Let Me In
Erano circa le quattro del mattino.
Fuori dalla mia stanza, un vento gelido soffiava quasi con rabbia,
sibilando tra le fronde degli alberi.
Mi strinsi nelle coperte, rigirandomi per l’ennesima volta,
rassegnato ormai al fatto che non sarei riuscito a prendere sonno
facilmente. Non quella notte, almeno.
Mi voltai verso la piccola finestra della mia camera da letto,
osservando con pigro interesse i rami dell’albero di fronte
casa mia muoversi in modo sgraziato, guidati da quell’intensa
aria invernale.
Chiusi gli occhi, sbuffando, sperando che il sonno arrivasse presto.
Venni interrotto dalla suoneria del mio cellulare, posto con cura sul
comodino accanto al letto.
Mi voltai verso quel suono assordante, sorpreso dal fatto di essermi
dimenticato di mettere la vibrazione, come ogni sera prima di andare a
dormire.
Presi in mano il cellulare. Il numero non era tra i miei contatti, ma
privato.
Roteai gli occhi scocciato e decisi di chiudere la chiamata, riponendo
il cellulare al suo posto.
Mi ributtai sotto le coperte, cercando di svuotare la mente, sempre
invasa da mille pensieri.
Uno fra tutti, lei. Il suo ricordo, era ancora vivo nella mia testa.
Non riuscivo a dimenticarla... e come avrei potuto? Come avrei potuto
dimenticare il suo sorriso, la sua risata acuta, i suoi lunghi capelli
neri e i suoi meravigliosi occhi verdi?
Come avrei potuto dimenticare i momenti passati insieme, e il nostro
amore che, pian piano, sbocciava tra i banchi di scuola?
Mi maledissi mentalmente. Mi ero ripromesso che non avrei
più pensato a lei, che ormai era acqua passata, e che avrei
dovuto metterci una pietra sopra.
Passarono altri infiniti minuti, prima che il cellulare riprendesse a
squillare, con molta più insistenza. Il volume, sembrava
essersi alzato da solo, diventando quasi frastornante.
Presi nuovamente il cellulare in mano, convinto si trattasse di uno
stupido scherzo, magari fatto da qualche mio amico idiota.
Cliccai sulla cornetta verde, e attesi.
Dall’altra parte, sentii uno strano sibilo. Poi una voce
ovattata, gracchiante, che cercava di dirmi qualcosa di
incomprensibile. Potei quasi giurare, che si trattasse di una voce
femminile.
-Chi sei?
Chiesi, quasi con timore.
Non ricevetti risposta, ma quella voce sembrava farsi man mano
più chiara e definita.
Delle urla. Delle urla in lontananza. Non potevo sbagliarmi!
Mi pietrificai.
-Chi... sei...?
Ripetei, tremando. Quella conversazione, stava iniziando a spaventarmi.
-Rispondimi! - dissi con enfasi, cercando di darmi coraggio -Se si
tratta di uno scherzo, non è divertente! Chi parla?!
Ogni suono dall’altra parte del cellulare, si
fermò. Riuscii solo a percepire un debole respiro.
-N... N... Nathan?
Divenni una statua di cera, sentendo quella voce. Non potevo
sbagliarmi, l’avrei riconosciuta tra mille.
-Emily? Sei... sei tu?
Chiesi ingenuamente, sapendo dentro di me che lei non mi avrebbe mai e
poi mai potuto chiamare. Non dopo quello che era successo tra noi.
Infatti, per la seconda volta, non ricevetti risposta.
Scossi la testa, facendo un mezzo sorriso nervoso.
-Sei davvero molto simpatico, chiunque tu sia. Uno scherzo davvero
geniale! Testa di cazzo, prega che non riesca a beccarti! Ti faccio
passare io la voglia io di f...
-Nathan!
Gli insulti mi morirono in gola, nel sentire nuovamente il mio nome.
Quella voce... il mio nome pronunciato da quella voce... dalla sua voce. Non era
possibile. Non poteva essere vero!
Pensai di essermi addormentato, e di star vivendo solo un brutto sogno.
Allontanai per un istante il cellulare dall’orecchio, e presi
un bel respiro. La mia parte razionale, mi urlava a gran voce di non
credere a una messinscena del genere, sebbene fosse molto convincente.
Uno scherzo di qualche depravato, che provava piacere nel far soffrire
gli altri.
Sicuramente doveva essere così, ma... il mio cuore, la
pensava diversamente.
-Dimmi chi sei... per favore... smettila con questo stupido scherzo!
Sospirai, quasi disperatamente. Una lacrima silenziosa, prese a
scorrermi lungo la guancia, senza che me ne accorgessi.
Con le labbra tremanti, attesi una qualche risposta da parte
dell’altra persona.
