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Un
anno prima…
Correva senza voltarsi indietro. Un passo dopo
l’altro, col dolore che le invadeva le membra intorpidite dal freddo e le ferite che
sanguinavano, congelandosi non appena il sangue usciva dalle ferite, ma lei non
sentiva niente di tutto questo. Troppo impegnata a correre, troppo impegnata a
mettere quanta più distanza possibile fra lei e quelli che sarebbero diventati i
suoi inseguitori. Ne era certa. Avrebbero saputo della sua fuga di lì a poco e
le avrebbero dato la caccia.
Dove andare?
Che fare se non correre ancora, ancora e ancora?
Sono
stanca…
Il suo corpo reclamava riposo, una piccola sosta,
ma il cervello non glielo
permetteva iniettandogli adrenalina per andare avanti. Erano gli effetti della
libertà che non le facevano sentire, più del dovuto, la stanchezza e le membra
congelate.
Corri!
Non ti voltare! Non lasciarti prendere o ti uccideranno!
Il sole calava all’orizzonte e presto sarebbero
scese le tenebre e, con esse, la temperatura. Avrebbero toccato lo zero, sarebbero
sicuramente scese e lei non aveva niente addosso se non un misero vestiario che
comprendeva solamente pantaloni e maglia, entrambe logore come le
scarpe ai piedi.
Si guardò intorno solo un attimo. Poca
vegetazione. Dove si trovava la città più vicina a lei? Dove si trovava il
villaggio più vicino a lei? E il fiume Tumen? Era quello il suo vero obiettivo.
Se fosse arrivata al fiume Tumen, avrebbe potuto valicare il confine e andare
in Russia. Dalla Russia, poi, prendere la prima nave per andare in Corea del
Sud e chiedere asilo, proprio come avevano fatto suo nonno e le sue zie.
“Ascoltami,
MinJee. Non c’è molto tempo e tu devi sapere. Io e tua nonna, Sung Sim, fummo
fatte prigioniere quando cercammo di fuggire dalla Corea del Nord. Tuo nonno e
le mie sorelle, riuscirono a fuggire o, per lo meno, questo mi auguro per loro.
Se così fu, allora devi prendere la strada per il fiume Tumen. Si trova a
nord-est da qui. Prendilo e varca il confine con la Russia. Non farlo mai con
la Cina, non fare lo stesso errore che commettemmo noi anni addietro e,
soprattutto, non dire mai a nessuno che fuggirai, nemmeno a me, nemmeno a tuo
padre. Pensa per te, come ti hanno insegnato qui dentro. Se mai uscirai, cerca
Dong-hyuk Park in Corea del Sud. È tuo nonno.”
Le tornarono alla mente le parole della madre,
impresse nella mente, marchiate a fuoco. Hye Gyung era morta pochi mesi prima a
causa di un’infezione dovuta a delle torture inferte, frustrata a morte per
essere stata scoperta a rubare del riso, cibo diventato un lusso per ricchi. MinJee
crebbe da sola col padre, un uomo che non si curava per niente di lei e che fu
ucciso per mano della figlia. MinJee l’aveva scoperto a rubare e lo denunciò
per avere un tozzo di pane in più. La conseguenza fu che venne rinchiusa nei
sotterranei e torturata. Alle guardie era arrivata la voce che suo padre aveva
in progetto di scappare e che lei ne fosse a conoscenza. Venne rinchiusa per
sei mesi, e fatta uscire solo quando il suo corpo non divenne una cartina
geografica di cicatrici e ustioni, ferite non curate e sanguinanti. Era debole
e le distrussero la mente portandola alla follia. Cominciò a vedere una realtà
distorta e l’unico modo che ebbe per far cessare le torture fu dire bugie su
bugie, facendo torturare altri suoi compagni. I suoi carcerieri la utilizzarono
come spia per anni, uccidendo molte persone del campo che avevano intenzione di
fuggire fino a quando, un giorno, non fu proprio MinJee a fuggire da quel
campo.
Doveva andare avanti. Era riuscita a scappare, non
si sa se per qualche miracolo o perché aveva trovato il momento giusto e, di
certo, non poteva mollare proprio in quel momento.
