Per leggere questa storia bisogna
necessariamente leggere “Black
Smoke” e “Dark
Lovely Sea” di
cui è continuo e fine (e se volete anche “I
rumori della lontananza”, anche se non è necessario visto che è soltanto un
brevissimo intermezzo che completa il quadro).
Come sempre, buona lettura ;)
Night
Soul
La
casa era vuota, ancora calda.
Severus
sfogliava il giornale, svogliato, le gambe accavallate e una tazza di caffè che
ogni tanto sorseggiava, anche quello svogliatamente, tanto che ormai era
diventato freddo. E imbevibile.
Fece
una smorfia e l’allontanò da sé, piegando accuratamente il giornale fece
un’altra smorfia: come al solito niente d’interessante.
Perché
si ostinava a farselo recapitare?
Forse
perché voleva mantenere un qualche contatto con ciò che aveva lasciato o forse,
semplicemente – anche se non era disposto ad ammetterlo – perché cercava un
nome tra quelle righe. Un nome soltanto.
Si
accontentava di quello, anche se ogni giorno il suo inconscio sperava di vedere
un volto, una foto per spiare un istante della sua vita, come andava avanti.
Perché
gli sarebbero rimaste soltanto quelle fotografie da guardare e riguardare fino
a consumarle con gli occhi, immaginando di essere al suo fianco o anche solo
vicino per poterlo sfiorare da un momento all’altro, per immaginare tutta una vita
giorno dopo giorno.
Soltanto
pezzi di carta di tutti i suoi desideri, da tenere o strappare come il ricordo
di quel sorriso e di quello sguardo di speranza.
Scosse
la testa prepotentemente mentre riscaldava il caffè, senza, però, berlo: se
n’era andato proprio per non cercare nulla di lui, aveva deciso di cominciare
una nuova vita altrove perché nella sua vecchia esistenza non riusciva più a
starci, e respirava a malapena nel sapere di non poterlo avere accanto per
sempre.
Era
scappato perché pochi attimi non gli bastavano più.
Riprese
il giornale, senza aprirlo, soltanto tra le mani a fissare la prima pagina, lì
dove la data faceva bella mostra di sé.
31
ottobre.
L’anno
lo lesse e basta mentre sfilava una sigaretta dal pacchetto, non gli sembrava
importante tenerlo nella mente, era solo l’ennesimo tempo passato inutilmente,
vuoto di speranze e di quei piccoli momenti felici della vita, di quella guerra
che combatteva ormai solo dentro se stesso, mai dimentico di quelle maschere
che ancora continuava a cucirsi addosso con un grosso ago che faceva male.
31 ottobre.
Indugiò
ancora su quei numeri e su quelle lettere, aspirando a lungo un po’ di
nicotina, e gli sembrò di andare a fuoco. Di esser bruciato da dentro da fiamme
invisibili e senza fumo che, però, lo asfissiavano comunque.
Erano
passati anni di niente, eppure quel giorno continuava a distruggerlo come una
lenta agonia che si presentava all’improvviso rendendolo arido e folle di
dolore. Ed era pura follia continuare a torturarsi per un passato che non
poteva più cambiare e cui aveva cercato di porre rimedio in ogni modo. E lo
aveva fatto.
Aveva
sacrificato persino la sua vita per quegli istanti andati d’insensatezza,
eppure era lì.
Ancora
lì.
E
guardava pagine piene di parole e foto. Piene di una vita fa.
Una
lenta tortura che gli lambiva il corpo e la carne e poi ancora più in
profondità fino a sentirsi corroso e inutile. Inesistente.
Si
alzò di scatto dalla poltrona portando con sé il giornale e quei caratteri che
come lame continuavano a perforargli la carne, e lo gettò nel camino che ardeva
flebile, aspettando che le fiamme si alzassero e ne consumassero fino all’ultimo
angolo, fino all’ultimo tratto d’inchiostro che continuava a dolergli come un
marchio appena fatto.
E
la sentiva la pelle che si carbonizzava all’istante. Ne sentiva l’odore.
E
il dolore.
Mentre
continuava a fissare le fiamme che si erano fatte meno intense, qualcosa lo
distrasse, un leggero bussare alla porta che si fece via via più forte per poi
interrompersi: forse era qualche abitante del paese che voleva qualcosa, ma in
quel momento non aveva alcuna voglia di ricevere visite.
Si
voltò di nuovo verso il camino, la sigaretta stretta tra le labbra, e aspettò
che chiunque fosse se ne andasse, come ormai avevano imparato a fare quando non
apriva subito la porta, ma il rumore riprese, più deciso.
Era
un tocco che conosceva fin troppo bene. Un tocco che si era lasciato anch’esso
alle spalle come tutto ciò che riguardava la sua vecchia vita.
Aveva
davvero creduto di dimenticare semplicemente la sua vecchia esistenza?