-Nathan... ho... tanto
freddo!
In un impeto di rabbia, presi il cellulare e lo scaraventai contro il
muro. Il vetro si ruppe, e la chiamata si chiuse all’istante.
Nessuno doveva permettersi di farmi scherzi simili, non quando le
ferite erano ancora fresche! Emily mi aveva lasciato da poco
più di otto mesi, ancora non mi ero capacitato del fatto di
non poterla più avere accanto a me. Di non poterla
stringere, di non poterle accarezzare i capelli, di non poter sentire
più la sua risata cristallina e contagiosa.
Mi alzai dal letto, andando avanti e indietro per la stanza per
smorzare la tensione.
Mi passai una mano tra i capelli, dirigendomi verso la finestra. Il
vento sembrava essersi calmato, e tutt’intorno regnava un
innaturale silenzio.
Toccai con le dita il vetro freddo, e poggiai la fronte su di esso.
Improvvisamente, qualcosa -o
qualcuno?- attirò la mia attenzione. Provai ad
aguzzare la vista, per quanto il buio potesse permettermelo, cercando
di distinguere l’ombra che si trovava vicino
all’albero di fronte alla mia finestra.
La mia camera si trovava al secondo piano, e riuscii a malapena a
capire di cosa si trattasse.
Ed ecco che, di nuovo, il cellulare prese a squillare. Sempre
più insistentemente, sempre più forte, tanto che
mi dovetti tappare le orecchie.
Non è possibile... io l’avevo rotto!
Mi avvicinai a quell’oggetto infernale, con le gambe che mi
tremavano. Lo presi e, quasi meccanicamente, premetti la cornetta verde.
Nessun suono. Un silenzio quasi magico.
Mi misi nuovamente davanti alla finestra. Spalancai gli occhi nel
vedere ancora quell’ombra, riuscendo, però, a
distinguerne i tratti umani.
Sentii un lieve respiro, che mi gelò il sangue.
-Nathan... fa tanto
freddo... sto gelando qui fuori... Nathan... fammi entrare!
La voce di Emily era angosciata, tremante, estremamente triste e
malinconica.
Provai pena per lei.
-Ti prego... smettila! Tu... non puoi essere Emily. Lei... tu...
perché?! Perché mi stai facendo questo?!
Guardai in basso, verso la figura accanto all’albero.
Mi stava fissando. Potevo sentire il suo sguardo addosso. La figura
piegò la testa da un lato, in maniera innaturale, senza
smettere di guardare verso di me. Riuscii quasi a vedere un sorriso
enorme e inquietante, sul suo volto oscurato.
-Perché mi stai facendo questo?! Emily... perché
mi stai facendo questo?! Ti prego, smettila!
Stavo per sentirmi male. La sua voce, dapprima dolce, aveva assunto un
tono canzonatorio, e stava ripetendo le stesse frasi, pronunciate da me
poco prima. Mi sentii preso in giro.
Feci per rispondere, ma venni interrotto da una risata. Quella
squillante risata, che aveva sempre distinto Emily da tutte le altre
ragazze. Ciò che, ai miei occhi, l’aveva resa
speciale e unica.
-Nathan...
perché non vuoi salvarmi? Perché mi lasci qui
fuori? Fa tanto freddo... sto congelando!
Scossi la testa con vigore, sentendo le lacrime scorrermi lungo il
viso. Le gambe, sembravano non reggermi nemmeno più.
-Lo sai...
-fece di nuovo lei, stavolta con tono serio -è colpa tua... se
sono qui fuori.
-No. No. No. No. NO!! Sei tu che mi hai lasciato! Perché?
Perché mi hai lasciato?! Non è stata colpa mia...
smettila, per
favore!
Emily iniziò a piangere, e la sua voce sembrò
farsi sempre più distante.
-Sì...
è colpa tua! Solo colpa tua!
Disse lei, con tono accusatore. Strinsi forte il
cellulare, distogliendo per un secondo lo sguardo dalla finestra, e
dalla figura sottostante.
Quando tornai a guardare fuori, per poco non persi i sensi. Emily era
lì, davanti alla finestra, che mi guardava con odio.
Pallida, cadaverica, con il volto coperto di sangue. Sentii la gola
seccarsi, non riuscivo nemmeno a parlare. Feci cadere a terra il
cellulare, spalancando gli occhi dal terrore.
-FAMMI ENTRARE!! FAMMI ENTRARE!!
Urlò lei, con tutto il fiato che aveva in gola. La finestra
si spalancò, e lei si lanciò verso di me.
Il suo volto, era contratto in una smorfia di dolore terrificante.
Quasi demoniaca. I suoi occhi, sempre verdi e luminosi, ora erano due
pozzi neri in cui temevo di sprofondare.
