbarcazione
estendendosi a perdita d'occhio fino a lambire la costa che emergeva
all'orizzonte, avvolta dalla nebbia.
Non
distolsi lo sguardo per un solo istante, persino quando il sole
calò affogando fra le acque scarlatte del mare, lasciando
così il posto alla fredda luce di Jone crescente, sola in cielo
in quella notte di metà Stella della Sera. Trascorsi le ore a
bordo del vascello che ci avrebbe condotte sulle rive di Shimmerene
rapita dall'inquietante bellezza dell'immensa distesa d'acqua nera e
profonda che si dispiegava d'innanzi ai miei increduli occhi, dimentica
delle inclementi parole di mia madre, come anche dei dubbi e delle
incertezze circa la nuova vita che mi attendeva oltre i confini
dell'Auridon. Ma d'altronde allora non ero altro che una semplice
bambina di provincia, che ad eccezione del piccolo villaggio di
contadini e dei lidi che lo circondavano aveva visto e conosciuto ben
poco del mondo.
Quando
la nave attraccò al porto poco distante dalla fiorente
città di Shimmerene, era ormai notte fonda. Purtroppo rammento
ben poco del breve tempo che trascorsi fra le mura di quel borgo, in
compagnia della signora della Capitale. Probabilmente a causa della
stanchezza e del lungo viaggio che aveva inevitabilmente finito col
provare sia il mio corpo e la mia mente.
Passammo
la notte nella piccola stanza di una locanda in città, per poi
ripartire il giorno seguente alle prime luci dell'alba.
Il viaggio sarebbe stato lungo e senza soste, se non per rifocillare i cavalli.
Mi disse la signora della Capitale mentre i nostri pochi bagagli venivano assicurati al retro del cocchio.
Quando
la carrozza partì al sorgere del sole, lasciandosi alle spalle
il borgo di Shimmerene ed i porti poco distanti. Fu come se assieme ad
essi vedessi svanire dietro di me a poco a poco anche la mia casa, i
miei affetti e la mia vita ormai distanti. Fu come abbandonare una
parte di me; nell'Auridon, accanto alla piccola capanna baciata dai
caldi raggi del sole che per lunghi anni era stata la mia casa. Sentii
un groppo alla gola, ed il sapore terribilmente amaro delle lacrime che
già velavano i miei tristi occhi, scendere fino alla bocca dello
stomaco, mentre osservavo in silenzio il paesaggio circostante.
Presto
i verdi lidi costieri fecero posto a sterminate pianure, villaggi e
campi coltivati, finche anche il mare non scomparve
all’orizzonte. Ci inoltrammo sempre più
nell’entroterra, attraversammo una fitta regione boscosa,
conosciuta come Erilor. Un’immensa distesa di boschi frondosi,
immersi in un’ombra cupa e malevola, circondava la strada
polverosa per la Capitale. Il cocchio percorse quel tratto velocemente,
in ansia, quasi a non volersi attardare tra quelle ombre. Usciti dalla
zona boschiva il paesaggio cambiò radicalmente. Il sole, non
più coperto dalle pesanti fronde degli alberi ora splendeva alto
nel cielo, illuminando i verdi prati lontani ed il mare dietro di essi.
Passammo accanto a numerosi villaggi prima di giungere infine alla
vista della Capitale, la Grande Alinor, la Città della Luce.
Essa
si ergeva dinnanzi a noi in tutto il suo splendore, circondata da tre
grandi cinte murarie dalle cui sommità si potevano scorgere le
cime delle alte torri dorate fendere il cielo come obelischi.
Alle
sue spalle giganteggiavano le montagne, stagliandosi imponenti sul
cielo limpido, baciate dai caldi raggi del sole pomeridiano. Le
medesime alture si snodavano verso settentrione, tagliando
diagonalmente l'entroterra fino a giungere alle pendici di Eton Nir la
vetta più alta di tutta Summerset.
Giunti innanzi alle mura, il Primo Cancello D’oro fu aperto.
Percorsa
la scala della Città Inferiore di fronte ai miei occhi presto
apparve l’altra faccia di Alinor la Splendente. Ovunque intorno a
noi regnava la desolazione e la miseria più triste. Numerose
persone, sporche ed abbigliate di soli stracci, si trascinavano per le
strade. Alcuni si avvicinavano ai passanti per chieder loro
l’elemosina, altri si affacciavano dalle finestre di baracche e
case in rovina o sedevano malati e morenti in un angolo, tra i detriti.
Un
bambino scalzo a vestito solamente di una tunica logora si
avvicinò a noi, era magro e si trascinava debolmente.
All’improvviso si fermò e cadde in ginocchio.
Ricordo ancora i suoi occhi colmi di dolore e disperazione.
Tese
le sue mani verso di noi e solo allora mi accorsi che erano coperte di
piaghe. La pelle era grigiastra, raggrinzita e formava degli strati
sovrapposti, dalle ferite violacee fuoriuscivano grumi di sangue e pus.
La
signora della Capitale lo colpì violentemente alla schiena con
il suo bastone più e più volte, lui urlò di dolore
accasciandosi al suolo. Rimasi lì, in piedi, come pietrificata.
