Occhi nocciola e mille sfumature

di Daniela Arena
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Mi svegliai, sbuffai e mi sollevai dal materasso dopo aver stirato i muscoli indolenziti dal sonno. M’infilai la vestaglia per combattere il freddo di febbraio e m’incamminai verso il corridoio. Passando davanti allo specchio dell’armadio mi soffermai a guardare il mio riflesso con occhi tristi, ero la fotocopia esatta di mamma, stessi lineamenti, capelli castani e ricci, occhi verdi come smeraldi.

Le lacrime mi offuscarono la vista al suo ricordo, chiusi gli occhi e pensai a come il cancro me l’avesse portata via senza che potessi fare qualcosa per combattere.

Presi un lungo respiro ed uscii dalla camera, un dolce aroma di muffin mi guidò fino alla cucina, dove papà stava preparando la colazione. Nonostante il lavoro gli occupasse la gran parte del tempo, lui cercava di stare il più possibile vicino a me e mia sorella. Era come un amico al quale poter raccontare tutto, non si arrabbiava quasi mai ed era sempre allegro, nonostante il dolore del lutto lo divorasse ancora. Lui reagiva alla vita e lo faceva per me e per Phobe.

Mi appoggiai alla porta della cucina e lo osservai mentre attendeva che i muffin si cuocessero nel forno. Sentendosi osservato, si girò nella mia direzione.

«Buongiorno splendore.» esordì sorridendo.

Sorrisi di rimando.

«Buongiorno papà.» dissi lasciandogli un bacio leggero sulla guancia prima di sedermi sul divano.

«Piccina, la colazione è pronta ma io devo scappare in ufficio.» sentenziò lui lasciandomi un bacio sulla fronte.

«Fate le brave e salutami tua sorella appena si sveglia, ti voglio bene.» aggiunse uscendo veloce di casa.

Sentii la porta sbattere e soffiai un “Ti voglio bene anch’io”.

Andai al piano superiore per infilarmi una tuta, presi telefono, le chiavi di casa e uscii, lasciando riposare Phobe.

Una folata di vento gelido mi scompigliò i capelli, presi un profondo respiro osservando la pioggia cadere e alzai il cappuccio della giacca.

Sentivo il bisogno di far cessare il turbinio di pensieri nella mia mente e mi ritrovai davanti alla biblioteca comunale, il mio rifugio dove potermi nascondere dai pregiudizi, ritrovare la pace smarrita e sentirmi a casa.

L’odore dei vecchi libri impolverati riusciva a svuotarmi la testa, perciò quando i pensieri diventavano assillanti mi nascondevo tra vecchi scaffali colmi di romanzi antichi e dimenticati da tutti. Pensavo che catapultarmi nel mondo di qualcun altro avrebbe risolto, anche se momentaneamente, i miei problemi.

Entrai in biblioteca e levai il cappuccio, con i capelli umidi e i vestiti gocciolanti percorsi l’ampio atrio. Salutai educatamente l’anziana bibliotecaria dirigendomi nell’angolo più remoto dell’immensa stanza, levai la giacca bagnata sistemandola sul vecchio termosifone ingiallito e feci scorrere le dita sui alcuni libri impolverati.

La mia attenzione fu catturata da un romanzo dalla copertina di cuoio verde. Lo presi e, accasciandomi al suolo, iniziai a leggerlo.

Le righe di quella storia mi entrarono lentamente nel cuore e nel silenzio della stanza i minuti scorsero rapidi senza che me ne rendessi conto.

Il gelo aveva ormai abbandonato il mio corpo, grazie al tepore del riscaldamento. La mia giacca bagnata aveva smesso di gocciolare e stava iniziando ad asciugarsi. Il buio calava sulla città, lasciando che le luci soffuse della biblioteca illuminassero il locale.

La mia attenzione fu interrotta dal rimbombo di passi. Alzai lo sguardo e scorsi un ragazzo alla fine dello scaffale dai capelli castani e con la pelle dorata che si guardava intorno spaesato. Era Adam.

