Disclaimer:
La proprietà dei personaggi originali della Terra di Mezzo
che verranno citati in questo testo non mi appartengono, ma sono il
frutto della geniale mente di John Ronald Reuel Tolkien e del
riadattamento cinematografico di Peter Jackson, di cui verranno citati
alcuni momenti chiave.
A
parlare delle cose
belle e dei giorni
lieti si fa in fretta,
e
non è che interessi
molto ascoltare;
invece da cose
gravose, emozionanti o addirittura spaventose
si
può trarre una buona storia,
o comunque un lungo racconto.
J.R.R.
Tolkien
Dale,
2770° anno della Terza Era
-Coraggio
Cliantha- la incitò Alyssa -Sbrigati!
La
sera stava scendendo velocemente e i fuochi appiccati dalla bestia
ancora ardevano implacabili tra le strade, dentro gli edifici in pietra
che non erano ancora crollati e nei giardini delle ricche case della
città alta, la più colpita dalla furia del mostro.
-Madre-
la chiamò la bambina, correndo nella sua direzione, saltando
i detriti di pietra, legno e mattone che intasavano la via -Arrivo.
Portava
con sé una sacca colma di tutto quello che era riuscita a
prendere dalla loro casa, minacciata dalle fiamme che, dalla
città alta, si stavano estendendo verso quella bassa, non
fortificata e abitata dalle classi meno agiate.
Non
vi era stato modo di prevedere una simile catastrofe, soprattutto in
quegli anni di prosperità che la ricchezza di Erebor aveva
portato, e ora che si era abbattuta su di loro, distruggendo le loro
abitazioni e facendo piovere fiamme dal cielo, chi non era perito
tentava la via della fuga, portandosi via quanto poteva. Alyssa,
temendo che oltre dalle fiamme della bestia la vita
dell’unica figlia e la propria sarebbero state minacciate
anche dai sopravvissuti disperati, desiderava uscire il prima possibile
dai confini della città.
-Sei
riuscita a prendere tutto?- le chiese, sollevando la sua sacca e
mettendola dentro al carretto in cui avevano caricato i loro averi.
L’animale attaccato al carro, un grosso cavallo da tiro dal
manto grigio, era stato bendato, ma l’odore di fumo lo
metteva in allarme e i suoi zoccoli battevano nervosamente il selciato
della strada.
-Io
credo di sì- rispose, incerta, la bambina, dai cui occhi
iniziarono a scendere lente delle grosse lacrime e il labbro le
tremò.
Il
cuore di Alyssa si strinse in una morsa davanti all’immagine
della sua adorata bambina sconvolta dalla paura: -Tesoro mio- le
sussurrò ad un orecchio, mentre la stringeva forte a
sé -Andrà tutto bene. Siamo ancora vive e insieme
e la mamma ti porterà in un nuovo posto, lontano e
bellissimo. Va bene?
-E
i miei amici?- chiese Cliantha tra i singhiozzi.
-Forse
li ritroveremo lungo la strada- cercò di incoraggiarla la
madre, spingendola a salire sul davanti del carro, per poi afferrare le
redini del cavallo e condurlo a piedi.
Il
cammino che Alyssa dovette intraprendere per portare la sua famiglia al
sicuro fu molto più lungo di quanto si era immaginata: sotto
alle zampe e al fuoco del drago, diversi edifici erano crollati,
chiudendo le strade e rendendo impossibile il passaggio del carro,
costringendola a imboccare vie secondarie. La paura che qualcuno dei
suoi concittadini le aggredisse per impossessarsi del carro o del
cavallo fece scorrere il tempo più lentamente, facendola
sobbalzare al minimo rumore.
Per
loro fortuna, nella confusione e nel caos della fuga, nessuno
sembrò curarsi di loro e, finalmente fuori dai confini di
Dale, la folla si disperse nelle piane tagliate dal fiume o dentro al
Bosco Atro o, chi possedeva una barca, lungo le correnti del Flutti.
Alyssa
poté tirare un sospiro di sollievo e, tolta la benda al
cavallo, si sedette accanto alla figlia, spronando l’animale
al trotto.