Ci
aveva sperato, ma quella speranza era scoppiata come tutte quelle che aveva
avuto fin dalla sua infanzia, quando ancora aveva pochi anni e molti sogni.
Poteva
provare ad ignorare il rumore, la persona al di là della porta, ma sapeva che
era del tutto inutile.
«Severus,
lo so che ci sei.»
Il
mago trasse un profondo sospirò per cercare di scrollarsi di dosso la cenere
asfissiante di quel giorno, si staccò dalla pietra del camino che aveva stretto
con troppa intensità fino a farsi dolere le dita e gettò il mozzicone tra la
legna, poi diresse i passi verso l’ingresso, fermandosi con la mano a pochi
attimi dalla maniglia, esitante e quasi timoroso. E aprì.
«Minerva.»
Lo disse deciso, ma con tono flebile, come se volesse mantenersi distaccato.
Erano
passati appena pochi mesi dall’ultima volta che l’aveva incontrata, eppure gli
sembravano secoli, come se la persona che in quel momento gli era davanti, era
qualcuno che non conosceva, che non aveva mai visto, ma i suoi capelli erano
raccolti nella stessa crocchia di sempre e il mantello verde appuntato sul
petto era quello che le aveva visto indossare spesso.
«C’è
puzza di nicotina qui dentro.»
«Come
mi hai trovato?» fu l’unica cosa che gli parve sensato chiedere, ignorando
l’affermazione della donna.
«Grazie
al tuo abbonamento a La Gazzetta del
Profeta.»
«Ah.»
Quel giornale era inutile, pieno d’insensatezze e di futili speranze, e aveva
sempre saputo che un giorno o l’altro gli avrebbe causato problemi, ma pensava
più a complicazioni emotive e sentimentali, non a visite che non voleva
ricevere.
Era
stato stupido, doveva ammetterlo, se loro sapevano come raggiungerlo, poteva
scoprirlo chiunque, era ovvio.
Quello
era un buon motivo per smettere di riceverlo, si disse mentre fissava la strega
sfilargli accanto, sorridente e malinconica.
«Cosa
ci fai qui?»
L’anziana
donna dapprima non rispose, si guardava intorno forse in cerca di qualcosa o
forse di niente, scrutava ogni angolo della stanza, di quello che poteva vedere,
come se volesse trovare pezzi di lui tra le pareti, di un lui che non
conosceva, o almeno non conosceva più. Poi voltò soltanto il viso per fissarlo,
mentre il corpo rimaneva immobile: «Non rispondi alle mie lettere.»
«Ho
scelto di non avere più alcun contatto col passato.»
Stavolta
Minerva girò tutto il corpo, piegando la testa continuò a fissarlo, curiosa e
forse triste, poi la vide sorridere, un sorriso appena accennato, ma c’era,
come quelli che riservava a Dumbledore e alle sue idee insensate. «E La Gazzetta del Profeta ti arriva per
sbaglio, giusto?»
Colpito
da quelle parole, cercò di passare oltre, di mostrarsi ancora una volta
impassibile e con una maschera sul volto, forse era una nuova o ne aveva scelta
una dal suo repertorio, ne aveva così tante nel suo catalogo che ormai neppure
le distingueva più. «Minerva cos’è che vuoi, esattamente?»
«Oggi
è Halloween.»
«Se
sei venuta a dirmi questo, potevi benissimo risparmiare il viaggio. Lo so che
giorno è. Perfettamente» e dolorosamente, avrebbe aggiunto volentieri, ma poi
cosa sarebbe cambiato? Dentro di sé e fuori?
Voleva
solo dimenticarsene. Nient’altro.
Era
chiedere troppo?
Non
era giusto che gli fosse permesso di voltare finalmente pagina? Di lasciarsi
tutto alle spalle?
Non
aveva sofferto abbastanza? Non aveva espiato più di quanto fosse stato
necessario?
Voleva
solo andare avanti. Nulla di più.
Eppure
Minerva era lì davanti a lui, a ricordargli ogni cosa; il suo viso si era
trasformato in un’onda del passato che gli si era abbattuta nuovamente addosso.
Era
andato oltre Lily, oltre tutto, e lo aveva fatto grazie ad un altro paio di
occhi verdi, e poi aveva perso anche loro. E oltre quelli non era ancora
riuscito ad andare, inutile negarlo. Inutile mentire e raccontarsi favolette a
cui neppure i bambini ormai credevano più.
E
lui, alle favole, aveva smesso di credere da tempo. E persino ai sogni. O alla
felicità.
Se
avesse potuto bruciare le inquietudini e i dolori come poco prima aveva
bruciato il giornale, tutto sarebbe stato più semplice.
E
lui sarebbe potuto essere un nuovo se stesso. Costruirsi persino una nuova
immagine del suo essere.
Niente
più spia, niente più traditore, niente più Mangiamorte. E niente più assassino.