Mi buttai a terra, urlando disperatamente. Mi coprii la faccia con le
mani, cercando di proteggermi in qualche modo, senza smettere di
piangere e chiedere aiuto.
Persi completamente la cognizione del tempo e della realtà.
Sentivo come se la stanza volesse inghiottirmi, tremavo dalla paura e
dal freddo.
Continuai ad urlare, finché non sentii qualcuno stringermi
forte e cercare di calmarmi.
Non aprii gli occhi. Non subito.
Avevo paura di quello che avrei visto. Volevo solo che tutto finisse.
-Nathan! Nathan! Calmati!
Sentii qualcosa pungermi il braccio, e solo allora presi coraggio e
aprii gli occhi.
Ciò che vidi, fu il volto di una donna vestita in bianco,
accompagnata da un signore di mezz’età, con un
camice dello stesso colore.
Appena riuscii a mettere a fuoco ogni cosa, vidi una siringa tra le
dita dell’uomo.
-È successo di nuovo? Hai ancora i tuoi soliti incubi?
Incubi? Come potevano chiamare incubo, ciò che mi era
successo poco prima? Non mi ero immaginato nulla, era tutto reale!
Riuscii sempre più a distinguere le due persone davanti a
me, riconoscendo i camici da infermieri.
-Dove mi trovo? Che ci faccio qui? Dov’è... Emily?
L’infermiera scosse la testa, carezzandomi
dolcemente i capelli biondi con fare materno.
-Nathan... sai bene dove si trova Emily. Sei in cura da noi da tre
anni, quando potremo vedere dei miglioramenti?
-Tre anni?! Ma di che state parlando!! Voi mi state mentendo!! Lei mi
ha lasciato otto mesi fa... lei... lei...
Mi bloccai, sentendo la testa pulsare dolorosamente.
-Sì, Nathan? Continua...
Ricordi. Ricordi che la mia mente, forse per proteggermi dal dolore,
aveva cercato per anni di relegare in un angolino.
Ricordi che venivano a galla solo in momenti di lucidità,
cosa che ormai succedeva di rado, e che mi facevano cadere in un
vortice di disperazione e senso di colpa.
-Lei è... morta... per colpa mia.
L’infermiere fece qualche passo verso di me. Ero ancora
seduto sul pavimento, con lo sguardo perso nel vuoto.
-L’inverno di tre anni fa. Ricordi? Sei stato in coma per due
mesi.
Improvvisamente, ricordai tutto.
Quel freddo inverno, la nebbia, noi due che litigavamo in macchina, e
Emily che piangeva.
Aveva detto di non amarmi più, di non provare più
gli stessi sentimenti di un tempo.
La cosa mi aveva fatto uscire di testa, tanto che avevo preso a
insultarla pesantemente, mentre guidavo in una strada buia con la
nebbia fitta.
Fu tutto così veloce, che quasi faticavo a ricordare.
Emily che urlava disperatamente di guardare la strada, io che non
l’ascoltavo, io che perdevo il controllo della macchina, e
andavo contro un’enorme quercia. Emily che, nello schianto,
veniva scaraventata violentemente contro il parabrezza, riducendolo in
mille pezzi.
E io che, con sguardo terrorizzato e perso, guardavo gli occhi della
persona che più amavo al mondo spegnersi lentamente, mentre
il sangue le sporcava il volto roseo.
-Sono stato in coma per due mesi.
Ripetei, quasi come se stentassi a crederci.
Non riuscivo più a ragionare in modo lucido.
-Sì, Nathan. Dopo che ti sei svegliato, hai iniziato ad
avere incubi sempre più frequenti, hai rischiato
più volte di ucciderti. Siamo stati costretti a tenerti
sotto osservazione. Stavi impazzendo!
Feci una risatina nervosa, puntando i miei occhi chiari verso la
finestra.
Era chiusa, e tutto intorno era in perfetto ordine, come se non fosse
successo nulla.
Mi guardai intorno per cercare il cellulare, non trovandolo da nessuna
parte. Mi chiesi se, effettivamente, negli ultimi tre anni ne avessi
davvero mai avuto uno.
L’infermiera si avvicinò nuovamente a me,
facendomi alzare dal pavimento e rimettendomi a letto.
-Ti abbiamo dato un tranquillante. Dovresti riuscire a prendere sonno,
tra poco. Prometti che farai il bravo?
Non risposi, continuando a fissare la finestra, dove pochi istanti
prima avevo intravisto il volto di Emily. I due infermieri fecero un
sospiro di rassegnazione, uscendo dalla stanza dell’ospedale
psichiatrico in cui stavo, lasciandomi solo.
Di nuovo.
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Spero vi sia piaciuta!
Baci.
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