Pairing: Ushishira | TenSemi |IwaOi
Parte:
2/9.
Avvertimenti: Soulmates!AU in cui si vedono i colori per la
prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Malattia| Non
odiatemi troppo | Per le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi (più avanti
nella storia) è necessario leggere la prima soulmate, che trovate qui.
Alla mia parabatai Luna: ci ho messo mesi
a finire questa storia, è tua e mi sembrava opportuno cominciare la pubblicazione
nel giorno del tuo compleanno.
Don’t let me be gone.
Parte seconda.
Shirabu
non aveva provato a dissuadere la squadra dall’andare con lui ed Ushijima, la
mattina dopo, in ospedale per il colloquio con l’oncologo. Si era detto che,
dopotutto, non gli importava, che potevano fare quel che volevano nel loro
tempo libero e che di certo non stava a lui preoccuparsene, fintantoché non lo
infastidivano.
Quindi
non aveva detto nulla quando Semi gli aveva mandato un messaggio per informarlo
del fatto che erano tutti in sala d’attesa – aveva sospirato ed allontanato da
sé quella sensazione di calore all’altezza del petto, così diversa dal dolore
della malattia, ma altrettanto incline a portarlo alle lacrime. E lui non aveva
alcun bisogno di piangere.
Ascoltare
ciò che il dottore stava dicendo s’era rivelato estremamente difficile.
Kenjirou inciampava tra le parole, restava aggrappato ad ognuna di esse per
troppo tempo perdendo così pezzi di discorso, per poi saltare di frase in
frase, recuperare, solo per perdersi nuovamente. Gli pareva che l’uomo dietro
la scrivania parlasse in modo troppo meccanico, con poca empatia, quasi fossero
cose da nulla quelle che diceva. Se fosse stato lucido, Shirabu avrebbe pensato
che non c’era nulla di strano: per un oncologo di certo non era una novità dare
una diagnosi del genere; tuttavia, il ragazzo non poteva fare a meno di pensare
che quella fosse una leggerezza immotivata, che non stesse dando la giusta
importanza alla sua malattia.
«...quindi
agiremo con una prima serie di cicli di chemioterapia, sperando che la massa si
riduca abbastanza da permetterci di operare per la sua rimozione».
Anche
quel “noi” che faceva da soggetto alle sue frasi riusciva ad irritare Shirabu -
era facile parlare dall’esterno, ma quello che avrebbe affrontato davvero
entrambe le cose sarebbe stato lui e solo lui.
Ushiima
avvertì la sua irritazione come fosse la propria e gli pose una mano sulla
spalla; il capitano della Shiratorizawa era il solo a stare in piedi, dietro
alle tre sedie su cui s’era accomodata la famiglia Shirabu: da quella posizione
gli pareva di poter guardare la scena ed ascoltare la conversazione come se non
vi appartenesse, quasi fosse un anonimo spettatore in un teatro. Dopotutto, non
aveva più potere su quei rivolgimenti di quanto ne avesse il pubblico sulle
azioni dei teatranti.
Si
ritrovò a chiedersi se avesse un ruolo in quella storia, come compagno di Shirabu, come sostegno, come
persona che avrebbe volentieri preso su di sé quella malattia pur di non farlo
soffrire nel modo in cui sapeva che stava soffrendo. Se glielo avessero chiesto
mesi prima, quando aveva appena scoperto il loro legame, non avrebbe avuto
esitazioni nel rispondere: Ushijima non si sarebbe mai tirato indietro, a
maggior ragione in una simile situazione. Non che adesso avesse dei dubbi a
riguardo… era piuttosto una sensazione la sua, la percezione di una freddezza
che proveniva da Shirabu, l’impressione che volesse essere lasciato da solo,
che avesse deciso di allontanarsi.
Dopotutto
non gli aveva detto nulla, si era tenuto dentro per giorni quella cosa senza
confidarla neanche a lui… che cosa doveva pensare Ushijima? La verità era che
non sapeva come doveva comportarsi.
Intanto
il resto della squadra non s’era mosso dalla sala d’attesa; diversi infermieri
avevano chiesto loro se aspettassero un qualche medico magari, ma i ragazzi
avevano scosso la testa e Reon era stato abbastanza garbato da spiegare che
erano lì per un amico.