Soltanto
Severus. Nulla di più.
Severus
con il proprio bene e il proprio male, con le sue ombre e con tutto quello che
di bello aveva da offrire. Nient’altro.
Smettila di sognare ad
occhi aperti, Severus.
L’anziana
strega si avvicinò, lentamente, e allungò una mano per sfiorargli il viso e
sorridergli piena di apprensione e di quel sentimento di maternità che spesso
aveva sentito provenire dal suo corpo. «Vi amate, lo so, ma è una situazione
che vi porterà a farvi del male. Solo che ve ne farete ancora di più stando
lontani.»
Snape
s’irrigidì e poi vacillò appena, sgranando gli occhi si allontanò dalla strega,
come se lo avesse colpito con uno schiaffo invece che con delle parole. «Tu…
come…» e cercò di riprendersi, di infilarsi nuovamente la maschera e smentire
quelle parole, ma sapeva che ormai i suoi gesti lo avevano tradito ed era
troppo tardi per tornare indietro.
«Avete
lo stesso sguardo vuoto e addolorato. Lo stesso bagliore di amor perduto.»
«Non
è la stessa cosa.» Il mago raddrizzò il corpo, lievemente irritato per quel
paragone: lui era l’amante, il terzo incomodo, qualcuno con cui rompere la
routine coniugale, non poteva per niente paragonare le loro condizioni e, anzi,
equipararle così facilmente.
«Severus...»
la strega fece un passo indietro, e poi un altro, e andò a sedersi sulla
poltrona dov’era stato lui fino a pochi minuti prima, quasi stanca di lottare
contro tutte le complicatezze della vita, e di quelle che le persone si
creavano inutilmente. «Non puoi incatenare l’amore attraverso i contesti che lo
compongono. Non può essere razionalizzato.»
«Minerva,
con tutto rispetto, ma non ho alcuna voglia di perdere tempo in discorsi
filosofici. I contesti, come li chiami tu, hanno una certa importanza,
soprattutto dove ci sono una famiglia e una persona che può distruggerla. Non
puoi parlare semplicemente di contesti.»
«Se
lui non fosse sposato, cosa faresti?»
«Sarebbe
diverso. Tutto diverso.»
«Quindi
vivresti con lui? Sareste felici?»
«Forse
o forse no. Ma lui è sposato.»
«Vedi,
questo è un contesto senza valore, perché vi amate, ed è questo che conta.»
«Minerva,
sei impazzita, per caso? Ti è successo qualcosa quando me ne sono andato?»
Snape si mosse appena, la testa che vagava per la stanza per guardare qualsiasi
cosa che non fossero gli occhi dell’anziana strega nascosti dietro gli occhiali
squadrati. «Non posso credere che tu lo stia dicendo davvero. Che ci creda
davvero a queste parole.»
«Il
mio primo amore era un Babbano che non ho voluto sposare per non fare la stessa
vita di mia madre rimpiangendo il vivere senza magia, e di mio padre che ha
dovuto mentire per anni per nascondere la nostra “condizione”, venendo meno al
suo essere un uomo di Dio. E ho continuato a tenerlo nel cuore finché non è
morto.» Minerva pronunciò una parola dopo l’altra senza neppure prendere fiato,
senza distogliere lo sguardo da lui, fissandolo con decisione, quasi non
sbattendo le palpebre, e si torturava le dita come se il ricordo ancora
l’addolorasse.
Severus
smise di guardare la stanza e fissò gli occhi in quelli della strega, storse un
po’ la testa prima di parlare: «Se volevi sostenere la tua tesi, avresti dovuto
scegliere un esempio diverso» e la donna per un attimo sorrise, quasi iniziò a
ridere senza, però, smettere di torturarsi le mani. «Se fosse stato un mago, lo
avresti sposato, e la tua teoria sui contesti va piuttosto a farsi fottere,
Minerva.»
«Lo
so.»
«Lo
sai?» drizzò la testa alzando un sopracciglio, curioso, e in attesa che dicesse
altro. «Comincio a fare fatica a seguirti, sinceramente.»
«Non
guardarmi come se fossi Albus!» Snape spostò di nuovo la testa, all’indietro,
non capendo cosa volesse intendere: non la stava guardando in nessun modo,
tantomeno non come guardava quel vecchio pazzo quando sputava un’insensatezza
dietro l’altra. «Lo stai facendo di nuovo.»
«Non
ti guardo come Albus. Tu non sei Albus» andò per un attimo a sistemare un
ciocco di legno che era caduto in un angolo, e lo fissò per alcuni istanti
mentre si accendeva un’altra sigaretta. «Fortunatamente» aggiunse, continuando
a guardare le fiamme che si ravvivavano, sputando fuori un po’ di fumo nero
prima di buttarla quasi intatta. «E non voglio parlare di Albus Dumbledore,
perché avrei molte cose da dire su di lui» e si voltò brandendo l’attizzatoio
come se quel nome gli avesse tirato fuori anni e anni di rabbia.
