Uranio -Bungou Stray Dogs-
Dedico questa OS a Cherry, che ha acceso la miccia
del mio genio creativo con la sua magnifica storia su questa stessa coppia, e a
Veronica per aver ispirato... beh, tutto il resto: senza di
te questa cosa qui varrebbe meno di un tappo di bottiglia.
Scritta sulle note di "Give Us a Little
Love", di Fallulah.
Avevo sempre pensato, seguendo il mio istinto razionale, che
non esistessero realmente eventi, per lo meno non eventi usuali e non
catastrofici, in grado di stravolgere completamente la vita.
Non ho mai creduto nell'attimo fatale, nel colpo di fulmine o in cose su questa
linea. Ho sempre pensato che, più che per un singolo evento scatenante, la vita
cambi per una somma di fattori, o addendi, per lo stesso principio per il quale
non si può mai colpevolizzare per un trauma una singola caduta: ciò che ci
ferisce è cumulativo, è quello che succede nel tempo: assorbiamo un colpo dopo
l'altro, trauma su trauma, botte dolorose su botte dolorose; tale è, o meglio
era, per me la vita.
Vorrei poter dire che accadde in modo romantico, che fu solenne, in qualche
modo, vorrei poter dire di esser stato invaso da una beatitudine quasi divina,
in quel momento, ma la verità è che mentire, agli altri e a me stesso prima di
tutto, non mi è mai piaciuto. No, non ci fu nulla di aulico in quel pomeriggio
d'Ottobre. Voglio a voi dire, lettori, qualcosa che il mio animo ha faticato ad
accettare, sebbene mente e cuore –da sempre in profondo disaccordo- avessero
ormai concordato da tempo –e da qui la mia attuale repulsione per le menzogne:
dopo aver passato anni a mentirmi credendo alle sciocchezze che mi propinavo è
sorta in me una naturale insofferenza per ogni parola che non sia vera-. Non mi
innamorai quel giorno d'Ottobre –perché sì, è d'amore malato che tratta la mia
storia-, ma fu quel pomeriggio uggioso a dar voce alle parole che da anni mi
stringevano la gola, soffocandomi. Se quel pomeriggio non fosse andato così, se
non ci fosse stato quell'attimo a cambiare tutto, ho oggi la certezza che nulla
sarebbe come è ora: entrambi avremmo continuato le nostre vite, infelici, ma
lontani. Ho però un'altra grande certezza, in questo mondo fatto di follie: le
parole, quelle parole che da anni ristagnavano sul fondo della mia gola, quelle
parole che sentivo taglienti e sbagliate, sapevo che, se non le avessi
pronunciate, mi avrebbero ucciso lasciandomi come ultimo ricordo in bocca il
sapore del sangue al posto del gusto delle sue labbra.
Ricordo che quel giorno i compiti di matematica mi parevano
più difficili del solito. Non ero mai stato bravo in matematica: i numeri erano
per me, e ancora oggi lo sono, assolutamente senz'anima. Non che la materia in
sé non mi affascinasse, tutto il contrario, semplicemente, anche quando trovavo
un argomento che stuzzicava la mia curiosità, non provavo il desiderio di
indagarlo o approfondirlo, come invece mi succedeva per moltissime altre cose. Ero
dunque impegnato nella risoluzione di una funzione che mi risultava abbastanza
ostica quando Naomi aveva aperto la porta di camera mia.
Se chiudo gli occhi quell'attimo fatto di fuoco mi si dipinge sulle palpebre a
grosse, vistose e precise pennellate, come se fosse accaduto solo ieri. Ma che
dico? Ieri? Riesco a rammentare il tutto con la stessa facilità con cui
respiro: la porta che si chiude alle sue spalle cigolando, la chiave che gira
nella toppa, i passi sul pavimento d'assi di legno, i polpastrelli che si
poggiano sul mio volto come in un sogno. È appena uscita dalla doccia e i
lunghi capelli neri le sono appiccicati contro il volto e gocciolano sul
pavimento e sul letto e sui miei compiti, ma non riesce ad importarmi. Si
stringe l'asciugamano contro il corpo, all'altezza dei seni e ritira il braccio
di scatto, tremando. La vedo, lì, davanti a me: abbassa il volto continuando a
tremare e una folle paura mi si diffonde per il corpo. È un terrore febbrile,
l'ansia spasmodica e malata che le sia accaduto qualcosa di irrimediabile, che
sia ferita in modo inguaribile.