Devo andare
avanti, non posso fermarmi o sarà tutto vano.
E camminò, camminò fino a quando non fu nei
pressi di una fattoria che sembrava disabitata, rifugiandosi all’interno
cercando riparo. Trovò dei vestiti più pesanti, dei tozzi di pane ammuffiti che
mangiò per placare i morsi della fame e si addormentò vicino quello che doveva
esser stato un fuoco. Sognò durante la notte: sognò i suoi aguzzini, sua madre
e il posto in cui nacque. Un sonno frammentato in cui ogni volta si svegliava
col terrore di aver urlato nel sonno e che qualcuno l’avesse sentita.
I suoi aguzzini la stavano già cercando. Sentiva
il loro fiato sul collo, come dei cani lasciati per troppo tempo senza mangiare
pronti a sbranarla non appena l’avessero puntata. Era una preda, una preda che
doveva fuggire. Con poche ore di sonno addosso, prese quello che trovò da
mangiare, si mise degli stivali di fortuna, altri vestiti addosso e uscì nella
fredda notte.
Dove doveva andare, adesso? Non riusciva ad
orientarsi e non poteva di certo chiedere al primo viandante o persona che
passava, in che direzione andare per il fiume Tumen. Così fece quello che le
riuscì meglio: seguire il suo istinto. Camminò per giorni o settimane,
difficile dirlo, nascondendosi e cercando ripari di fortuna dove poter dormire
la notte, mangiando tutto quello che trovava di commestibile lungo il suo
tragitto, fino a quando non arrivò nella città di Sudong.
Mi sto
avvicinando o no al confine russo?
Furono molte le domande che le vennero in mente,
questa fra le prime. Aveva il terrore di aver camminato invano per giorni e aveva
il terrore di venir scoperta. Ogni giorno cercava di non dare nell’occhio, di
mimetizzarsi col mondo circostante per non esser scoperta. La città era nel caos
più totale, razziata e martoriata dalle guardie che deportavano ogni giorno
decine di persone. Fu in quel frangente che conobbe una banda di fuorilegge
alla quale si aggregò.
“La nostra unica via di salvezza è andare verso
la città di Wŏnsan. Da
lì, imbarcarci per andare verso la Russia. Se riusciamo a rubare una barca e
dirigerci verso la Corea del Sud, tanto meglio.”
Li seguì, spinta dalla disperazione
di rimanere sola e, soprattutto, dalla paura di perdere qualcuno che sapeva
dove andare. Per questo cominciò a fare i lavori sporchi per la banda, pensando
egoisticamente che, se lei procurava da mangiare per la banda, loro non
l’avrebbero lasciata indietro.
Da Sudong arrivarono a Chŏnnae e da
lì a Munchŏn.
Fu una lenta ed estenuante lotta per la sopravvivenza durante la quale morirono
diversi membri del gruppo: chi per fame, chi per freddo, arrivando a mangiare i
propri compagni morti pur di avere qualcosa da mettere nello stomaco, litigando
per quei pochi vestiti che indossavano per avere qualche strato in più per
proteggersi dal freddo. Quando arrivarono a Wŏnsan erano meno della metà di
quanti ne erano partiti da Sudong. Stremati e congelati, cercarono un rifugio
dove proteggersi dal freddo e dal rastrellamento. Riposarono poche ore che
sembrarono pochi minuti per tutti loro.
“Dobbiamo
rubare una barca per andare a Goseong. Lì potremo chiedere asilo.”
“Non
possiamo! Ci scoprirebbero immediatamente! Meglio imbarcarci per una nave
diretta in Russia e da lì raggiungere la Corea del Sud.”
MinJee
ascoltava i suoi compagni prendere decisioni più grandi di loro.
Non
conveniva, invece, prendere una piccola barca e dirigersi verso Goseong? Non le
pareva nemmeno vero. La sua libertà era lì, a poche miglia di distanza, così
vicina e nel contempo così lontana dall’essere afferrata.
“Io
dico di rubare una piccola imbarcazione e andare verso Goseong.”
“Tu
stai zitta. Sei l’ultima arrivata. Chi ti credi di essere per poter decidere
cosa fare?”