-Dove
andremo adesso, Madre?- chiese la bambina, infilandosi sotto al suo
braccio e accoccolandosi sul suo seno.
-Lontano-
rispose lei -Dove saremo al sicuro- prese le redini con una mano sola e
con l’altra accarezzò la testa coperta di folti
capelli biondi di Cliantha, lasciandole un bacio sulla tempia.
-E
dov’è questo posto?- insistette la bambina.
Alyssa
emise un lungo sospiro: era stanca e provata, le immagini delle fiamme
che scendevano dal cielo come l’ira degli dei e del ventre
squamato del drago che sorvolava le loro teste continuavano a
ripresentarsi nei suoi occhi ad ogni sobbalzo delle ruote. Non era in
grado di sostenere le domande insistenti della figlia, ma,
dall’altra parte, sapeva che Cliantha era scioccata tanto
quanto lei e non voleva metterla ancora più in
difficoltà, così rispose: -Dove più ci
piacerà. Ci fermeremo solo quando avremo trovato una terra
che ci faccia sentire a casa, che ne dici?
Ma
l’unica risposta che la donna ricevette fu il leggero russare
della figlia, che, stremata dalle emozioni, era crollata sulla sua
spalla e dormiva un sonno pesante e inquieto.
Alyssa
ringraziò il Cielo di quel regalo e continuò a
dirigere l’animale lungo la pianura.
Al
calar del sole, la sua strada si incrociò con quella di un
esodo di nani, molti dei quali feriti e malconci, scacciati
anch’essi dalle loro case a Erebor, ormai nuova sontuosa tana
del drago.
La
donna arrestò il carro e osservò quella grande
folla, da cui si ergevano molti lamenti: chi piangeva un amico o un
parente, chi lamentava il dolore per una ferita e chi rimpiangeva la
propria terra e le proprie radici, sradicate da un avido usurpatore.
Alyssa
dovette fare del proprio meglio per trattenere le lacrime che quel
triste spettacolo le procurava: i nani erano sempre stati dei nobili e
onesti vicini di casa per gli abitanti di Dale, che da generazioni
avevano stretto con loro dei solidi patti di amicizia e commercio, e
agli occhi della donna quella tragedia era stata una tremenda
ingiustizia del fato.
Al
sopraggiungere di una barella su cui un bambino nano senza
più una gamba gridava di dolore, Alyssa non poté
trattenersi dal scendere dal carro e corrergli incontro: -Aspettate-
urlò ai due nani che sorreggevano la barella e che la
fulminarono con uno sguardo carico d’astio -Sono una
guaritrice- disse Alyssa quando li ebbe raggiunti -Lasciate che lo
aiuti!
-Chi
sei, donna?- tuonò una voce alle sue spalle, bloccandola
prima che potesse toccare il bambino.
Alyssa
si voltò e vide il nano che le aveva parlato: era giovane e
vestito di abiti belli e di buona fattura, lunghi capelli corvini,
impastati di sangue, gli scendevano lungo l’ampia schiena
muscolosa e il suo viso era disegnato da lineamenti nobili e armoniosi.
-Sono
Alyssa Pike- si presentò, accompagnando le parole a un
inchino, dato che nel nano aveva riconosciuto il principe di Erebor
-Sono una guaritrice e sono fuggita da Dale. Nel mio carro ho il
necessario per impedire che il bambino sviluppi un’infezione
o muoia dissanguato. Permettetemi di aiutarlo, mio signore.
Il
principe la squadrò da cima a fondo, con il piglio severo di
un capo, e le domandò: -E cosa vorresti in cambio del tuo
servizio, Alyssa Pike?
-Nulla,
mio signore- rispose quella -Non chiederei nulla a chi ha perso tutto.
Quella
risposta sembrò colpire il nano, che si offrì di
aiutarla nell’operazione e la seguì
quand’ella condusse lui e i nani che trasportavano il suo
paziente al carro.
-Madre…-
chiamò Cliantha, svegliata dai rumori dei passi dei nani che
si avvicinavano e dai lamenti del bambino.