Reon
pareva essere l’unico in grado di parlare e di avere una qualche relazione col
mondo esterno da quando avevano saputo di Shirabu: era stato a colloquio con il
coach non appena erano tornati in Accademia ed aveva chiesto qualche giorno
libero per tutti; poi aveva preso Goshiki con sé e lo aveva accompagnato in
stanza, restando lì con lui tutto il tempo necessario: era stato paziente, lo
aveva stretto a sé ed aveva lasciato che piangesse e gridasse contro il suo
petto - non credeva che il ragazzo l’avrebbe presa tanto male, ma era
consapevole del fatto che ognuno reagisse al dolore in maniera diversa. Gridare
era il modo di Goshiki.
Era
tornato in camera sua solo quando il ragazzo s’era calmato ed addormentato, ma
non era riuscito a chiudere occhio - sentiva il dolore di tutta la squadra,
l’incertezza di quello che sarebbe successo e per la prima volta, Reon aveva
desiderato non essere così legato agli altri. Non sentire così tanto. Nella sua mente si affollavano troppe domande a
cui nessuno avrebbe potuto dare risposta, così tanti dubbi che non riusciva ad
esternare… Neanche piangere serviva. Reon non era abituato a piangere.
Essere
gentile era il suo modo di sopravvivere in attesa di notizie. Essere
passivamente gentile era qualcosa che gli accadeva quando non aveva più la
forza di pensare; per questo dava tutte le informazioni del caso e per questo,
nell’ora che i ragazzi aspettarono prima che Shirabu uscisse, fece più volte
tappa al distributore prendendo ad ognuno qualcosa. Niente lo infastidiva
davvero perché era semplicemente troppo stanco per provare consapevolmente
qualcosa.
Dopotutto,
il clima che si respirava tra i ragazzi era quasi opprimente e a Reon faceva
bene camminare. Tendou aveva persino smesso di canticchiare: il suo silenzio
era il peggiore.
«Mi
ricoverano».
Appena
uscito dalla stanza dell’oncologo, Shirabu non usò preamboli, si prese appena
il tempo di guardare i suoi compagni di squadra prima di parlare. Il fatto che
fossero ancora tutti lì gli stringeva il petto in una morsa che non avrebbe
saputo definire, ma che non aveva la forza di sentire al momento.
«Dalla
prossima settimana comincerò il primo ciclo di chemio». Avrebbe voluto sembrare
freddo e professionale come il suo oncologo, spiegare loro che cosa
significassero tutte quelle parole, ma vedere le loro facce sorprese, forse
confuse, gli diede un viscerale senso di appagamento - loro non capivano,
nessuno di loro aveva davvero idea di cosa sarebbe successo. Quel vantaggio a
Shirabu piaceva.
«Wakatoshi
resterà con te, vero?» Tendou aveva la strana capacità di sembrare
incredibilmente stupido o incredibilmente serio a suo piacimento: bastava il
tono della voce o la serietà del viso e del buffone non restava più traccia,
risucchiato via da qualcuno di completamente diverso.
«Sì»,
annuì il capitano «Potrei riuscire ad aiutarlo col dolore, dal momento che il
nostro legame è tanto forte».
Shirabu
si accorse che qualcosa era cambiato nella voce del suo compagno, ma non disse nulla, a stento lo guardò. Non aveva la
forza di affrontare i suoi occhi perché sentiva dentro di sé la sua rabbia -
rabbia di cui forse Ushijima non era altrettanto consapevole. E lo capiva –
anche lui si sentiva furioso, anche lui avrebbe voluto gridare e forse presto
si sarebbe lasciato andare, esplodendo e tirando fuori tutto quello che
provava, ma non adesso. Adesso era frastornato e cercava di difendersi da un
attacco tanto improvviso restando dritto sulle proprie gambe e facendosi
bastare quello, cercando di dare l’impressione di essere ancora lo stesso
ragazzo forte di qualche mese prima.
Per
questo Kenjirou non riusciva a chiedere aiuto a Wakatoshi, o ad averlo accanto.