«Beh,
Severus, l’hai detto tu che non sono lui, quindi metti giù quell’affare, per
Godric!»
«Oh…
scusa.»
«Comunque
nemmeno io voglio parlare di lui, anche se avrei molto da dire.»
Snape
si allontanò lasciandola sola per un paio di minuti, quel nome lo aveva turbato
più di quanto avrebbe ammesso, come se già l’essere il 31 di ottobre e l’essere
solo non fossero stati abbastanza.
«Tieni»
e le porse un bicchiere che riempì non appena l’anziana strega l’ebbe
afferrato.
«Whiskey.
Alle nove di mattina. Sei serio?»
«Se
devo continuare a scambiare confidenze d’amore con te, credo che mi serva. E
che serva anche a te.»
Mandarono
giù una sorsata e poi si ritrovarono entrambi a ridere, e continuarono a
parlare come due vecchi amici che si rivedono dopo anni e si raccontano storie
della loro vita. Beh, più lei di Severus che per la maggior parte del tempo
ascoltava bevendo il liquore.
«Tutto
mi sarei aspettata nella vita, tranne parlare di questo con te.»
La
bottiglia era ormai finita, anche se in realtà aveva bevuto più lui della
McGonagall, e alle dieci del mattino non era una cosa positiva.
Non
il 31 di ottobre.
Non
a parlare – a sentir parlare – di Harry Potter.
«Senti,
Severus» la strega si fece all’improvviso seria, bevendo l’ultimo sorso di
liquore che ancora aveva nel bicchiere, guardandolo spegnere l’ennesima
sigaretta. «È vero, è sposato, e questo complica tutto, ma non lasciare che
questo distrugga quello che provate l’uno per l’altro, non sei mai stato uno
che si arrende. O si nasconde.»
«Ti
sbagli, Minerva, io mi sono nascosto per anni. Ho nascosto una grossa parte di
me dietro un muro di nero e di niente, dietro un cumulo di maschere che mi
hanno soltanto fatto odiare.»
«E
allora cambiala questa cosa. Smettila di nascondere te stesso e di nascondere i
tuoi sentimenti, non l’hai già fatto abbastanza?»
«Già,»
ma quella parola gli uscì più amara di quanto volesse, e forse voleva proprio
che fosse così, che in tre sole piccole lettere e un tono di rassegnazione,
fossero riassunte tutte le delusioni che avevano attraversato la sua vita.
«Lui
ti ama.»
«L’amore
a volte non basta. È soltanto una parola che si dice o l’aggrovigliarsi di due
corpi in poche notti l’anno.»
«Torna
a casa, Severus. Torna a casa con me, e lotta affinché non sia più soltanto una
parola. Mi fa male vedervi così.»
«A
me vedi poco.»
«Ma
vedo Harry e so che quello che vedo in lui è anche in te.»
«Non
voglio che soffra, che perda tutto. Non voglio far soffrire Ginny Weasley o la
sua famiglia.»
«E
credi che dividere la vita con qualcuno e amarne un altro non faccia soffrire
entrambi? Le menzogne fanno soffrire, Severus, dovresti saperlo.»
Snape
sospirò sentendosi l’animo sconfitto e pesante, e tornò davanti al camino per
stringerne la pietra ancora una volta, quasi con disperazione, come se
aggrappandosi ad esso, non sarebbe scivolato nella realtà di quelle parole e di
tutta quella situazione.
Perché
si era dovuto innamorare proprio di lui? Di tutte le persone possibili proprio
di quel dannato moccioso cui aveva rovinato la vita.
E
se proprio il destino gli avesse riservato quell’amore, perché non glielo aveva
messo davanti agli occhi prima? Appena pochi mesi per evitare che tutto si
complicasse ancora.
Non c’è mai niente di
facile per te, vero, Severus? Non c’è mai niente di facile nella vita.
«Non
so che fare, Minerva,» ma continuava a scrutare i colori delle fiamme, sperando
che prima o poi si facessero talmente alte da divorarlo completamente. «Lui è
il Ministro della Magia.»
«E
allora?»
«Allora?!»
«Già,
allora. Non è mica il Papa, ed esiste il divorzio.»
«Sei
molto brava a semplificare le cose» e sorrise, abbassando la testa e le spalle come
se qualcuno lo avesse caricato di un improvviso ed invisibile peso, e se lo
sentiva addosso davvero, se lo sentiva da tempo a spingerlo sempre più a terra
fino ad ascoltare ogni passo in lontananza, ogni voce e ogni singola emozione
che lui sentiva di non poter vivere.