-Va
tutto bene, tesoro-
la
rassicurò Alyssa, correndo a frugare tra le cose nel carro
per prendere l’occorrente per l’intervento
-Prendimi l’olio di rosmarino dalla sacca, per favore.
La
bambina annuì e aiutò la madre a prendere quanto
chiesto, sotto gli occhi sorpresi del principe: -Ora tenetelo fermo,
per cortesia- chiese Alyssa, imbevendo di olio un panno di lino, mentre
i tre nani obbedivano alle sue indicazioni.
Quando
il bambino fu saldamente immobilizzato, la donna espose la ferita e la
strofinò con il panno bagnato d’olio; le urla di
dolore del piccolo furono così forti da far vacillare per un
istante il cuore del principe e i suoi occhi corsero alla bambina che,
al fianco della madre, le preparava nuovi panni imbevuti di unguento.
Il nano si sarebbe aspettato di vedere la piccola terrorizzata o
sconvolta, ma quella non dava segno né di terrore
né di turbamento, al contrario il suo volto era impassibile
come una maschera di cera ed egli si fece coraggio e
rinsaldò la presa sul paziente: se una bambina umana poteva
resistere a quella scena straziante, anche lui avrebbe dimostrato la
stessa fermezza.
-Tranquillo,
piccolo- disse Alyssa, accarezzando la guancia leggermente barbuta del
bambino -È quasi fatta.
La
sua voce, tuttavia, tradì la tensione che provava per quello
che sarebbe venuto dopo: le sue mani, infatti, ebbero un tremore quando
estrasse da un vaso di coccio, accuratamente avvolto in una grossa pila
di indumenti di lana, un oggetto affusolato e rilucente di una sinistra
luce arancione che il principe, dopo qualche istante di
incredulità, riconobbe come un coltello.
-Che
cos’è quello?- chiese alla donna, ma quella non
rispose e, silenziosa come un’ombra, appoggiò di
piatto la lama rovente del pugnale sulla ferita aperta, che
emanò subito un puzzo acre di carne bruciata.
Dopo
un primo momento di folli grida, il bambino svenne e Alyssa
poté terminare di cauterizzare lo squarcio senza il paziente
si divincolasse. Quand’ebbe finito, con il volto pallido come
un cencio e gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, la donna ripose
l’oggetto ancora rovente dentro il vaso e lo
caricò sul carro, mentre i due nani, prodigatisi in
ringraziamenti, tornavano tra la folla con il bambino sulla barella.
-Che
cos’era?- ripeté il principe quando lui e la donna
furono rimasti soli.
-Fuoco
di drago- spiegò Alyssa, dandogli le spalle ancora intenta a
sistemare le cose sul carro -Ho arroventato il coltello tra le fiamme
di Dale. È una risorsa preziosa e lo terrà
incandescente per giorni e giorni.
-Perché
lo hai conservato?- domandò il principe, costringendola a
girarsi e a guardarlo negli occhi, le cui pupille erano strette di
rabbia e paura.
-Ero
da sola con mia figlia- spiegò Alyssa, la cui voce aveva
perso ogni intonazione -Avevo bisogno di sapere che avrei potuto
difenderla e, all’occorrenza, accendere un fuoco per
scaldarci.
Le
dita del nano, che fino a quel momento avevano stretto in una morsa le
braccia della donna, lasciarono la presa e scesero a sfiorarle le mani,
che lei non ritrasse: -Dove siete dirette, tu e tua figlia?
-Non
lo so... - ammise Alyssa, con la voce rotta, prossima a scoppiare in
pianto, poi fu come se avesse avuto un’illuminazione e
continuò a parlare: -Ho delle conoscenze a ovest, oltre le
Montagne Nebbiose. Potremmo chiedere asilo lì.
-Allora
verrai con noi- decretò il nano -I nostri passi ci conducono
a Moria, ma potrai seguirci fino a quando le nostre strade non si
divideranno e… che cosa fai?- tuonò il principe
con quanto fiato aveva in gola, lanciandosi verso Cliantha che, come
incantata dal coltello con cui la madre aveva operato, aveva aperto il
vaso e vi stava infilando la mano sinistra.