Che cosa avrebbe pensato di lui se si fosse mostrato tanto debole? Era
diventato il migliore per poter giocare al suo livello – cosa ne sarebbe stato
della persona che amava se Ushijima lo avesse scoperto improvvisamente tanto
miserevole?
Il
dottore gli aveva spiegato per bene quali potessero essere gli effetti
collaterali della chemioterapia. Shirabu si era fatto mentalmente una lista per
punti, ordinandoli per gravità secondo un suo personale metro di giudizio ed
aveva avuto voglia di ridere istericamente quando l'uomo gli aveva indicato la
possibilità di danni agli organi interni per via dell'aggressività dei
medicinali: non era forse uno dei suoi organi interni a volerlo morto? Era
quello che meritava.
Forse
pensare in quel modo lo aiutava a non perdere la testa; ritenerla una battaglia
contro un nemico altro da lui era un modo per non pensare al fatto che, in
realtà, era il suo stesso corpo ad aver deciso di morire. Allora il polmone
malato diventava un antagonista a cui opporsi, perdeva il suo status di organo
e Shirabu poteva immaginare che la sua sconfitta fosse necessaria alla propria
vittoria - anche se non era certo di avere la forza di un eroe dei romanzi.
Ushijima
era rimasto con lui per tutto il tempo da quando era stato ricoverato, ma i due
si erano a malapena parlati: Shirabu continuava a pensare a qualcosa da dire,
si arrovellava alla disperata ricerca di un argomento, ma tutte le
conversazioni erano cadute nel vuoto dopo pochissime battute e alla fine il
ragazzo si era semplicemente rassegnato addormentandosi. Era così stanco da non
accorgersi delle braccia del compagno che lo avevano avvolto nel sonno -
Ushijima non aveva chiuso occhio, ma era stato attento ad ogni suo nuovo
respiro, annullandosi in essi.
Anche
quella mattina era rimasto con lui. Shirabu non aveva fatto colazione e poco
dopo era stato portato nel reparto di oncologia per cominciare il trattamento -
per cinque giorni avrebbe ricevuto il cocktail di medicine che aveva concordato
col medico e il resto del mese avrebbe atteso che le cellule distrutte si
rigenerassero, prima di irradiarle col secondo ciclo di chemio. Wakatoshi non
aveva detto nulla, ma non aveva perso di vista il compagno neanche per un istante - aveva tenuto d’occhio
l’infermiera gentile che lo aveva fatto stendere sul lettino e gli aveva messo
la flebo a cui, dopo qualche istante, aveva collegato la sacca con le medicine.
Ushijima
avvertì l’esatto istante in cui cominciò il trattamento: credeva sarebbe stato
per via del dolore, invece fu la paura a colpirlo. Un terrore disarmante prese
possesso del suo corpo e il ragazzo non poté fare a meno di fissare Shirabu,
ancora senza dire nulla. Kenjirou aveva la testa tirata all’indietro e gli
occhi serrati - non era pronto, non si era mai sentito tanto impreparato nella
sua vita e soprattutto era impaurito, ogni cosa aveva il potere di spaventarlo.
A Wakatoshi non era mai sembrato tanto fragile come in quel momento.
«Sono
qui accanto a te», gli sussurrò prendendogli una mano e stringendola.
Shirabu
annuì appena - aveva voglia di piangere ed era stanco di quella sensazione. Non
seppe quanto tempo fosse passato quando prese a stare male: aveva cercato di
estraniarsi quanto più possibile da quel posto e per questo gli pareva di
essere sdraiato sul lettino da sempre quando un conato di vomito gli salì alla
gola quasi senza preavviso.
Ushijima,
ancora con la mano nella sua, capì immediatamente che cosa stava succedendo; si
sporse, cercando di non lasciarlo andare, fino a raggiungere un catino di plastica
poco lontano che una delle infermiere aveva lasciato lì proprio per casi del
genere e lo poggiò con delicatezza sul petto del compagno.
«Va
tutto bene, è normale che ti senta così, va tutto bene».
Ma
Shirabu lo odiava. Odiava il modo in cui si stava sentendo, odiava il fatto che
avrebbe dovuto abituarsi a quella sensazione, odiava il tono di condiscendenza
con cui Wakatoshi stava cercando di tranquillizzarlo perché sembrava falso.