«Sono
venuta qui per questo!» e ridacchiò facendogli sentire che tutto poteva essere
davvero così semplice. «Torna a casa» ripeté ancora una volta, facendosi di
nuovo seria, convinta e sperando di convincere anche lui, con tutto l’amore di
cui era capace e con tutto il bene che, nonostante in passato lo avesse messo
in discussione, era ancora lì, adesso come allora e come sempre.
Si
alzò dalla poltrona e lo raggiunse vicino al camino, lì dove il volto era
rivolto a terra a guardare quel pavimento che si dilatava e si restringeva, e
le mani ancora schiacciate sulla pietra, e ne prese una tra le sue segnate dal
tempo, da quelle pieghe e vene che disegnavano tutta una vita, e la strinse,
forte, sentendola fredda nonostante il mago stesse davanti al fuoco.
«Severus…»
il mago alzò appena il volto per guardarla. «Non chiuderti nuovamente in te
stesso. Non lasciare nuovamente scorrere la vita e basta,» poi si drizzò,
scostando le mani dal camino e da quelle dell’anziana strega, osservandola
appena prima di allontanarsi da lei, dalle sue parole, e da tutto quello che
significavano. Dalla realtà che emanavano come un profumo troppo forte e
nauseante.
«Hai
paura di ferire gli altri, lo capisco, ma così continui a ferire soltanto te
stesso. E gli altri finirete per ferirli comunque mentendo.»
«Non
dipende soltanto da me, Minerva. Non conta solo quello che voglio io.»
«Dovresti
chiedergli cosa vuole lui, cosa vuole davvero.»
«Il
volere non basta.»
«Volere
è potere, te l’hanno mai detto?»
«Non
ho mai amato queste frasi fatte, perché nella realtà non si adattano ad ogni
cosa. Le situazioni cambiano. Le persone cambiano.»
«E
tu? Tu sei cambiato? Vuoi cambiare, Severus? O vuoi continuare ad essere una
pagliuzza d’oro nascosta sotto strati e strati e strati di stoffa nera e mura
impenetrabili?»
Snape
osservò il mondo fuori la finestra, quella porzione di casa dove si vedeva un
bosco che si estendeva fin dove non lo sapeva, non si era mai spinto fino là, e
in quel momento pensò che gli sarebbe piaciuto immergersi in un groviglio di
rami dove c’era soltanto il rumore degli animali e null’altro.
Si
girò alcuni secondi verso di lei, poi tornò a scrutare quello che c’era
all'esterno: voleva continuare ad indossare una maschera dietro l’altra o
voleva cambiare davvero? O meglio, essere quello che era davvero?
Fissò
per un attimo il suo riflesso sul vetro, quel volto più scavato del solito e
così triste, come poche volte si era visto, e lo sfiorò, disegnandone con
l’indice ogni contorno, ogni ruga, e ogni dolore invisibile, e ogni angolo che
gli aveva toccato e baciato, sentendosi per un attimo le sue mani sulla pelle e
le sue labbra umide che gli sussurravano parole che non ricordava più.
Lui
era già cambiato. Lo sentiva nei battiti nel petto. Nei sogni che poteva
davvero realizzare. E nelle paure di perdere quell’amore che mai aveva provato.
Era
cambiato più di quanto avrebbe ammesso, nel profondo, ma non aveva comunque
abbandonato il suo vecchio se stesso, quella parte razionale e timorosa, quella
parte di buio che sempre lo avvolgeva come una fitta nebbia. Forse non era
davvero cambiato, forse, semplicemente, aveva tirato fuori quello che dentro
aveva sempre avuto, quei pezzi che avevano sempre composto il suo essere, ma
che aveva relegato nel punto più profondo della sua stessa anima.
Era
cambiato. Era se stesso. Era un assetato che si era tirato fuori dal pozzo.
“Non
conosco chi sono in realtà. Probabilmente non l’ho mai saputo.”
«Torna
a casa.» Minerva lo disse per la terza volta, senza essersi spostata di un
pollice, lì, davanti al camino, che lo guardava perdersi in riflessioni e in
quell’altrove oltre la finestra, e lo ribadì per la quarta volta mentre dal
mantello tirò fuori un piccolo sacchetto di cuoio e lo posò sul tavolino che
riluceva colorato dalle fiamme. «Quando vuoi, ma per favore, torna» e senza
aggiungere nient’altro, camminò verso la porta ed uscì. Semplicemente.
Neppure
Snape disse nulla, e nemmeno la guardò mentre si chiudeva la porta alle spalle,
sentì solo il rumore, soltanto passi che pian piano svanivano.
Prese
il sacchetto che gli aveva lasciato Minerva McGonagall senza neanche vedere
cosa contenesse, se lo infilò in tasca e uscì anche lui.
*
Aveva
sempre amato il fresco dei suoi Sotterranei, l’umidità che gli si appiccicava
addosso, eppure, in quel momento, mentre camminava, cercava ogni angolo
riscaldato dal sole, andava qua e là per le stradine sperando di trovare un po’
di calore che gli dissipasse i pensieri e gli sciogliesse quelle sensazioni che
gli stringevano l’anima.