Il
principe afferrò la piccola e la strattonò
lontano dall’oggetto, ma ormai era tardi e Cliantha urlava
per il dolore della scottatura che si era procurata. Egli la strinse a
sé nel tentativo di confortarla, ma il grido che quella
piccola bocca emetteva non accennava a scemare; Alyssa intervenne,
costringendola ad aprire le dita per valutare il danno, e sotto ai suoi
occhi e a quelli del nano Cliantha mostrò una terribile
piaga fumante a forma di triangolo che dal mignolo convergeva al
pollice.
✵
Brea,
2941° anno della Terza Era
La
pioggia cadeva incessantemente da tutta la notte, trasformando le
strade di terra battuta in trappole di fango appiccicoso, e non
sembrava essere intenzionata a voler smettere. Le grondaie dei tetti
vomitavano acqua incessantemente, creando, goccia dopo goccia, delle
larghe pozze di fanghiglia diluita che macchiava i vestiti e
inzaccherava le scarpe dei passanti che malauguratamente si trovavano
nell’obbligo di dover camminare in strada.
Sfortunatamente
per lei, Cliantha era una di questi e, mentre gli stivali affondavano
nella palta fredda e viscida, con una mano stringeva il cappuccio del
mantello sotto al naso, mentre con l’altra si teneva ai conci
sporgenti delle mura delle abitazioni, trovandosi più volte
a doversi aggrappare con entrambe le mani per evitare di scivolare.
Finalmente,
dopo minuti di disagio tra il fango e l’acqua incessante,
l’insegna della locanda presso cui lavorava come cameriera si
stagliò contro il buio di quella mattina fredda alla luce di
un fulmine e la ragazza venne accolta dalla sagoma del Puledro
Impennato.
-Buongiorno-
salutò, togliendosi il mantello zuppo e appendendolo
all’attaccapanni accanto alla porta.
-Togliti
gli stivali!- le urlò la signora Cactaceo da dietro il
bancone, intenta a lucidare i boccali della birra, che poi disponeva
sulle mensole alle sue spalle -Ho appena lavato il pavimento.
-Buongiorno
Cliantha- borbottò tra sé la ragazza, mentre si
sfilava gli stivali e li riponeva in un piccolo vano -Come stai
stamattina? Hai fatto colazione?
-Che
stai dicendo?- le urlò di nuovo il donnone, battendo la
grossa mano grassoccia e rosa contro il legno di betulla.
Cliantha
si alzò con studiata lentezza e le rivolse il più
dolce dei suoi sorrisi: -Mi lamentavo del tempo, Dora.
La
padrona del locale storse la bocca priva di metà dei denti,
come se volesse dirle qualcosa, poi sembrò ripensarci e
riprese a fare il suo lavoro: -Pensa a lavorare piuttosto che a
lamentarti, non ti pago per fare quello che fa già il signor
Cactaceo. Occupati delle stanze del piano di sopra e poi scendi a
disporre la colazione per gli ospiti.
La
ragazza emise un sospiro e andò nel retrobottega a prendere
un paio di pantofole, uno spazzolone, un secchio per l’acqua
e del sapone e salì le scale scricchiolanti che conducevano
al piano superiore dove la locanda possedeva le stanze da letto degli
ospiti e la camera privata dei padroni.
Le
stanze si disponevano lungo un corridoio che attraversava
longitudinalmente tutto l’edificio e si affacciavano su una
balaustra che dava sulla sala principale del pian terreno, dove erano
distribuiti i tavoli.
L’ultima
stanza in fondo al corridoio, nascosta rispetto alla balaustra, era
quella dei padroni da cui la ragazza, ogni mattina, sentiva il signor
Angus Cactaceo russare come un vecchio trombone, smaltendo i postumi
della sbornia. Cliantha ignorò, anche quella mattina, i
fragorosi gorgoglii del padrone di casa e entrò nella prima
stanza, vuota. Pulì il pavimento, rimosse la polvere dal
comodino e dalla mensola della finestra, strofinò i vetri
con energia e batté con foga i tappeti fuori dalla finestra.
