L
Ve l'avevo
detto che sono pazza...
RUINS -
Capitolo primo
La gente vive. La gente
muore. E' un dato di fatto. E' normale che sia così. Lo sappiamo tutti.
Quando ho preso la
decisione di diventare un medico non mi sono mai illuso di poter salvare la vita
di ogni paziente. Le persone non sono immortali e ci sono malattie per le quali
non sempre si riesce a trovare una cura, ferite per le quali a volte è ormai
troppo tardi. Nonostante ciò, io ci metto tutto il mio impegno e la mia
passione, faccio l'impossibile, anche quando sembra certo che non ci sia più
alcuna speranza. Così sono riuscito a salvare molte vite, anche quando tutto
sembrava perduto. Ma purtroppo non sempre.
Erano spesso persone
anziane, o malati terminali, una volta anche un ragazzo. Aveva un tumore al
fegato. Nessuna cura ha funzionato, nemmeno il trapianto. L'organo non era così
compatibile come sembrava.
Era giovane, e
probabilmente non meritava di morire così presto. Nessuno merita di morire così
presto. Ma era malato. Possiamo incolpare il destino, gli dei, i medici stessi,
me stesso se voglio. Ma era malato. So di aver fatto tutto il possibile ed anche
l'impossibile. Posso essere triste e deluso di me stesso, ma posso anche capire.
Quel giovane era malato.
Lui no.
Questa volta è diverso. Lo
sapevo che sarebbe potuto succedere. E alla fine è successo.
Non basta l'acqua fresca
con cui mi lavo le mani ed il viso a farmi stare meglio. Sarebbe tutto più
facile se anche le preoccupazioni potessero scivolare giù nello scarico del
lavandino.
- Mamoru, va tutto bene? -
mi chiede il mio collega, Isei, bussando alla porta dello spogliatoio adiacente
alla sala operatoria.
Sono rimasto solo io. Tutti
gli altri impegnati insieme a me nell'operazione se ne sono già
andati da un po', chi a casa, chi nel proprio studio, chi in corsia, compreso
Isei. Era stato chiamato d'urgenza per questo intervento, teoricamente oggi è
il suo giorno libero. Dovrebbe essere sulla via del ritorno, non qui.
Prima che possa rispondere
alla sua domanda o anche solo invitarlo ad entrare, la porta si spalanca e lui
fa capolino nella stanza.
- Perchè sei ancora qui
dentro?
Il sospiro che faccio è
coperto dal rumore dell'acqua che scorre dal rubinetto ancora aperto. Lo chiudo e mi
asciugo il viso e le mani con una salvietta, restando in silenzio.
- La gente muore, Mamoru.
Non puoi salvare tutti. - la sua voce è dura.
Isei ha senz'altro più
esperienza di me. Ha undici anni di lavoro alle spalle ed è un uomo molto
rigoroso e pratico. E' in gamba. Ed ha perfettamente ragione. Ma non è questo
il punto.
- Lo so. - gli rispondo
semplicemente.
Ci scambiamo uno sguardo. I
suoi occhi scuri e attenti mi scrutano attraverso le lenti degli occhiali. Ha
l'aria scettica. Le labbra sono serrate, tanto da sembrare più sottili di
quanto non siano in realtà, e l'intero volto ha un'espressione severa, di
rimprovero, che i suoi tratti marcati non fanno altro che accentuare. Ha indosso
un paio di pantaloni chiari ed una camicia a mezze maniche. Come immaginavo
stava per tornarsene a casa.
- Perchè è ancora qui?
- Ho notato che eri strano.
Quando abbiamo perso il pa...
- Va tutto bene. - mi
affretto a rispondere - Lo so come vanno queste cose. Non è la prima volta che
succede.
- Ma è la prima volta che
ti vedo così turbato.
- Non è per quello che è
successo in sala operatoria comunque.
C'è un minuto di silenzio
durante il quale continuiamo a fissarci. Lui non sembra credere alle mie parole,
ed in parte fa bene. Quello che ho detto è vero solo a metà.