Si
zittì immediatamente, mentre la sua mente venne investita dai ricordi di quei
mesi di viaggio, di quello che passò prima che questo viaggio avvenisse.
Nessuno dei suoi compagni sapeva chi fosse in realtà, e nessuno avrebbe mai
dovuto saperlo. Se lo avessero saputo, l’avrebbero sicuramente portata davanti
le guardie per avere una ricompensa.
“È
deciso. Partiremo questa notte imbarcandoci su una nave, destinazione Russia.”
Chiuse
gli occhi inspirando ed espirando profondamente. Non avrebbe seguito quelli che
furono i suoi compagni di viaggio. Loro per la loro strada, lei per la sua.
Ecco perché non disse nulla e si limitò semplicemente ad annuire, aspettando
insieme a loro l’ora concordata. Quando arrivò li seguì per qualche chilometro
scomparendo, poi, fra le varie merci scaricate sulla banchina. Aveva adocchiato
una piccola barca a remi. Sarebbe stata perfetta per lei. Piccola, discreta e
monoposto. Che andassero al diavolo i suoi compagni. Lei era sempre stata una
tipa solitaria, una capace di sopravvivere da sola. Si era solo servita di loro
per arrivare dove era arrivata, tutto qua. Niente di più niente di meno.
Scese
verso l’imbarcazione, vedendo da lontano i suoi compagni entrare dentro delle
casse, che poi vennero caricate dentro un’imbarcazione.
Le
strade erano state decise e divise.
Prese
i remi e cominciò a remare allontanandosi dalla costa quel tanto che bastava
per tenerla sempre sott’occhio.
Remò
a lungo, remò molto, fino a farsi sanguinare i palmi delle mani, le dita, fino
a non sentire le braccia attaccate al busto. Pensava solo a remare, non sapendo
quanti giorni ci avrebbe impiegato, non sapendo se sarebbe mai sopravvissuta
ora che quelle poche scorte di cibo erano finite.
Non voglio morire!
Non voglio morir
Non voglio mori
Non voglio…
Chiuse
gli occhi, mentre le forze abbandonarono il suo corpo, mentre il pensiero di
voler ancora vivere scemava via dai suoi pensieri…
*
Bip.
Bip.
Che
suono fastidioso. Fatelo smettere!
Aprì, non senza difficoltà, gli occhi, mentre
riemergeva da quello stato di dormiveglia. Come quando si dorme e poi ci si
sveglia. Non sapeva nemmeno lei come descrivere quelle sensazioni, come non
sapeva dove si trovasse.
Stanza
dalle pareti bianche, qualcosa di comodo dove sono sdraiata.
Devo
essere sicuramente morta.
E avrebbe continuato a pensarlo se non si fosse
parata davanti la sua visuale una donna.
“Finalmente ti sei svegliata.”
Chi era?
“Pensavamo tutti che non ce l’avresti fatta.”
Che voleva da lei?
“Cosa ci facevi in quella barca? Da dove vieni?”
“Dove… mi trovo…”
“Sei a Goseong, in Corea del Sud. Chi sei?”
Un nodo le bloccò la gola non facendola
respirare. Le lacrime uscirono dagli occhi, trattenute troppo a lungo da una
speranza che sembrava ormai vana. Invece ce l’aveva fatta…
Era riuscita ad arrivare a destinazione.
“Sono MinJee Shin, detenuta del campo di
concentramento numero 15, sezione Zona Rivoluzionaria. Chiedo asilo alla Corea
del Sud”.
§
Adesso
Li devo trovare.
Voglio che loro subiscano le mie
stesse sofferenze.
Voglio che loro provino ciò che ho
provato io.
I dolori, le pene inflitte.
Io non avevo colpa, mi sono trovata
in questa situazione per colpa del destino, mentre loro… loro hanno avuto
fortuna, solo questa.
Adesso è il momento di agire, di
portarli via con me, di fargli vedere cosa ho vissuto per tutti questi anni,
per non far dimenticare loro che…
Il
rumore sordo delle nocche sbattute sulla porta di casa la ridestò dai suoi
pensieri. Chi poteva mai essere a quell’ora di sera? Non aspettava di certo
visite, le uniche che doveva avere le aveva avute quel pomeriggio.
Si
alzò in silenzio dalla sedia, dirigendosi verso la porta.