Anche lui mi vide e si avvicinò titubante.

 «Stavo, ecco..» disse, come se stesse cercando le giuste parole.

Sorrisi alla sua goffaggine e rivolsi nuovamente l’attenzione al libro che stringevo tra le dita.

Lui si sedette vicino a me.

«Che stai leggendo?» mi chiese.

Guardai la copertina del romanzo.

«A dire il vero non so quale sia il titolo.»

Sorrise timidamente.

«Posso?» chiese posando la mano sul libro.

Lasciai la presa permettendo ad Adam di osservarlo meglio.

«Di cosa parla?» domandò curioso.

Tirai un filo della maglietta, sentendomi imbarazzata senza sapere bene il perché.

«Di una ragazza innamorata che odia se stessa.» risposi.

«Dovresti leggerlo, è molto bello.»

Avere Adam vicino mi rendeva nervosa. Gli lanciai uno sguardo furtivo e notai che stava leggendo le prime righe del libro. I suoi occhi si muovevano rapidi da una parte all’altra delle pagine e pensai quanto fosse affascinante. Le sfumature nel colore delle sue iridi nocciola erano meravigliose, un misto di colori scuri e chiari che brillavano nonostante la scarsa luminosità. Sarei rimasta delle ore ad osservarlo in silenzio, senza mai stancarmi.

Smise di leggere e si lasciò sfuggire un sorriso.

«Che c’è?» chiese.

Arrossii.

«Nulla.» sussurrai e tornare a torturare la scucitura della maglietta.

Lui ricominciò a leggere frasi a casaccio, scorrendo le pagine del libro, mentre il mio disagio cresceva e io mi affannavo a tenerlo a freno.

Era strano il modo in cui il mio corpo reagiva alla sua presenza, era la prima volta che mi succedeva.

«Perché te ne stai qui da sola?» domandò a un tratto Adam, con gli occhi incollati alle pagine del libro.

«Non mi piace stare con le altre persone.» risposi senza pensarci troppo.

Lui corrugò la fronte.

«Perché?»

Alzai le spalle.

«Mi sento inadatta.» risposi senza rifletterci.

«Perché?» domandò ancora cercando di dare un senso alle mie parole.

Non ero pronta a parlare, a raccontare le mie paure che influenzavano la mia vita da anni, così come non ero pronta a raccontare il dolore per la morte di mia madre.

«Non mi va di parlare del mio passato.» risposi secca.

Lui sospirò.

«Tutti hanno un passato che non vorrebbero aver vissuto.» sussurrò.

I suoi occhi lasciarono le pagine per incontrare i miei, li evitai sapendo che se non lo avessi fatto avrebbe scorto il mio dolore così chiaro ed innocente. Adam mi restituì il libro e si alzò silenzioso. Prima di svoltare l’angolo alla fine dello scaffale si voltò a guardarmi un’ultima volta.

«Tutti soffrono, ma poi si va avanti.». esordì.

Un profondo senso di vuoto mi colpì allo stomaco, come se le sue parole mi fosse entrate dentro con violenza.

Rimasi ad osservare il punto in cui era sparito, poi ripresi la giacca e uscii dalla biblioteca.

L'immagine dei suoi occhi mi seguì fino a casa e sperai di poterla lavare via con una doccia. Entrata a casa trovai Phobe che guardava la tv sul divano. Non la salutai neppure, andai di sopra e mi spogliai degli abiti ancora umidi. Sotto il getto dell'acqua calda, sperai di lavare via tutte le inutili paure che mi portavo sempre appresso.

Sfregai con forza la spugna sulla mia pelle fino a farla arrossare, poi mi piegai su me stessa e lasciai che le lacrime si mescolassero all'acqua.