- Mamoru, sei un bravo
chirurgo. Potresti diventare uno dei migliori. Sarebbe un peccato se ti
lasciassi distrarre da queste cose. Non sei un dio.
Un sorriso ironico spunta
sulle mie labbra - Non ho mai creduto di esserlo.
- Bene. Allora smettila di
autocommiserarti qua dentro per la tua presunta incapacità e torna al lavoro.
Non voglio vederti così.
- Ha visto com'è morto.
Non è stato... - Isei si è avvicinato a me e mi ha posato una mano sulla
spalla, prima che cominciassi ad alzare la voce dalla rabbia.
- Hai fatto un ottimo
lavoro, ma era troppo tardi. Vedo che lo sai anche tu, quindi basta.
Costringo i muscoli delle
spalle a rilassarsi e scuoto leggermente il capo, nella speranza di dare almeno
l'impressione che abbia deciso di seguire il suo consiglio e non pensarci. E'
maledettamente difficile. Ma Isei è, se non il primario del reparto, il
chirurgo più bravo e rispettato tra tutti. Sono tra le poche persone a cui
concede un minimo di confidenza. Per questo non voglio fargli una cattiva impressione. Lui sembra soddisfatto
così ed accennando un sorriso mi saluta velocemente e mi lascia nuovamente da
solo.
No. Purtroppo non basta. Sapere
di aver fatto del mio meglio non è sufficiente per dimenticare. Non ha nulla a
che vedere con quello che mi ha veramente turbato.
L'ennesimo sospiro
frustrato esce dalle mie labbra mentre recupero il camice bianco
dall'appendiabiti e me lo infilo sistemandolo sulle spalle e abbottonandolo
lentamente.
Lo so benissimo che le
persone prima o poi muoiono, di vecchiaia, per malattia, per un incidente... Ma
per mano di un uomo... Morire per mano di un altro uomo... Non lo capisco. Non
ha alcun senso.
Quel ragazzo aveva appena
vent'anni ed è morto perchè qualcuno gli ha sparato. Un essere umano come lui;
forse addirittura un ragazzo come lui! Due colpi, due pallottole, che gli hanno
perforato il polmone. Questa è una cosa che non mi era ancora capitata. Mi è
successo un paio di volte di trovarmi ad operare persone a cui avevano sparato,
ma tutto si è sempre risolto.
Non questa volta.
Un ragazzo è morto, e non
perchè fosse malato o vittima di un incidente. E' morto perchè qualcun altro
lo ha consapevolmente ucciso.
Non sono un bambino, so
perfettamente che eventi del genere accadono ogni giorno infinite volte nel
mondo, ma vederlo così è completamente diverso. Non è un filmato di un
telegiornale che ti fa venire i brividi per un momento e di cui subito ti
dimentichi non appena guardi il sorriso di tua moglie o le mani minuscole di tuo
figlio.
Quel ragazzo è morto qui,
davanti ai miei occhi, mentre ogni mio sforzo di salvarlo si rivelava inutile. E
non esistono scuse, colpe, dei o destino che mi possano spiegare, far capire o
anche solo illudere che tutto ciò abbia un senso. Non c'è senso in un essere
umano che ne uccide un altro perchè gli ha "rubato" la fidanzata. Non
ha senso uccidere per invidia o per soldi. Semplicemente non capisco.
Non posso capire, se ogni
istante l'immagine di quel ragazzo insanguinato disteso sul lettino si
ripresenta davanti ai miei occhi, e se i guanti che coprono le mie mani sono
coperte del suo sangue.
Lo giuro, davvero non
capisco. Mi scuote dentro, fin nell'angolo più remoto della mia mente, e dei
miei ricordi...
***
Intorno all'altare la
cenere del braciere è rovesciata. Un arco di polvere nera ha lasciato il suo
segno sul marmo bianco come una cicatrice, mentre il piatto dorato è capovolto
poco distante. Anche le piccole fiammelle delle braci finite sul pavimento hanno
smesso di bruciare. Di loro non rimane che un tenue bagliore rossastro.
