la stanza sul porto
LA STANZA SUL PORTO
Ti osservo tra gli spicchi di luce che filtrano la penombra della
stanza, raggi malriposti di pulviscolo opalescente. Uno
scintillìo rutilante ti accarezza, sfiora la linea tesa del
ventre, si fa diamante sul tuo torace un poco sudato, fin sulla vetta
aguzza del collo, e il profilo tutto.
Sento ancora il tuo calore.
Mi muovo lenta, quasi temessi di svegliarti. Trattengo il respiro
mentre raccogli un mio bacio nell’incavo del palmo.
Ho ancora sulle labbra il sapore di parole forti e necessarie come mani
urgenti, quasi che l’amore, se non lasciasse impresso il suo
fuoco sulla pelle, non fosse vero abbastanza.
- Dove vai? -, mi fermi, la voce un poco bassa.
- Ho sete -.
Ti immagino dischiudere gli occhi per guardarmi frugare nella borsa e
portare qualcosa alla bocca, un chiaroscuro di donna su cui la luce si
posa senza pudore. Seguire il capo che si reclina, mentre i capelli si
riversano sulle spalle, una massa scura scompigliata dalla risacca del
tuo abbraccio tra le lenzuola, solo qualche istante prima.
- Sei bella -.
Non è per questo che mi vuoi, in fondo?
- Vieni -.
- Vieni qui -, mi richiami a te, di nuovo, quasi potessi svaporare al
pari di un sogno sognato all’alba. O temi che io non voglia
ubbidirti? Questo pensiero mi fa sorridere.
Quanta fragilità sospesa in questa stanza! Siamo corpi nudi
d’amanti impressi su tela da pittori di talento, eppure non
saremo nulla tra qualche ora. Lo sai bene.
Abbasso gli occhi, torno a sdraiarmi sul letto, la guancia poggiata
nell’incavo del tuo braccio.
E tu mi sfiori il viso con le dita: due volti a specchio, riflessi in
un incastro antico.
I tuoi occhi scrutano in profondità il mio sguardo, affisso
su di te. Una volta mi hai detto che ci hai visto dentro il colore del
mare alla sera.
- Dimmi cos’hai -.
Respiri la mia pelle, sa di acqua e sale e del tuo odore, confuso al
mio.
Cosa vedi nei miei occhi… cosa ci vedi, adesso?
Lo senti questo infinito che ci avvolge? Ci ho creduto così
tanto. O forse è solo il mio cuore che
sente e tu sei
il riflesso della mia infinita capacità di fidarmi dei
sogni, fattasi carne, esplosa fuori, come un fiore che
d’improvviso sboccia, inonda il mondo dei suoi colori, fino a
non ricordare più il piccolo seme nero da cui proviene.
Ci hanno cresciute così.
Ci hanno insegnato così.
Da tempi immemori si rifrange l’immagine che avete avuto di
noi.
E io non so nulla dell’amore, se non quello che ho imparato
mio malgrado da te.
Non c’è amore se ci sono catene.
Non c’è amore se non c’è
scelta.
- Non è niente -, ribatto, infine. Non credo tu voglia
sapere veramente tutto questo.
Ne abbiamo parlato a volte, non è cambiato molto, e allora,
sai, la malinconia è un attimo, permea tutto come brina
sottile, illanguidisce lo sguardo, rallenta i sensi. Vuoi davvero che
cali fra di noi, adesso?
- Niente? -.
- Sto bene -.
-… ma?
-, mi incalzi.
- Vorrei una vita per noi… sì, vorrei una vita
per noi -, mormoro infine, in un soffio.
Le mie parole sono un sussurro che resta impigliato alle trine di un
letto sfatto prima di perdersi velocemente nel tempo senza tempo di un
tardo pomeriggio qualunque, tra il vocìo testardo dei
gabbiani e le sirene cupe delle navi in partenza.
- Sai che non posso -.
E’ lo stesso copione che si ripete, ogni volta più
sommesso, quasi arreso. Come raccontarsi cose a cui non si crede
più, ma a cui si resta avvinti, credo per abitudine, o per
la sottile consapevolezza che le parole creano realtà solo
se pronunciate da qualcuno.
Ed è strano come il cuore erompa e non si spezzi, ma
inciampi a malapena in un battito, e porti un che di amaro alla gola,
una nota stonata alla testa, e il quadro si discolori in fretta, come
un acquerello troppo diluito.
Ti giri su di me, a farmi lusinga di un bacio ruvido e intenso, che
scacci ogni parola molesta dalla mia bocca e riaccenda
l’unica follia che ci tiene avvinti in questa camera, la
nostra, non lontano dal porto e dal mare vasto che si intravvede da
quassù.
Ogni volta temendo che sia l’ultima, e noi irriducibili, a
imprimerci promesse improbabili in cuori assetati come campi riarsi,
finché torna a soffiare forte l’ostro, e le siepi
rifioriscono, e la calura afosa sfianca i corpi nell’ultimo
abbraccio, e poi di nuovo esplode la tavolozza impazzita dei viali
d’autunno, e il mare sbatte furioso contro i muraglioni della
darsena, e noi ancora fusi qui, nel pozzo senza luna degli amanti.
Ti lascio fare.
Lascio che mi ami come solo tu sai fare.
Ha un che di dolce, in fondo, un addio. Di sacro, stavolta.
E così sia.
Ci siamo rivestiti quasi senza guardarci, come d’abitudine.
Troppo doloroso incontrare gli occhi dell’altro, accorgerci
dello squallore delle pareti che d’un tratto appaiono troppo
sciupate dal salmastro, e delle pietre fredde del pavimento, che gelano
la pelle, fin sulle braccia.
Socchiudo la finestra, respiro l’aria del mare che arriva sin
qui. Ascolto il grido dei gabbiani che solcano le onde, sfidando i
pescherecci, squarci di bianco sulla distesa azzurra delle onde.
C’è un’ultima cosa che vorrei dirti.
Ma forse lo capirai da te.
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