C’erano momenti in cui desideravo avere accanto qualcuno che mi amasse davvero, che tenesse a me nonostante la mia incapacità di relazionarmi e che fosse capace di mettere da parte l’orgoglio per affrontare tutte le paure che mi allontanavano dal resto del mondo. Il pensiero di legarmi a qualcuno che avrebbe potuto calpestarmi il cuore già distrutto, per lasciarmi più sola di quanto già non fossi, mi terrorizzava. Convincermi che tutto stesse andando bene, che fossi felice e avessi raggiunto molti obbiettivi, era una menzogna. Perché le persone che vengono ferite fino a non avere più sangue da espellere, muoiono dentro e diventano macchine piene di rancori verso sé stesse. Dimenticano cosa voglia dire amare e smettono di vivere limitandosi a sopravvivere.

Rimasi a lungo con le gambe strette al petto a cullarmi e chiedermi se ciò che mi stava succedendo fosse giusto, se me lo meritassi.

Uscii dalla doccia con rabbia e mi avvolsi nell'accappatoio.

Quella sera, a cena, Phobe mi avrebbe presentato il suo fidanzato. Un passo importante per lei, che brillava di felicità, da quanto lui era entrato a far parte della sua vita.

Mi preparai silenziosa cercando di non soppesare all’ennesimo incontro con Adam ed al suo continuo interesse per i miei pensieri. Infilai un vestito nuovo e salii in macchina senza proferir parola

Il ristorante scelto da Phobe ed il suo ragazzo sembrava una vecchia reggia nobile e restai incantata dalla magnificenza degli arredi, quando entrammo.

Un uomo anziano dall’aria raffinata si avvicinò.

«Posso esservi di aiuto, signorine?»

Phobe annuì.

«Un ragazzo sta attendendo il nostro arrivo.» rispose cordiale.

L’uomo anziano ci accompagnò a un tavolo, dove ad attenderci c'era ragazzo biondo dagli occhi chiari. Sembrava in ansia e quando ci vide scattò in piedi.

Dopo un lieve bacio sulle labbra a mia sorella, mi porse la mano.

«Lei è mia sorella Felicity.» mi presentò Phobe.

«Fel, lui è James.»

Un leggero imbarazzo ci avvolse.

Mi sedetti a tavola e giocai distratta con le mani.

«Vi chiedo scusa, ho dimenticato di lavarmi le mani prima di uscire. Torno subito.» disse mia sorella.

«Sono così contenta che voi siate entrambi qui stasera.» aggiunse lasciando me e James soli.

Abbassai lo sguardo e lui si schiarì la voce.

«Phobe mi detto che voi due siete molto legate.» iniziò lasciando che il suo sguardo vagasse per l’intera stanza. «Mi ha raccontato molte cose di te, a dire la verità.» aggiunse gesticolando.

L'osservai timorosa con il respiro accelerato pensando che James potesse ridere di me.

Lui divenne serio.

«Io non voglio portartela via. La amo come non ho mai amato nessuno e voglio starle accanto per molto tempo ancora. Se per te non è un problema vorrei entrare a far parte anche della tua vita, perché per Phobe vali molto di più di quello che credi e la sua felicità per me è tutto.»

Gli occhi gli brillarono e in quel bagliore capii cosa mia sorella amasse di quel ragazzo e cosa di lui lo rendesse felice. Per la prima volta in vita mia, provai invidia per Phobe.

Anche io desideravo l'amore di una persona come James, che mi desse forza e mi stringesse forte, per impedire alle mie paure di prendere il sopravvento.

Sorrisi osservando mia sorella tornare al tavolo e stringere forte la sua mano in quella del ragazzo. Mi sentii come una bambina che osserva due amanti passeggiare al parco e sorrisi scoprendo che non era vero quello che dicevano le persone. L’amore esisteva ancora, perché l’amore lo avevo di fronte ogni giorno eppure, per quanto potessi guardarlo negli occhi ogni istante, ancora non me ne rendevo conto.

L’amore si stava nascondendo dietro a degli occhi color nocciola e mille sfumature.





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