Il
fiato si condensava in una nuvola di vapore per il freddo che c’era in casa. I
riscaldamenti erano stati tolti. Le uniche fonti di calore che poteva adoperare
erano solamente delle coperte in pile. Ma a lei non dava fastidio il freddo.
Era abituata.
Guardò
dallo spioncino e vide un’anziana signora. Forse la sua vicina di casa. Che
voleva?
Aprire
o non aprire la porta?
Nel
breve istante in cui decise se aprire o meno, vide la signora guardare ancora
la porta e andarsene un secondo dopo. Aveva pensato che non c’era nessuno in
casa?
Meglio prendere le dovute
precauzioni.
Si
avvicinò alla sua vittima legata e imbavagliata. La guardava con un misto di
rabbia e paura, come se volesse provare a liberarsi ma avesse troppa paura per
farlo.
“Adesso
fai la brava.”
Prese
una siringa dal tavolo e la inserì nel braccio della donna che mugolò di
dolore.
“Te
lo ricordi cosa mi dicevi al centro di cura? Mi dicevi che ero pazza, che avevo
delle allucinazioni, che le guardie mi avevano distrutto la mente. Dimmi, ti
sembro pazza?”
Strinse
più forte la presa al braccio della povera vittima, la quale cacciò un urlo di
dolore che venne soffocato dal bavaglio.
“Nessuno
di voi mi ha creduto, nessuno. Loro mi vogliono morta, loro erano nella mia camera, pronti a uccidermi.”
Posò
la siringa sul tavolo e prese un foglio di carta in cui erano disegnati,
grossolanamente, degli omini e degli alberi.
“Li
vedi? Loro si nascondono qui.
Dottoressa, lei mi deve aiutare. Loro vogliono
entrare in casa mia e uccidermi.”
La
dottoressa la guardò con uno sguardo misto di odio e paura. Era andata quella
mattina a vedere come stesse la sua paziente e mai si sarebbe immaginata di
ritrovarsi prigioniera in quelle quattro mura bianche, asettiche, con MinJee
che delirava di uomini che volevano farla fuori. Pensava che fosse guarita, che
fosse riuscita a superare il trauma della fuga, delle torture, della paura
folle che l’aveva condotta alla pazzia, ma fu una speranza vana.
“Ma
lei non mi crede. Certo che non mi crede. Chi crederebbe mai a MinJee, la
ragazza che delira e che ha sempre le allucinazioni? Eh? Io l’ho sentita dire
queste parole ai suoi colleghi, l’ho vista ridere di me con loro. Ma io non
sono pazza, dottoressa, proprio no.”
E
per ribadire il concetto si picchiettò la testa con la mano, sorridendole
malignamente. La dottoressa Lee cercò di liberarsi, mugugnando qualcosa, mentre
MinJee la guardava affascinata, nello stesso identico modo in cui si guarda un
animale che cerca di fuggire. MinJee era attratta da quella donna, infatuata,
soprattutto dai suoi occhi da cerbiatta così diversi dai suoi. Se ne era innamorata
e aveva capito che non avrebbe mai avuto possibilità con lei.
Le
si avvicinò e con una mano le toccò una guancia, constatando come la sua mano
fosse rovente messa a confronto con la pelle ghiacciata del viso della
dottoressa Lee.
“Lo
vede? È solo colpa sua se adesso non potrà più vivere. Fra pochi minuti morirà
qui, in questa stanza, in mia compagnia.”
Lo
sguardo terrorizzato si accentuò ancora di più con gli occhi che si riempivano
di lacrime. La sua vita le stava scivolando tra le mani, impossibilitata a
riprendersela in qualche modo. La dottoressa Lee si chiese che cosa avesse
fatto di male nella sua vita, se avesse mai sbagliato qualcosa e la domanda
alla sua risposta fu solo una: si era trovata nel posto sbagliato al momento
sbagliato un anno prima.
“Buonanotte
Ha-Neul.”
L’ultima
cosa che la dottoressa vide prima di chiudere per sempre gli occhi e
accasciarsi al suolo furono le labbra di MinJee sulle sue.
Il bacio della morte dovuto a un
amore malato di una persona malata.
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