Il sole pomeridiano penetra
coi suoi raggi attraverso le sottili e lunghe fessure presenti su ogni lato di
quest'ampio spazio circolare ed un fascio di luce illumina il corpo inerme
riverso in una pozza di sangue ad un passo dall'altare, come una lama sul suo
corpo, il corpo di una ragazzina dai lunghi capelli biondo cenere avvolta in una
semplice tunica azzurra.
La guardo sconvolto, senza
riuscire a credere ai miei stessi occhi. Una ragazzina che aveva appena
quattordici anni giace morta ai piedi di quell'altare per il quale aspirava un
giorno di diventare sacerdotessa. Immobile sulla soglia non posso più fare
nulla per salvarla. Nonostante la mia folle corsa, non sono riuscito ad arrivare
in tempo.
Pochi secondi. Sarebbero
bastati solo pochi secondi, ed avrei potuto fermarlo.
Lui è ancora qui, in piedi
accanto al corpo della ragazza, con lo sguardo fermo e freddo, la spada che
stringe nella mano tenuta bassa lungo il fianco, macchiata di sangue innocente
che scorre lungo la lama gocciolando lento sul pavimento.
- Che cosa hai fatto? - la
mia voce è poco più che un sussurro a causa del fiato corto. Ho corso come un
pazzo, e tutto per niente.
Lui mi guarda con occhi di
ghiaccio, ma non risponde. Allora deglutisco e raccolgo tutta la voce in un
punto in fondo alla gola. Questa volta quello che esce dalle mie labbra è un
urlo di rabbia.
- Che cosa hai fatto,
Kunzite?
La sua voce è come se non
fosse più la sua.
- Te l'ho detto, Endymion.
Versare il suo sangue in cambio di quello versato da te. E' così che dice la
legge.
***
Neanche allora quelle
parole avevano senso.
Esco dallo spogliatoio
richiudendomi la porta alle spalle. Infilo le mani nelle tasche con un sospiro,
chiudendo gli occhi. Quando li riapro la mia espressione è divenuta seria,
forse anche più del solito. Colpa dei ricordi: troppi e tutti insieme. Senza indugiare oltre sui miei pensieri mi
incammino a passo deciso lungo il corridoio diretto in ambulatorio.
***
Buon giorno mattina!
Cosa c'è di più
meraviglioso di una giornata di sole da trascorrere con il proprio ragazzo?
Nulla! Nemmeno le frittelle calde della mamma, con tanta marmellata,
sciroppo di mirtilli e una tazza di caffè con molto, molto zucchero! E che
scendono così bene nella gola fino allo stomaco; dolci e calde e...
Sospiro deliziata,
assaporando questo cibo degli dei ad occhi chiusi. Forse ho dato un giudizio
affrettato: temo che sarà costretto a fare del suo meglio per competere con
tanta dolcezza! Rido da sola nell'immaginare le infinite possibilità per rendere
un appuntamento ancora più dolce delle frittelle della mamma.
- Quanta allegria. Esci con
mister simpatia?
- Shingo! Potresti
smetterla di chiamarlo così, lo sai. - mio fratello è in grado di tirare fuori
il peggio di me.
Lo guardo lanciando fiamme
dagli occhi e per poco la frittella non mi si sbriciola tra le mani, ma lui non
si scompone, non mi guarda neppure! Si siede sulla sedia di fronte a me rivolto
però verso la televisione, che accende con il telecomando magicamente
comparsogli in mano. Ma quando l'ha preso? Non era sulla credenza? O forse
proprio sulla tv. O accanto...
- A cosa stai pensando così
intensamente? Guarda che rischi di fonderti il cervello. - e ride sotto i baffi,
facendo zapping.
- Ma brutto... - non mi
vengono nemmeno le parole dalla rabbia! - Un po' di rispetto per tua sorella
maggiore. Crescendo peggiori invece di migliorare, lo sai?