Perché lui poteva percepirla la sua rabbia, la sua frustrazione ed avrebbe
voluto gridargli addosso che non aveva senso trattenersi così.
Vomitò,
Shirabu, e si accorse che Ushijima aveva mentito, che non andava tutto bene,
che non stava meglio dopo averlo fatto. Anzi, si sentiva uno schifo, la testa
aveva preso a fare male e non voleva che l’altro lo vedesse in quel modo, che
stesse lì a fissarlo mentre era così debole e indifeso, mentre non era lui.
«Vattene»,
sussurrò, pulendosi la bocca con la mano libera e tirando di nuovo la testa
indietro, senza guardarlo. Ushijima non diede peso a quella parola.
«Forse
per la prossima volta avere un po’ di musica potrebbe essere un’idea», suggerì,
riflettendo sul modo in cui distrarre Kenjirou «Potrebbe farti rilassare».
«Ti
ho detto di andartene!».
Shirabu
non avrebbe voluto gridare, ma la presenza di Ushijima in quel momento era la
cosa che lo metteva più a disagio. Si tirò su, incurante dell’ago, dei
medicinali, del suo malore: gli aveva detto di andarsene, perché non lo stava a
sentire? Era già arrivato alla fase in cui al malato non si lasciava più
decidere nulla, in cui non aveva più possibilità di scelta?
«Kenjirou, io-».
«Non
ti voglio qui, sto male e tu… devi andartene».
«E
dove vuoi che vada?».
Solitamente
il modo di parlare di Wakatoshi era sempre chiaro e trasparente; nelle sue
parole non c’era mai un doppio senso, mai un significato nascosto, da leggere
fra le righe o poter fraintendere. Quella volta, ad ogni modo, Shirabu ebbe la
chiara percezione che non gli stesse chiedendo semplicemente dove dirigersi, ma
che piuttosto stesse sottolineando come non avesse alcun posto dove andare. E
si sentì male a pensarci, perché in qualche modo sapeva che era vero.
«...Ovunque
non sia con me, malato».
Ushijima
lo guardò, inclinando appena la testa: vedeva il suo compagno, la persona che più amava al mondo, disperarsi davanti a
lui per apparire forte, per non farsi cogliere nella debolezza della situazione
in cui era precipitato, ed avrebbe voluto soltanto portarlo via, al sicuro da
ogni male.
«Non
esiste altro posto per me, riesci a capirlo? Lo supereremo insieme».
Shirabu
scosse la testa - non voleva la sua pietà o il suo aiuto.
«Puoi
andare. Dico davvero, vattene, non stare con me perché te lo impone il legame,
non voglio che tu-».
«Non
insultarmi».
Kenjirou
si sentì gelare il sangue nelle vene - era questa la sensazione che si provava
ad avere davanti il capitano della Shiratorizawa ed essere suo avversario?
Ushijima lo stava guardando con occhi fermi e qualcosa in essi lampeggiava di
rabbia e dolore. Shirabu non era riuscito a cogliere, ripensandoci, il momento
in cui era scattato o la ragione per cui lo stava fissando con tanto astio.
Cosa aveva detto…?
«Se
tu credi che sia qui per il legame, se tu pensi che ciò che mi leghi a te sia
solo questo-». Wakatoshi sembrava avere difficoltà nell’esprimersi, il volto
serio e il corpo che perdeva lentamente la calma e prendeva a tremare appena
«Come hai potuto pensare che fosse solo… Kenjirou».
Il nome lasciò le sue labbra con un tono di supplica che l’alzatore non poté
ignorare.
Perché
in fondo lo sapeva che Ushijima lo amava, che il loro sentimento era autentico
e andava al di là del legame, pur essendo nato da esso. E non sapeva perché gli
aveva chiesto di andarsene, perché glielo avesse detto, se fosse stato
l’orgoglio o altro, ma si sentì estremamente in colpa, quasi lo avesse tradito.
«Mi
spiace, Wakatoshi. Non intendo mettere in discussione il nostro legame». Era di
nuovo estremamente stanco - si lasciò cadere sul lettino. «So perché sei qui
accanto a me».
