Dopo la fine

di Destyno
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Si svegliò ed il mondo era così incredibilmente, profondamente e irrevocabilmente sbagliato che per un istante gli sembrò tutto normale.

Il materasso sul quale era sdraiato era soffice. Un leggero lenzuolo lo copriva, una soffice barriera contro l’effimero freddo che poteva entrare dalla finestra in una notte d’estate inoltrata.
Era in una cameretta, dal soffitto dipinto di azzurro e una scrivania disordinata, libri di scuola, quaderni e compiti delle vacanze finiti a metà sparsi su di essa.
Ricordava quella stanza.
Era la sua, quando aveva sedici anni.

Si guardò le mani e quasi urlò. Quelle mani non erano le sue.
Se le ricordava bene, le sue mani. Non ricevevano mai troppa attenzione da parte sua, vero – chi cerca di memorizzare attivamente le proprie mani? – ma era certo al cento per cento che quelle non erano le sue mani.
Però lo erano state.

Kevar Frostbane si era guadagnato il suo nome a furia di battaglie contro gli Spettri, nelle Foreste Gelide di Emarra, combattendo fianco a fianco di Elvenna Firesword e di Urghai Willweaver, falciando a migliaia di quelle creature ghiacciate e infine salvando le Heartlands dal Re dell’Inverno, trapassando il suo cuore di ghiaccio con la leggendaria lancia Dente di Drago.
E nelle Heartlands, dove era riverito come uno dei tre legittimi eroi che le Nove Dee avevano scelto, erano in pochissimi a sapere che un tempo egli aveva avuto un altro nome.
Kevin si passò, tremante, una mano sull’occhio destro.
L’orbita era piena e tonda, e non vuota come la ricordava. Non vuota, come lo era stata per diciannove anni.
Diciannove anni!
Si mise seduto, la schiena appoggiata contro lo schienale del letto, piangendo.
“No,” sussurrò, stringendo tra le mani il lenzuolo, “Dee del cielo, vi prego, no. Ho scelto di restare.”

Strinse così forte da farsi quasi male.
Tra quelle braccia aveva stretto Urghai, quando la battaglia era finita. A quel collo aveva portato il dolce peso dell’Amuleto del Dolore, quando il suo gentile ed iracondo orco si era perso tra le Nebbie. Con quelle labbra l’aveva baciato, e con quelle mani aveva accarezzato Miko, il giovanissimo orfano che avevano preso con loro.
Singhiozzò.

Non poteva essere stato un sogno. Non poteva, semplicemente, perché se era stato un sogno allora tutta la vita di Kevar – tutto il dolore che aveva sofferto, tutte le gioie che aveva provato – non era stata altro che una stupida fantasia e Kevin non sarebbe mai stato in grado di vivere una vita normale.

Poi sua madre aprì la porta.

Non era bella come l’aveva sognata, in quei ventidue anni passati lontano da lei. Ma era lì.
E le era mancata così tanto.

Si alzò e corse verso di lei, incespicando, insicuro sui propri stessi passi, e l’abbracciò stretta, stringendola a sé come se potesse sparire da un momento all’altro.
Oh, quanto era più bassa di lui, già a sedici anni!, pensò, sorridendo tra le lacrime. Chissà cosa avrebbe detto, se lo avesse visto con una lancia fatta di ossa di drago in mano, comandando un esercito contro una potente entità che minacciava il mondo con un eterno inverno?

“Beh, buongiorno anche a te, Kevin,” rise sua madre, sorpresa, ma abbracciandolo comunque, “a cosa devo l’onore?”
Il ragazzo si asciugò le lacrime e rise, e la sua stessa risata gli suonava aliena e bizzarra.
Tossì.
“Nulla, mamma.” Mormorò. “Ho solo fatto un brutto sogno.”


Hail and well met!
Comincio col dire che non ho tante idee di dove andrò a parare con questa storia. E sì, lo so che ho almeno altre cinque storie ancora da completare, ma non sono bravo a finire le cose, rip
Però c'avevo voglia di far soffrire qualcuno e i miei personaggi ci sono andati di mezzo come al solito, poracci
Poi boh, per una volta non mi sono ammazzato di worldbuilding come faccio di solito, quindi se notate incongruenze ditemelo pls
Adieu

 




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