- Peggiorate entrambi
ragazzi, almeno quando vi trovate nella stessa stanza. E provate a... dialogare.
- papà accompagna l'ultima parola con un'alzata di sopracciglia, poi si siede
anche lui attorno al tavolo, non prima di essersi versato una tazza di
caffè nero.
- Ah, Usagi. - aggiunge
poi, indicando le mie mani con un gesto della sua, quella che stringe la tazza -
Dovresti lavare via la marmellata da lì. Lo sai che la mamma si arrabbia se
trova macchie appiccicose sulle maniglie della cucina.
- Oh, no! - la frittella
non si sarà completamente sbriciolata ma le mani sono un disastro.
Da un anno a questa parte
Shingo tende a farmi impazzire, molto più di quando era un
ragazzino. L'università gli dà alla testa. O forse non è l'università. E con
questi pensieri mi avvio abbattuta al lavandino, con il sottofondo del
telegiornale nelle orecchie.
"...antiche rovine,
rinvenute da un gruppo di speleologi dopo la segnalazione, circa un mese fa,
della presenza di una grotta sotterranea nei pressi di Sapporo, nell'isola di
Hokkaido. Una spedizione di cinque uomini si è calata all'interno della caverna,
e avvolti dal buio sono scesi ininterrottamente per oltre centoventi metri,
illuminati solo dal sole che filtrava dall'apertura principale e dalle torce. Ma
già prima che toccassero il fondo e cominciassero ad ispezionare la zona ai loro
occhi è apparsa una scoperta ancora più sensazionale! VI mostriamo in anteprima
assoluta le immagini fornite dagli scienziati."
Poi il cronista che
racconta la vicenda cambia; la voce adesso è quella di una donna, e mentre mi
giro a guardare anch'io la televisione, per distrarmi e ritrovare la calma, il
mio mondo, il mio futuro, crolla: il passato gli dà una spallata feroce e lo fa
cadere in ginocchio.
- Usagi, ti senti bene?
Temo di essere sbiancata.
Sento la fronte gelida e le gambe che mi tremano.
- Sì... Sì papà. - ripeto
con un po' più di convinzione, almeno nella voce - Devo aver mangiato troppa
marmellata. Ora torno in camera mia e mi stendo qualche minuto.
E con un sorriso
imbarazzato sgattaiolo al piano di sopra, sotto lo sguardo preoccupato di mio
padre e quello perplesso di Shingo.
***
L'oscurità della notte mi
avvolge con il suo silenzio irreale. Il cielo nero come l'inchiostro è
punteggiato di minuscole stelle sconosciute. Un fiume d'argento lo attraversa e
lo spacca in due, ma compie un corso diverso da quello che conosco. Tutto sembra
meno brillante visto da qui, più cupo. A stento riconosco l'orlo del mio
mantello, frusciante sul sentiero di terra battuta che sto percorrendo. Eppure,
tutto questo mi affascina. Questo mondo così diverso dal mio, fatto di luci e
colori vividi il giorno e di buio ed ombre scure la notte. L'aria sa di polvere
e umidità, misto a qualcosa di pungente, un retrogusto salato che arriva dal
mare.
Continuo a tenere gli occhi
puntati in alto, con la testa reclinata all'indietro, cosicché, piano piano, il
cappuccio scivola sulle spalle scoprendomi il capo. Non ho paura d'inciampare.
La mano forte del ragazzo al mio fianco stringe la mia, guidandola a passi
sicuri verso la meta. Nonostante il buio fondo di questa notte terrestre mi
sento al sicuro, addirittura euforica.
Ci fermiamo all'improvviso
senza un motivo apparente. Dopo tanto tempo passato a guardare le stelle col
naso all'insù mi sento un po' disorientata. Sbatto più volte le palpebre.
Siamo fermi ad un incrocio. Alla mia sinistra si staglia un alto muro, un'ombra
compatta nella notte. Da quanto tempo il sentiero segue le mura della città?