Ushijima
lo osservò ancora per qualche istante prima di riuscire a calmarsi del tutto;
poi andò a svuotare il catino e lo poggiò ai suoi piedi, nel caso servisse
nuovamente. Accarezzò i capelli di Shirabu, la frangia tagliata male che gli
ricadeva sulla fronte in modo scomposto a causa del sudore e scese poi con le
dita sulla guancia pallida, in un gesto leggerissimo.
«Sì,
portiamo un po’ di musica domani», sussurrò l’alzatore - non voleva allontanare
il compagno; solo, non sapeva se era
pronto a farsi vedere tanto debole da lui.
***
Shirabu
aveva pensato che la parte più difficile da superare fossero i cinque giorni al
mese in cui avrebbe effettivamente subito il trattamento medico - reggere le
tre ore in cui i medicinali scivolavano nel suo corpo, subdoli quanto la
malattia stessa, era stato estenuante, lo aveva davvero messo a dura prova.
Tuttavia, si era reso conto che la parte davvero difficile cominciava dopo, nei
giorni di attesa, i giorni di cui il corpo aveva bisogno per riprendersi
dall’attacco. In quei primi giorni, Shirabu si era sentito così stanco che alle
volte non era neanche riuscito a mettersi dritto per mangiare qualcosa. Sua
madre, che aveva preso un permesso di malattia dal lavoro per stargli accanto,
cercava di fare tutto il possibile perché si sforzasse poco e riguadagnasse
quanto prima le forze, ma a Kenjirou alle volte pareva tutto inutile e passava
la maggior parte del tempo a dormire.
Dopo
la prima settimana, s’era accorto che forse qualche miglioramento c’era stato -
la nausea, il vomito e la stanchezza non lo avevano ancora lasciato andare, ma
c’erano momenti in cui non si sentiva troppo stordito, momenti in cui
dimenticava quasi del tutto gli effetti della chemio.
In
quei momenti, Shirabu pensava al suo futuro: che cosa gli sarebbe successo una
volta portati a termine i cicli? Ovviamente, sapeva che se la massa tumorale si
fosse ridotta abbastanza, avrebbero provato ad asportarla - non era il lato
medico a renderlo dubbioso, ma piuttosto quello personale. Che cosa ne sarebbe
stato di lui come studente e giocatore della Shiratorizawa? Sarebbe ancora
stato in grado di frequentare l’istituto, di giocare con gli altri?
Per
questo aveva chiamato Kawanishi - il solo di cui potesse fidarsi per una cosa
del genere - e gli aveva chiesto di portargli tutto il materiale di studio che
i professori avevano dato loro da fare durante le vacanze estive. Voleva fare
tutto il possibile per tenersi al passo con gli altri e se ovviamente gli
allenamenti di pallavolo gli erano preclusi, poteva quantomeno tenersi in pari
con lo studio, cercare di non far pesare troppo quella malattia sul suo
rendimento scolastico.
Si
aspettava che Ushijima avesse qualcosa da ridire a riguardo, quel pomeriggio,
quando dopo il controllo medico di routine, aveva tirato fuori un libro di
storia e cercato la pagina da cui studiare. Aveva immaginato gli sguardi di
disappunto e i sospiri seccati e da bravo paranoide aveva anche già preparato
un discorso di difesa a quelle accuse, che poteva sostanzialmente riassumersi
nel fatto che s’era impegnato tantissimo per entrare alla Shiratorizawa e non
avrebbe lasciato che uno stupido cancro gli rovinasse così la vita e i progetti
futuri.
Invece,
Wakatoshi lo aveva osservato per qualche istante, poi si era seduto alla sedia
che dava sulla finestra ed aveva preso a guardare fuori, allontanandosi da
quella scena. Shirabu non aveva saputo interpretare una reazione tanto diversa
dalla propria aspettativa, per questo aveva cercato di non pensarci e di
tornare al libro: se il suo compagno non
aveva intenzione di fargli problemi, doveva approfittarne.