Sapeva,
però, che non poteva essere così semplice.
Il
proprietario di un’erboristeria lo salutò, era un anziano mago che più volte
aveva ascoltato i suoi consigli, migliorando alcuni infusi e pozioni, anche se
molte di più erano state le cose che aveva imparato lui stesso da quell’uomo,
piante del posto che non conosceva e antichi distillati che risalivano a
ricette tramandate per secoli.
Aveva
ascoltato ogni sua parola con molto interesse, appuntando di tutto, e preso
semi che l’anziano mago gli aveva regalato «per quando tornerai a casa»,
spiegandogli come andavano coltivati nei minimi dettagli.
Ricambiò
il saluto senza dire una parola, muovendo appena la testa, e continuò a
camminare costeggiando alcuni edifici dall’architettura tipicamente medievale,
fino ad una lunga discesa che portava all’entrata del paese. O all’uscita, in
quel caso.
Proseguì,
passo dopo passo, fino alla zona più rurale, là dove foreste si perdevano nel
buio e sentieri s’inerpicavano sopra colline e rocce aprendo panorami che
spesso gli avevano calmato lo spirito distogliendo ansie e ricordi.
Prese
una strada sterrata coperta di foglie di tanti colori, le sentiva scricchiolare
sotto i piedi, e dov’era passato vedeva il rosso confondersi con il marrone e
poi con il giallo, e perdersi tutti tra la terra umida. Ne sentiva il profumo,
e anche di quelle lievi sporcature di verde che s’intravedevano qua e là come
piccole e flebili speranze che tentavano di uscire.
O
come minuscoli riflessi di un paio d’occhi che faceva fatica a dimenticare.
E
quel giorno dannato glieli ricordava entrambi. Gli ricordava il dolore di
quelli che aveva contribuito a far spegnere per sempre e di quelli che amava e
non poteva avere accanto a sé.
Tirò
un calcio ad un sasso, rabbioso, mentre un leggero vento si alzava e gli
s’insinuava sotto la stoffa, dalla nuca fin su tutta la schiena, facendolo
rabbrividire appena.
Quando tornerai a
casa...
Già,
quando? Ci sarebbe tornato?
Anche
Minerva glielo aveva chiesto e richiesto quella stessa mattina, quasi
implorato, e se n’era andata ascoltando il suo silenzio dopo averlo invocato
un’ultima volta, e lui non aveva saputo rispondere a lei come all’anziano
erborista: cosa avrebbe dovuto dire?
Stava
bene lì, aveva trovato persone gentili e simpatiche che spesso si facevano gli
affari propri, persone con cui parlare o con cui non dire niente, cui non
importava niente di lui, del suo passato e di cosa avesse fatto. Lì era
semplicemente lui, e nessuno lo giudicava per quello, quindi perché tornare in
un luogo dove c’era ancora chi lo guardava con odio e disprezzo?
Dove
ogni giorno avrebbe visto il film di una vita che desiderava ma che non avrebbe
mai potuto avere?
Scalciò
un altro sasso e poi ancora uno e altri, finché ne trovava sulla strada
nascosti tra le foglie.
Quel
bosco aveva un’entrata? Si chiese. Era proprietà di qualcuno? Severus non lo
sapeva, si limitava a guardare da una parte all’altra alla ricerca di qualche
spiraglio tra la vegetazione e le recinzioni ai lati della stradina.
«Sai,
Severus, io sono vecchio d’età,» si voltò e vide l’anziano erborista con una
bacchetta bianchissima tra le dita che muoveva un po’ tremante, fin quando tra
gli alberi non iniziò a formarsi un arco. «Ma tu mi sembri così vecchio
dentro.»
Quelle
parole non gli fecero per nulla piacere, ma rimase in silenzio, non voleva
mancargli di rispetto, anche se quella mattina sembravano tutti avere qualcosa
da dirgli, qualcosa di non richiesto, si affrettò a pensare: non aveva mai
amato le intromissioni nella propria vita.
«Andiamo»
e con un gesto della mano lo esortò a seguirlo sotto quell’apertura che si era
creata tra i rami, ma Snape esitò per qualche secondo, era andato lì per
rimanere da solo, e invece si ritrovava per la seconda volta in quella stessa
mattina con qualcuno che non aveva alcuna intenzione di rimanere muto, ma,
anzi, di continuare a ficcare il naso nei propri affari.
L’anziano
lo guardava, perplesso, mentre lui rimaneva immobile a pensare se andarsene per
conto proprio o seguirlo.
Alla
fine decise e l’erborista sorrise, compiaciuto, mentre Snape trattenne a stento
una smorfia.
«Non
sono vecchio dentro.» Dopo aver camminato per dieci minuti nel completo
silenzio, Severus lo ruppe, volendo ribattere a quelle parole perché lui non si
sentiva per niente in quel modo.