- Siamo quasi arrivati.
La voce profonda del
ragazzo mi parla sottovoce. Adesso è davanti a me, e mi sistema il cappuccio
sul capo. Il tessuto è pesante e caldo. Si chiama velluto. Lo usano per
difendersi dal freddo. Il mio mantello, dello stesso colore della notte, serve
invece soprattutto a nascondermi. E' un tessuto prezioso qui, ed è chiuso al
collo da un fermaglio d'oro che richiama il disco del Sole, contornato da otto
piccole punte. Una lady scortata in città dal principe: questo è quello che
sembro.
Allungo il braccio verso di
lui per proseguire ancora una volta mano nella mano, ma egli mi fa cenno di no
con la testa.
- Da qui in poi non
possiamo più. Ma restami accanto.
Annuisco semplicemente.
Adesso che siamo vicini alla meta ho un po' paura. Un nodo in gola mi impedisce
di parlare.
E se sbagliassi qualcosa?
Se capiscono chi sono? Se ci scoprono insieme?
Col cuore che batte forte
proseguiamo il cammino voltando a sinistra, sulla via principale, dove anche le
mura piegano in un'ampia curva. Ad un centinaio di passi da noi una lunga fila
di lanterne disposte in alto illumina l'ingresso alla città. Rimango a bocca
aperta a fissare l'enorme portone che ci sbarra la via. Non ne ho mai visto uno
così grande e austero. Alla luce del fuoco il legno lucido si accende di
sfumature arancio ed oro che lo rendono quasi vivo. I due battenti sembrano due
blocchi unici, lisci e compatti. Alzo lo sguardo fino alla cima. Proprio sopra
l'arco del portone risplende, quasi brillasse di luce propria, lo stemma della
famiglia reale: un rombo rovesciato orizzontalmente con al centro incisa la
sfera terrestre, tagliata in verticale da una sottile ellisse appuntita. L'impressione è quella di un
grande occhio felino che ti guarda dall'alto, serio e vigile.
***
Perché mai i ricordi
tornano a tormentarmi proprio adesso?
Chiudo gli occhi e rivedo
con la mente le mura diroccate, impolverate, il portone scheggiato in più punti,
in altri letteralmente distrutto, e in mezzo alle rovine l'Occhio della Terra,
d'oro anche se la terra e la polvere ne nascondono la brillantezza, e
soprattutto inconfondibile.
Calmo il respiro e torno a
guardare l'album delle fotografie che stringo in grembo. E' incredibile come
l'abbia ritrovato al volo, senza fare neanche un po' di confusione tra gli altri
volumi della libreria. Ultimo scaffale, quarto libro da sinistra. E ora mi
chiedo perché non l'abbia ancora buttato. Ma infine mi decido ad aprirlo.
La pagina giusta la trova da sé, grazie alla rosa secca che tiene il segno là
dove serve. Là, sul biglietto da visita sul quale è segnato un numero di
telefono che non ho comunque dimenticato. Me l'ha lasciato per le emergenze, nel
caso ci fosse stato ancora bisogno di combattere e proteggere la Terra.
Prendo il cartoncino tra
due dita e mi sento a disagio. Forse non dovrei essere io a chiamare. In fondo
non è successo nulla di grave; sono solo delle rovine. Le suo rovine oltretutto.
Se avesse avuto bisogno di me, o se ne avrà, sarà lui a mettersi in contatto per
primo, no? E' così che dovrebbe essere.
Sono inquieta. Rimetto a
posto il bigliettino. Ormai la decisione è presa! Mi costringo a non guardare la
foto, richiudo l'album di scatto e lo lascio sul comodino, decisa a buttarlo non
appena torno in cucina.
- Usagi, è arrivato Kaito!
Oddio! Me n'ero
dimenticata! Corro giù per le scale come un fulmine, ma l'allegria di poco fa è
svanita. Sarà una dura e lunga giornata...
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