Quello
che il ragazzo non sapeva era che Ushijima stava male. C’era uno strano dolore
che aveva preso a tormentarlo dal giorno in cui avevano litigato, alla prima
seduta di chemioterapia, e che da allora non lo aveva più lasciato stare. E lui
sapeva a cosa era dovuto, sapeva che dipendeva dal modo in cui stavano
affrontando quella situazione come coppia, dal fatto che avessero smesso di
parlare liberamente, di ridere, di essere in sintonia - quello che non sapeva
era come mettere le cose a posto. Era bloccato in quella situazione e non aveva
possibilità di parola, perché Shirabu lo avrebbe chiuso in silenzi fatti di
incomprensione. Quindi soffriva, da solo, appena un po’, di un dolore lento e
logorante che, fortunatamente, l’altro non pareva provare. Ma stargli accanto
stava diventando difficile e Ushijima si stava lasciando vivere.
«Sei
sicuro che studiare non ti stanchi tanto?» La signora Shirabu pose la domanda
con gentilezza, in un modo che non permise al figlio di risentirsi.
«Oggi
sto bene», rispose semplicemente. «Tu invece mi sembri un po’ stanca… forse
sarebbe il caso che tornassi a casa per la notte, posso tranquillamente stare
da solo ogni tanto». Non voleva lamentarsi, Shirabu, stava davvero solo
cercando di dare a tutti una pausa dalla sua malattia e da se stesso - il tono
della sua voce, ad ogni modo, era troppo tirato perché si potesse cogliere
davvero la premura che avrebbe dovuto avere.
«Niente
affatto - stanotte starò con te, come programmato».
La
donna stava facendo a turni con Ushijima per non lasciare mai Kenjirou da solo:
il ragazzo non scendeva mai di notte, certo, ma nessuno dei due sarebbe
riuscito a riposare con tranquillità sapendolo da solo, non in quel primo
periodo almeno, e l’ospedale aveva permesso loro di fare quei turni per il
momento.
«Le
va se le vado a prendere un caffè?» propose Ushijima - Shirabu fu sorpreso di
sentirlo: stava ascoltando i loro discorsi? Gli era sembrato tanto distante…
«Sei
troppo buono, Wakatoshi», gli sorrise la donna, ma accettò la sua proposta
perché, al di là di tutto, sentiva davvero il bisogno di un caffè.
Ushijima
lasciò la stanza dopo aver dato un ultimo sguardo a Shirabu - si era reso conto
che faceva quel gesto in modo automatico, senza effettivamente rifletterci:
guardarlo prima di andare via era necessario come respirare, anche se si
trattava di allontanarsi solo per qualche minuto. Era diventata la sua
condizione di vita.
«Vai
con lui, per favore». La voce di Kenjirou suonò estremamente triste. Sua madre
si voltò a guardarlo. «È così strano in questo periodo, non voglio stia solo.
Io sto bene, davvero».
La
donna aspettò ancora qualche istante prima di annuire ed uscire dalla stanza.
Shirabu sospirò e cercò nuovamente di concentrarsi sui libri, mentre il
pensiero del compagno lo trascinava
lontano. Come stava? A cosa pensava? In quei giorni la sua malattia pareva
occupare tutto il loro legame e non concedere spazio ad altre sensazioni. Era
uno dei motivi per cui Shirabu si sentiva in colpa, oltre al fatto di star
costringendo Ushijima a restarecon qualcuno di rotto, di improvvisamente
insufficiente.
La
testa prese a girargli non appena gli occhi presero a seguire le righe scure
della pagina; i kanji parevano ballare e confondersi fra loro, mischiarsi e
creare parole nuove prive di significato. Kenjirou lasciò andare il libro sulle
ginocchia, improvvisamente a corto di fiato - gli pareva di sudare freddo e
respirare era diventato alquanto difficile. Non era la prima volta che
succedeva: la massa tumorale in qualche modo impediva al polmone destro di
espandersi completamente e quindi quando era affaticato andava sotto sforzo;
solitamente gli bastava stendersi e mettere per qualche minuto la mascherina
dell’ossigeno per tornare a respirare per bene.
Si
sporse oltre il proprio letto, cercando di raggiungere l’ossigeno, ma poggiando
tutto il peso su di un solo braccio il suo intero corpo prese a tremare -
Shirabu non s’era mai sentito tanto debole ed avrebbe voluto gridare per la
rabbia. Rinunciò dopo un secondo tentativo - la mascherina era troppo lontana,
dove la madre l’aveva appoggiata dopo l’ultima volta che ne aveva avuto bisogno
- e si sistemò meglio sul letto, cercando di controllare la propria
respirazione: se l’avessero trovato in quello stato l’avrebbe odiato.