«Certo
che lo sei. Non parli mai, sei sempre in casa e anche quando esci sei sempre immerso
nel tuo mondo.»
«Questo
vuol dire essere riservati, non vecchi. Amo la solitudine. E il silenzio. Non
ci trovo nulla di male.»
«Vivi
nel tuo limbo di routine e banalità, di piccole cose che conosci e non ti fanno
paura.» L’erborista continuava a parlare, come se non avesse ascoltato neppure
una sillaba che aveva pronunciato, oppure, semplicemente, facendo finta di non
aver capito, perso nel suo discorrere.
«Siete
tutti così esperti della vita, che sapete tutto di quella degli altri, eppure
continuate ad avere rimpianti, dolori per cose fatte o non fatte nel passato. Liste
di errori compiuti. Tutti così sapienti delle vite altrui. E tutti così
arroganti nel voler indirizzare le vite degli altri.»
Al
diavolo il rispetto, al diavolo tutto, chi era quell’uomo per dirgli chi lui
fosse e cosa dovesse fare? Non sapeva niente di lui. Niente!
«Arroganti,
forse. Sapienti, assolutamente no.» Nonostante tutto, l’anziano continuava a
sorridere bonario, e quello lo irritava a tal punto che gliele avrebbe
strappate quelle labbra. «Proprio perché abbiamo sbagliato tanto nella vita che
possiamo essere così arroganti con i giovani che abbiamo davanti.»
Sembrava
un ragionamento molto sensato, tentò di convincersi: i loro errori potevano
essere insegnamenti per gli altri, ma lui continuava a mal sopportare quelle
intromissioni, soprattutto perché della propria vita non conosceva niente e non
conosceva niente di lui, di quello che era stato, di quello che provava, di
ogni singolo frammento che lo componeva.
«Allora,
dimmi» parlò all’improvviso, fermandosi dopo che per un po’ avevano ripreso a
camminare, «Cos’è che dovrei fare esattamente?» la sua voce, però, continuava a
tradire irritazione, e se ne accorse anche l’anziano erborista che gli
sorrideva ancora, facendo finta di niente.
«Torna
a casa» gli rispose. «Questo non è il tuo posto. Qualunque sia il motivo che ti
ha fatto fuggire, affrontalo e basta.»
«Io
non sono scappato,» ma poteva davvero affermare il contrario?
Lo
aveva chiesto lui, era vero, aveva voluto provocarlo, ma quelle parole lo
avevano in un certo senso disturbato perché avevano lo stesso significato di
quelle che aveva pronunciato Minerva non molto tempo prima.
«Sto
bene dove sto» parlò, cercando di mantenersi calmo. «E me ne vado da qui,
magari dove non incontrerò nessun altro con le stesse intenzioni di dirmi cosa
devo o non devo fare» e si voltò, allontanandosi da quella porzione di bosco
senza aggiungere nient’altro e senza più ascoltare l’anziano erborista che lo
pregava di restare.
Proseguì
sui propri passi facendosi strada tra gli alberi che si facevano sempre più
fitti, ogni tanto si aiutava con la bacchetta, ma mai si era guardato indietro,
soltanto avanti, verso una meta che neppure lui conosceva.
Continuò
ad arrampicarsi, abbassandosi e scavalcando spesso grossi rami che spuntavano
dal terreno, ma quell’aria umida e quegli odori lo invasero così tanto che
avrebbe camminato per giorni interi sentendosi avvolgere completamente dal buio
che veniva scalfito appena dai raggi del sole.
Le
foglie rosse erano così cupe e sanguigne che sembravano cuori pulsanti e gli
sembrava persino di sentirne il battito e lo scorrere di quel fluido cremisi e
caldo.
Per
un attimo tornò ad altre foglie rosse e ad altri passi tra una foresta, a
quella casa che odorava di tutto quello che aveva sempre voluto e che per un
attimo gli era sembrato di possedere, lì tra le braccia di Harry, a quando lo
aveva supplicato di fare l’amore con lui e di strappargli il cuore dal petto e
tenerselo, farlo per sempre suo, e in un modo o nell’altro lo aveva fatto,
l’aveva preso perché lui aveva voluto donarglielo completamente, anche se
faceva male da respirare appena.
All’improvviso
si sentì stanco, le gambe pesanti che gli dolevano in più punti, ma era niente in
confronto al vuoto che si sentiva dentro, a quel profondo buco che lo stava
inghiottendo inesorabilmente.
Che
cosa avrebbe dovuto fare?
Si
gettò ai piedi di un grosso albero, esausto, e si lasciò abbracciare dalle
foglie e dalla terra, e dai molteplici aromi che si sprigionavano tutto intorno,
e provò a riconoscerli, uno ad uno, per cercare di distrarre la propria mente
e, soprattutto, di acquietarsi l’animo che sentiva sfilacciarsi come una
vecchia coperta.