Rassettò e tirò a lucido ogni superficie e alla
fine fece il letto con le lenzuola che la padrona aveva lasciato sul
materasso.
Continuò
così anche con le altre stanze non occupate e poi
passò al corridoio, strofinando con lo spazzolone il
pavimento di legno fino a quando la superficie non divenne uno
specchio; conclusa anche quella mansione, la ragazza scese al piano
inferiore e, riposti gli attrezzi per le pulizia, passò in
cucina. La signora Cactaceo aveva finito di pulire i bicchieri e si
trovava in cucina ad alimentare il fuoco che scoppiettava nel braciere
della stufa in ghisa, sopra la quale grossi pentoloni di porridge e
acqua per il tè bollivano.
-Il
signor Cactaceo dorme ancora?- chiese la donna, con lo sguardo fisso
nella luce arancione delle fiamme.
Cliantha
andò alla credenza e iniziò a prendere piatti,
tazze e bicchieri e a impilarli uno sopra all’altro sopra al
piano di lavoro: -Sì- rispose -Quanti ospiti hanno chiesto
la colazione?
-Quattro.
Due il porridge, uno pane e marmellata e un altro carne secca e
caffè.
La
ragazza annuì, prese in fretta e furia la montagna di
stoviglie che aveva accumulato e corse a disporli nella sala: non
provava particolare simpatia per la signora Cactaceo, era una donna
scorbutica, rozza e non mancava occasione di rinfacciarle quanto fosse
stata generosa il giorno in cui aveva accettato di assumerla come
cameriera nel suo locale dopo la morte di suo padre.
Tuttavia,
nemmeno l’antipatia che Dora Cactaceo le infondeva, poteva
impedirle di provare pietà per il modo in cui veniva
trattata dal marito, un uomo pigro e violento con il vizio del bere.
Cliantha
non poteva sopportare nemmeno di vederlo e il suo russare, per quanto
fastidioso, era assai molto più tollerabile del suo puzzo di
alcool e degli sguardi lascivi che le lanciava quando il caldo umido
dell’estate la costringeva a indossare abiti che lasciavano
le braccia scoperte.
Avrebbe
voluto lanciargli una brocca sul viso rubicondo ogni volta che i suoi
occhi acquosi e privi di intelligenza scorrevano sulla sua pelle o che
la sua bocca marcia le parlava, il più delle volte
chiedendole di raccogliergli qualcosa da terra o di versargli da bere.
Per
sua fortuna, però, il signor Cactaceo trascorreva gran parte
delle ore del giorno rintanato nel letto e Cliantha passava la notte
nella casa dei suoi genitori.
-Non
appena avrai messo da parte abbastanza per andartene, Cliantha- si
ripeteva ogni sera la ragazza prima di coricarsi -Sarai libera di
andare dove vorrai. Niente limiti. Niente vincoli.
E
così trascorreva i suoi giorni nella locanda del Puledro
Impennato, una delle più frequentate della città
di Brea, al di qua (o al di là a seconda di chi lo
raccontava) del Brandivino.
Anche
quel giorno di acquazzone passò come gli altri, tra le
pulizie, i servizi al tavolo, la lavanderia e le urla gracchianti della
padrona di casa, fino a che scese la sera e venne il momento
più animato della giornata, quello in cui gli uomini del
posto vengono a bere per scaricarsi della fatica del lavoro e i
viaggiatori entrano alla ricerca di un pasto caldo e di un boccale di
birra fresco e schiumoso.
La
pioggia battente, tuttavia, sembrava aver scoraggiato i più
ad uscire in strada e la locanda era insolitamente tranquilla, fatta
eccezione per gli habitué e gli ospiti delle stanze del
piano superiore.
La
signora Cactaceo si faceva in quattro per tenere l’umore alto
e gioioso e invitare i suoi clienti a bere e la sua esperienza,
acquisita con anni e anni di lavoro dietro a quel bancone, stava dando
i suoi frutti, al punto che Cliantha aveva difficoltà a star
dietro alle richieste di tutti e a portare nel minor tempo possibile a
chi la birra, a chi il vino, a chi un piatto di zuppa.