Solleva il capo per guardarmi negli occhi e schiude quelle labbra da cui pendo,
allora ed oggi, e che considero vitali al pari di una boccata d'aria o di un
sorso d'acqua.
«Junichirou» soffia il mio nome con gli occhi lucidi, e per un momento pare
voglia ritrarsi per tornare sui suoi passi e, magari, scappare via, forse per
sempre. Poi però pare prendere coraggio, forse dal mio sguardo, e, sollevata di
nuovo la mano, mi poggia il palmo contro la guancia. «Ho tanto freddo,
Junichirou.» E sapevo bene di che freddo stesse parlando poiché era lo stesso
che mi aveva accompagnato per quei sedici anni di vita, ogni istante. È il
freddo che non c'è modo di scacciare, è il freddo che ti entra nelle ossa, nel
cuore, fino a che, di te, non resta altro che una scheggia di vetro. È un
freddo indelebile, che di perseguita la notte prima di addormentarti e che non
smette di braccarti nemmeno nei sogni. «Ho così tanto freddo, Junichirou.» È un
freddo che scaccio solo quando la mia pelle tocca la sua.
Si siede sulle mie ginocchia senza che io abbia il coraggio di dire una singola
parola e, con gli occhi color della tempesta puntati nei miei, due semplici
nocciole, allenta la presa sull'asciugamano e se lo lascia scivolare addosso
senza pudore né rispetto alcuno per ogni regola.
Tremo. Ogni mia percezione cessa di esistere, fagocitata da lei, dalla sua
pelle, dal suo corpo, dalle sue mani che sollevano le mie e ne posano una su un
fianco e l'altra su un seno.
Tremo. Tremo e lascio che un gemito mi scappi dalle labbra quando lei stessa,
esortandomi a continuare, stringe la presa sulle mie mani facendole affondare
nella propria carne. È una sensazione, toccarla, che mi manda in estasi ogni
singola volta, non ha importanza che sia lo sfiorarsi accidentale delle nocche
o le mie labbra poggiate contro la sua pelle bollente.
Sì, se chiudo gli occhi la mia memoria tratteggia con estrema precisione quel
momento e tutti quelli che lo hanno seguito. Più d'ogni altra cosa, però,
ricordo il nostro primo bacio. Fu un bacio bellissimo, lento, all'inizio, quasi
impacciato: prendemmo confidenza l'uno con l'altra mentre lei si stendeva su di
me e i compiti di matematica cadevano sul pavimento. Passarono minuti prima che
iniziassimo a divorarci come entrambi sognavamo da anni. Le labbra di Naomi
sapevano di sale, quel primo giorno come tutti gli altri.
Che dire, dunque, di questo peccatore? V'ho narrato la mia
grande colpa, o l'inizio di questa, per lo meno.
Ma cosa posso fare? So, nell'animo mio, di non potermi redimere in alcun
modo.
L'amo. L'amo come s'ama una stella del cielo notturno, l'amo come s'ama il più
bello dei fiori: inizialmente avendo paura di sfiorarlo con le dita, poi con le
passioni violente che solo lei è capace di tirare fuori dal mio animo.
L'amo tanto disperatamente da farmi male, l'amo fino a perdere senno e pietà,
fino a rompere le ossa a tutti gli altri.
L'amo quando mi dicono che sbaglio, che siamo dei mostri. L'amo fino a morirne,
fino a uccidere.
Sentirsi dire che l'amore è vietato non lo uccide, lo rafforza.
Lo sentii dire una volta da non so chi, e oggi posso dire che è la verità. Più
la amo e più tutti gli altri mi odiano, ma a me non importa, perché finché avrò
Naomi nulla potrà andare male.
Fare scelte significa essere vivi e ogni scelta che fai fa di te quello che
sei. E io la scelgo, ogni giorno, e lei sceglie me, ogni giorno. Ogni giorno la
guardo negli occhi e la bacio. "T'amo" le dico "T'amo
perdutamente, irrimediabilmente. T'amo più della primavera, più d'ogni goccia
d'acqua, più d'ogni respiro e d'ogni battito." Ormai non voglio più avere
parole soffocate in gola, quindi le prendo le mani tra le mie e le bacio le
nocche e il volto per asciugarglielo con le labbra e pulirlo dal sapore del sale,
forse per sempre.
T'amo, Naomi, t'amo più di quanto dovrei, sorella mia. E forse il mondo
c'odierà, ma io t'amo, e finché mi stringerai le mani durante le notti gelide
non avrà importanza la cenere che ho al posto del cuore.
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