Un
piccolo uccello era appollaiato su di un ramo e lo fissava, piegando ogni tanto
la testa da una parte e poi dall’altra, non ne riconobbe la specie, o forse non
voleva impegnarsi a farlo, ma soltanto starsene lì a farsi guardare. A farsi
beccare così nel profondo da far fuoriuscire tutto quello che aveva al suo
interno, e marcire lì, nella carne e nello spirito, mentre altri banchettavano
con i suoi resti.
«Che
hai da guardare?» L’uccello si spostò appena a sinistra. «Che dovrei farei
secondo te? Hanno tutti detto la loro, tu che ne pensi? Forse la tua risposta è
migliore delle altre» e si ritrovò a ridacchiare per quell’assurda situazione:
no, non stava bene se era finito a parlare con gli animali. Non stava bene per
niente, pensò, continuando però a ridere mentre lo guardava con espressione che
sembrava interrogativa.
Volò
su un ramo più basso e più vicino, e continuava a fissarlo sempre muovendo la
testa, poi aprì il becco e iniziò a cinguettare, anche se era più un suono
stridulo il suo, quasi fastidioso, tanto che avrebbe voluto cacciarlo via, ma
qualcosa lo spinse a rimanere immobile e studiarlo mentre graffiava l’aria
tutta intorno e si avvicinava ancora.
Poi,
all’improvviso, smise di emettere suoni e volò via, lasciandolo di nuovo solo.
«Questa
sarebbe la tua risposta?» ma il bosco rimase in silenzio come un muro crollato
in più parti che faceva filtrare la luce del sole.
In
quel momento, però, si scoprì nuovamente a non volere il calore dei suoi raggi
sul volto né sulla pelle, voleva di nuovo sentire tutto il freddo sotto gli
abiti impregnati di umidità. Solo per qualche minuto, come se nulla fosse
cambiato e lui si trovasse ancora una volta nelle sue stanze al Castello con il
camino perennemente spento, o a pezzi nella solitudine della Foresta Proibita.
Soltanto
per un po’.
Chiudere
gli occhi, raggomitolarsi su se stesso e lasciarsi trasportare dal passato
secondo dopo secondo, farsi avvolgere e contemplare ogni pezzo di vita che gli
scorreva davanti.
Riaprì
gli occhi subito dopo, di scatto, ormai stanco di ancorarsi ancora a quello che
era stato, al dolore delle sue scelte e al rimpianto di quello che avrebbe
potuto fare – o non fare.
E
continuò a tenerli aperti, spalancati e vigili, mentre prendeva il sacchetto di
cuoio che le aveva lasciato Minerva.
Se
lo rigirò a lungo tra le mani, non sapendo cosa contenesse né che cosa avrebbe
dovuto farne, lo guardava, semplicemente, da un lato e poi dall’altro,
ispezionandone ogni cucitura come se si aspettasse un tranello da un momento
all’altro, ma era Minerva che glielo aveva dato, come poteva anche solo pensare
che volesse condurlo in una trappola?
Sospirò,
riflettendo su quanto quei pensieri fossero idioti, neanche l’essere stato una
spia costantemente in pericolo, avrebbe potuto giustificare qualsiasi sospetto
verso l’anziana strega. Come diavolo gli era venuta in mente una cosa simile?
Se
fosse stata lì, lo avrebbe sicuramente rimproverato o, cosa più probabile, gli
avrebbe lanciato contro qualche fattura. Quel pensiero lo fece ridere e gli
riportò alla mente tutti i loro battibecchi per il Quidditch, a quanto quei
momenti spensierati lo avevano aiutato a rimanere a galla e a non soffocare
nella sua stessa oscurità.
Iniziò
ad allentare i lacci che chiudevano il sacchetto e in pochi istanti una nuvola
grigiastra sembrava farsi strada dall’interno fino alle sue dita, per poi farsi
bianca e addensarsi in una piccola pergamena che si srotolò da sola, senza che
lui l’avesse neppure sfiorata.
Era
vuota, bianca come il fumo che l’aveva generata, e Severus non ne capì il
significato, la guardava e basta, poi sorrise e la toccò appena.
Pian
piano, lettera dopo lettera, la carta iniziò a riempirsi di linee nere eleganti
che si ergevano dal nulla come torri medievali fin quando comparve in fondo un
nome, strappandogli un altro sorriso.
Sei un’anima notturna, Severus, ma
ti prego di non lasciar andare quella luce che brilla così intensamente dentro
di te.
Di non lasciare andare la tua vita.
Rilesse
ancora una volta quelle poche righe, poi, semplicemente rigirò il sacchetto,
facendo scivolare il suo contenuto: non appena quello che sembrava un anello
toccò la sua mano, iniziò a vorticare su se stesso, poi sparì.