Verso
le nove della sera il campanello dell’ingresso
tintinnò allegramente e il rumore dell’acqua che
sgorgava dalle gronde entrò nell’ambiente rumoroso
e ridanciano della sala principale: un nuovo cliente era arrivato a la
signora Cactaceo corse alla porta per accoglierlo degnamente.
Cliantha
era impegnata a spillare l’ennesima pinta di birra, quando il
nuovo avventore fece il suo ingresso nel locale, ma lesse gli effetti
del suo arrivo nei volti e negli sguardi degli altri clienti: molti di
loro, infatti, notandolo, erano diventati più silenziosi,
altri lo scrutavano di sottecchi attraverso il vetro dei loro bicchieri
mentre fingevano di svuotarli e altri ancora bisbigliavano
sommessamente tra loro, dicendosi chissà cosa.
Notando
quello strano cambiamento, Cliantha attese che il nuovo venuto
giungesse al bancone e lo studiò: la prima cosa che
notò era che si trattava di un nano, cosa piuttosto insolita
da quelle parti, ma non così rara da giustificare quella
reazione. A giudicare dai capelli neri saltuariamente striati di
argento e dalle sottili rughette che si diramavano dagli angoli esterni
degli occhi, la ragazza dedusse che fosse prossimo a raggiungere la
metà della sua vita, pur portando più che bene i
propri anni, dato che la sua corporatura, nascosta sotto gli abiti da
viaggio, sembrava armoniosa e atletica.
Il
nano si avvicinò al bancone e con tono cortese e beneducato
domandò un tavolo dove cui sedersi e mangiare.
-Naturalmente-
rispose per lei la signora Cactaceo dall’ingresso, dove stava
sistemando il mantello fradicio del nuovo arrivato -La ragazza vi ci
porterà subito. Ehy tu!- urlò poi -Datti da fare!
-Da
questa parte, prego- sospirò la ragazza, uscendo la sotto il
bancone dopo che ebbe consegnato la birra all’uomo al banco e
si fu asciugata le mani nel grembiule; il nano la seguì
attraverso l’ampia sala e lei lo condusse ad un piccolo
tavolo davanti al camino: -Stasera deve fare un gran freddo
là fuori- disse Cliantha, smuovendo con una molla i ceppi
dentro al camino -Così ve ne starete al caldo e vi
asciugherete.
-Ti
ringrazio- le sorrise il cliente, accomodandosi alla sedia.
La
ragazza lo osservò per qualche istante: avevano attraversato
la sala e gli occhi di tutti non li avevano lasciati per un secondo.
Cosa c’era di così strano o di speciale in quel
nano? A parte il fatto che avesse delle maniere molto più
gradevoli di quelle di tutti gli altri clienti messi insieme. E anche
degli occhi molto acuti e vivaci di un bel colore azzurro.
-Cosa
posso portarvi?- domandò la ragazza.
-Cosa
avete di caldo e pronto?- chiese quello di rimando -Sono molto affamato
e stanco. Vorrei chiedervi anche una stanza per la notte se
l’avete a disposizione.
-Sì
ne abbiamo- rispose Cliantha -Se avete bagagli all’ingresso
posso portarveli di sopra più tardi.
Il
nano sorrise a quell’offerta, ma declinò: -Non
sarà necessario, posso portarli da me. Cosa offre la cucina?
-Abbiamo
della zuppa di zucca, delle salsicce alla griglia e della torta-
elencò la ragazza, facendo la conta con le dita -Ma se
vorrete aspettare qualche minuto posso prepararvi qualunque cosa
desideriate.
-Andrà
benissimo così, grazie. Da bere prenderò della
birra scura, se ne avete.
-Ne
abbiamo, ne abbiamo- rispose Cliantha, piacevolmente sorpresa dai modi
cordiali di quel cliente insolito -Arriva tutto tra un momento.