Ad un tratto sentii la mano della signora della capitale stringere
forte il mio braccio, affondando le unghie nella carne e costringendomi
a proseguire con lei.
Quel bambino non era che un miserabile, un'inferiore.
Non
dissimile ad un insetto o ad un ratto che infesta le strade della
città, diffondendo malattie e nutrendosi di rifiuti, un
parassita. Non dovevo provar pena per lui.
Mi
disse la signora della capitale mentre percorrevamo l’alta
scalinata conducente al livello superiore di Alinor.
Varcato
il Secondo Cancello ci addentrammo tra le strette e chiassose vie della
Città Superiore. Era così diversa dal luogo di miseria e
povertà nel quale aravamo state fino ad un’istante prima.
Numerose case, alte e dal tetto in tegole rosse, occupavano entrambi i
lati della strada. Erano abitazioni di piccole dimensioni, costruite in
robusti blocchi di pietra grigia ed aperte da finestre rotonde dai
balconcini in legno. Non erano poi molto dissimili dalle costruzioni in
uso a Potansa, solo un po’ più alte e leggermente strette
ai lati.
Intorno
a noi numerosi passanti, abbigliati in vesti dai colori sgargianti, si
affrettavano indaffarati. Alcuni si dirigevano verso le botteghe di
mercanti ed artigiani, trasportando pacchi, grandi otri o casse in
legno. Altri ancora contrattavano sui prezzi alle bancarelle del
mercato o passeggiavano tra le vie, fermandosi di tanto in tanto ad
osservare le merci esposte. Regnava un’atmosfera allegra e
chiassosa e nell’aria aleggiava un piacevole profumo di pane,
spezie e dolci appena sfornati.
Attraversammo
rapide le bancarelle, fiancheggiando le alte case di pietra ricoperte
dall’edera fino a giungere ai piedi della lunga scala conducente
alla Corte Alta.
La
percorremmo in silenzio, fino alla sua sommità. Il Cancello
Interno fu aperto e davanti ai miei occhi splendette fulgida la luce e
la bellezza della Corte Alta di Alinor.
Imponenti
torri dorate si stagliavano sul limpido cielo azzurro, semi avvolte da
morbide nuvole dalle sfumature rosate. Gli edifici, alti e maestosi,
occupavano la Cerchia Esterna, costituita per la maggior parte dalle
tenute delle Nobili Casate di Alinor. Circondata dalle abitazioni, la
Cerchia Interna era invece occupata dalla grande reggia dei sovrani di
Alinor, conosciuta come Palazzo D'Oro e dall'immenso Tempio dedicato al
dio Auri-El.
Non
dimenticherò mai le imponenti torri del Palazzo D'Oro, né
le guglie di vetro intarsiato del Tempio, simili alle ali traslucide di
mille farfalle, stagliarsi imponenti in cielo quasi a voler sfidare il
sole stesso. In quel momento mi sentii davvero piccola ed
insignificante di fronte a tanta grandezza.
La
signora della Capitale mi condusse alla tenuta della Nobile Casata
Eloran, situata al lato Sud della Cerchia Esterna, non molto distante
dal tempio. L'edificio era alto ed imponente, costruito in marmo
candido ed impreziosito da eleganti bassorilievi ed intarsi in oro ed
in malachite. L'ingresso preceduto da un' alto porticato sormontato da
possenti colonne in marmo si profilò innanzi a me.
La
grande porta dorata si aprì e ne uscirono alcuni servitori, che
con in leggero inchino ci invitarono ad entrare. La signora della
Capitale mi guidò per le sale ed i corridoi senza fine della
Tenuta Eloran, mostrandomi la locazione di ogni stanza ed il relativo
ruolo della stessa, inoltre mi spiegò dettagliatamente i miei
compiti, seguiti da un elenco interminabile di azioni e luoghi a me
interdetti.
Infine,
sul calar della sera fui condotta verso quello che sarebbe stato il mio
nuovo alloggio. Si trovava nel piano inferiore dell’ala adibita
alla servitù, scesa una scala di pietra ed attraversato un lungo
corridoio aperto su entrambi i lati da numerose porte in legno. Era la
quinta porta sulla sinistra, la ricordo ancora alla perfezione. Una
stanza piccola dai muri in pietra, spogli e privi di finestre.
L’interno era occupato per la maggior parte da un semplice letto
in legno dal materasso in paglia e da un grosso baule sistemato davanti
ad esso. A fianco del letto, su di un comodino in legno vi era poggiata
una candela, unica fonte di luce nella stanza altrimenti buia. Sopra il
letto trovai, piegata ordinatamente, la mia divisa: una veste in
morbido tessuto azzurro fiordaliso, il colore della casata Eloran, ed un
grembiule candido dal bordo orlato da un semplice motivo ricamato in
filo nero.
«Dentro
il baule vi sono altri due cambi. Dovrai provvedere a lavarli da sola,
quindi cerca di non sporcarli. La sveglia per la servitù
è alle 5.00 di ogni mattina, ma devi essere pronta per le 4.30,
vedi di essere puntuale. Buonanotte.»
Disse la zia venuta dalla Capitale, richiudendo la pesante porta dietro di se.
Quella fu la prima notte che trascorsi alla Tenuta Eloran. Non piansi, non più.
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