Con
l’ordine ben impresso in testa, la ragazza volò in
cucina e preparò un vassoio con un bel piatto di zuppa
fumante per la prima portata, che decise, data la gentilezza del suo
cliente, di decorarlo con un rametto di timo e una spolverata di pepe;
versò la birra scura dentro un boccale e prese il vassoio,
pronta per portarlo al nano, ma prima che potesse uscire dalla cucina,
la signora Cactaceo la bloccò, ostruendole la via con il suo
grosso corpo: -Quello è uno che ha soldi- sibilò
la donna, quasi temendo che il nano potesse sentirla -Vedi di dargli da
bere e di spremerlo per bene.
-Il
signore aspetta la zuppa- rispose secca la ragazza, scostando con il
gomito il braccio della donna e oltrepassando la soglia della cucina,
ma quella l’afferrò per il grembiule e la
trattenne di nuovo: -Non farti abbindolare- le sussurrò a un
orecchio e il suo occhio fece caso alla piccola decorazione che
Cliantha aveva preparato sul piatto -Quelli gentili e carismatici sono
i peggiori.
Finalmente
l’artiglio della donna mollò la presa e Cliantha,
scossa da quella breve ma inquietante discussione, poté
tornare alle sue mansioni. Quando arrivò a portargli la
zuppa, il nano si stava scaldando la schiena davanti al fuoco e,
vedendola avvicinarsi, tornò al suo posto, già
pregustandosi il calore di quella portata, ma Cliantha notò
che, quando la sua mano si aprì per lasciare il piatto sul
tavolo, gli occhi del nano indugiarono sul suo palmo e le sue
sopracciglia si aggrottarono, creando dei profondi solchi nella sua
fronte ampia.
A
disagio, Cliantha ritrasse subito la mano e, dopo avergli augurato un
buon appetito, si allontanò, turbata; dietro al bancone,
impegnata a servire alcolici, i suoi occhi caddero spesso sulla
porzione triangolare di pelle rossa e raggrinzita che dalla nascita
marchiava il suo palmo sinistro. Era una piccola deformità
che non la penalizzava in alcun modo, eccetto per il fatto che, chi se
ne accorgeva, mostrava sempre un certo disagio, la fissava e, talvolta,
ne restava addirittura disgustato. Una volta capitò persino
che un cliente si fosse rifiutato di ricevere cibo o bevande da lei
perché troppo nauseato dalla sua mano.
Con
gli anni aveva imparato a conviverci e gli stessi avventori della
locanda, quelli più abituali, ormai nemmeno la notavano
più (e per forza, pensava malignamente la ragazza, dato che
per la metà del tempo erano brilli), ma lo sguardo cupo che
quel nano le aveva lanciato l’aveva fatta sentire esposta e
deforme, esattamente come quando quel disgraziato aveva esternato il
suo disgusto davanti a tutti gli altri clienti provando a indovinare a
quale terribile malattia fosse stato dovuto.
Al
momento di consegnare la seconda portata, un abbondante piatto di
salsicce con contorno di patate saltate, Cliantha risolse indossando un
guantone da forno, preparandosi a giustificarsi con la scusa che il
piatto fosse molto caldo, ma al suo arrivo il nano non
commentò e riprese a mangiare in silenzio, pensieroso.
Fu
quando Cliantha ebbe portato il piatto della zuppa vuoto
nell’acquaio che un secondo bizzarro cliente fece la sua
comparsa nella locanda. Questa volta, però, la padrona
sembrò conoscerlo, perché i suoi modi furono
molto meno cerimoniali del solito e, quando le chiese di portargli un
bicchiere di vino rosso, ella grugnì in risposta.
Era
un viaggiatore con un lungo cappello a punta di colore grigio, abbinato
al mantello di spessa lana del medesimo colore, sembrava molto anziano
e la sua pelle era coperta di macchie e rughe, ma, nonostante il
bastone da passeggio, sembrava essere ancora molto saldo sulle proprie
gambe e il suo sguardo era lucido e intelligente.
Cliantha
lo osservò attraversare la sala e, senza l’ombra
di un’esitazione, sedersi al tavolo dove il nano consumava la
seconda portata della sua cena. Si conoscevano? A giudicare
dall’iniziale fastidio dipinto sul volto del nano, Cliantha
dedusse che il vecchio non fosse esattamente desiderato e
già si era messa in moto per invitarlo a prendere posto ad
un tavolo libero, ma poi il viaggiatore disse qualcosa che
cambiò le carte in tavola e ottenne la piena attenzione del
nano.
Cliantha
allora si arrestò e vide che il nano lanciava sguardi
sospettosi verso gli altri avventori della locanda, intercettandone
qualcuno che lo stava osservando; quella storia stava iniziando a
insospettirla, ma sentiva di non saperne abbastanza, così,
con la scusa del bicchiere di vino e della fetta di torta, si
avvicinò silenziosamente al tavolo: -Mi sono imbattuto in
alcuni sgradevoli personaggi mentre viaggiavo il Verdecammino-
raccontava il vecchio, aspirando dalla lunga pipa che teneva in mano
-Mi hanno scambiato per un vagabondo.
-Immagino
che se ne siano pentiti…- ribatté il nano, la
voce velata di ironia.
-Uno
di loro portava un messaggio- continuò il vecchio, estraendo
qualcosa da sotto il mantello e mostrandolo al nano, ma che Cliantha
non riuscì a distinguere -È Lingua Nera questa:
una promessa di pagamento.
-Per
cosa?- chiese il nano.
-La
tua testa.
Il
cuore di Cliantha perse un battito e per poco non le scivolò
il vassoio di mano: cosa diamine stava succedendo là dentro?
Da quando a Brea, una piccola cittadina tranquilla e monotona,
circolavano cacciatori di taglie? Prese un respiro profondo e fece del
proprio meglio per sembrare disinvolta quando arrivò al loro
tavolo in un momento di silenzio nella loro conversazione, poi, tenendo
la mano sinistra ben nascosta sotto al vassoio, li servì con
quanto avevano chiesto.
-Ora
vado a preparare la vostra stanza- spiegò al nano prima di
tornare al bancone -Vi procurerò una coperta in
più.
-Non
sarà necessario- rispose il nano, senza distogliere per un
istante lo sguardo dal vecchio, che lo osservava serio formando volute
di fumo con la bocca -Ho cambiato idea. Ripartirò subito.
Portami il conto, per favore.
-Anche
a me, grazie- si intromise il viaggiatore, sorridendole dolcemente
-Sono solo di passaggio.
Cliantha
annuì con la testa e si dileguò, ritornando un
istante dopo con i loro conti, che i due onorarono; presi i loro
mantelli, nano e viaggiatore si immersero nel temporale, svanendo
nell’oscurità interrotta solo dai bagliori freddi
e brevi dei fulmini che tagliavano il cielo.
-Non
lo hai spremuto abbastanza- si lamentò la signora Cactaceo
quando, venuta l’ora di chiusura, contava il denaro
guadagnato, mentre Cliantha passava il pavimento con lo straccio,
pulendolo dal fango degli stivali e dagli schizzi di birra -Hai perso
l’occasione di avere un extra sulla paga.
Sottolineò
il concetto chiudendo di scatto il cassetto dell’incasso e
assicurandolo a doppia mandata con la chiave di ferro arrugginito che
teneva in una tasca nascosta della sottana.
L’autrice:
salve a tutti e grazie per essere arrivati alla fine di questo primo
capitolo della mia storia! Spero che sia stato di vostro gradimento e
che vorrete continuare con la lettura del prossimo, in caso contrario
vi ringrazio per il tempo che vi avete dedicato e vi auguro di trovare
una storia che possa toccare le corde del vostro cuore meglio di quanto
abbia fatto questa.
Sono
una scrittrice a tempo perso, ma lo faccio con passione e vorrei
migliorarmi, perciò sarò ben lieta di accettare i
vostri commenti e le vostre critiche costruttive, qualora vogliate
esprimerle.
Alla
prossima e un abbraccio,
Desma
Ps.
I signori Cactaceo sopracitati sono i genitori del più
famoso proprietario del Puledro Impennato. Nei tempi della storia la
signora Cactaceo è ancora lontana dalla prospettiva della
maternità.
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