Due secondi dentro, quattro secondi
fuori, prese a ripetersi nella testa - era una tecnica che tornava
utile per chi andava in iperventilazione, ma in qualche modo riusciva a calmare
anche il suo battito e a favorire una respirazione normale. Due secondi dentro, quattro secondi fuori.
Perché Ushijima non gli parlava più? Certo, non lo stava ignorando, rispondeva
alle sue domande ed era sempre con lui, ma in qualche modo aveva smesso di
farsi avanti, non sembrava più disposto a cominciare una qualunque discussione
e alle volte era perso nei suoi pensieri. Due
secondi dentro, quattro secondi fuori. A cosa pensava? Sicuramente si stava
pentendo di averlo conosciuto, di aver stretto il legame con lui. Due secondi dentro, quattro secondi fuori.
Dopotutto, che cos’era adesso Shirabu? Non era uno studente, non era un
giocatore, non era il suo alzatore - motivo per cui era entrato alla
Shiratorizawa - e sicuramente non riusciva ad essere il suo compagno. Era malato, era solo malato. Due secondi dentro, quattro secondi fuori.
I
pensieri impedivano al respiro di tornare normale. Dio, dove erano finiti sua
madre e Wakatoshi? Aveva bisogno di qualcuno, aveva bisogno che gli passassero
la mascherina dell’ossigeno, aveva bisogno di respirare-
«Shirabu!».
La
voce inattesa di Semi Eita fece sussultare il ragazzo che spalancò gli occhi in
direzione della porta. Il suo compagno di squadra lo fissava sulla soglia,
leggermente pallido e immobilizzato - probabilmente era l’ultima persona da cui
Shirabu avrebbe voluto farsi vedere in quello stato, incluso Ushijima.
«Chiamo
qualcuno!», gridò Semi e avrebbe davvero voluto muoversi, ma non riusciva a
staccare gli occhi da Kenjirou, che scosse la testa allungando una mano verso
la mascherina dell’ossigeno. Eita capì immediatamente e in un paio di passi gli
fu accanto, aiutando a metterla e osservando come pian piano il corpo del più
piccolo si rilassava.
«Non
guardarmi in quel modo, non è stato nulla», disse Shirabu, la voce resa opaca
dalla mascherina.
«Ti
capita spesso?», riuscì a chiedergli Eita quando il ragazzo si fu ripreso
abbastanza da poterla togliere e parlare con più tranquillità.
«Non
così
spesso: capita soprattutto se sono sotto sforzo, ma passa presto»,
minimizzò Kenjirou - no, non aveva alcun motivo di lamentarsene, anche se ogni
volta che succedeva era un po’ come morire: sentire il proprio corpo andare in
apnea per la mancanza di ossigeno era terribile perché lo rendeva del tutto
impotente. «Adesso stavo solo studiando, però, quindi non capisco perché-».
«Tu
devi essere impazzito!».
Semi
era scattato in piedi e lo stava guardando con occhi di fuoco, il corpo
completamente rigido e la bocca appena spalancata - Shirabu avrebbe dovuto
capire da quella visione che la situazione non poteva che peggiorare.
«Che
diavolo ti passa per la testa? Studiare?! Non ti basta dover già sopportare i
cicli di chemio? Perché ti sei messo a studiare? E chi diavolo ti ha portato i libri?
Ushijima lo sa? Devo assolutamente parlare con-».
«Tu
non devi fare assolutamente nulla!». Shirabu era allarmato e furibondo, forse
anche più di Semi - che gli passava per la testa, gli chiedeva? Che cosa poteva
passargli? Voleva studiare per continuare ad andare a scuola, per tenere il
passo con gli altri, per meritare quello che aveva.
«Shirabu,
tu sei malato!».
«Grazie
per avermelo ricordato, rischiavo di dimenticarlo!».
«Non
puoi fare di testa tua, devi prenderti cura di te!».
«Questo»,
e il ragazzo prese il libro ancora poggiato sul letto «Questo è prendermi cura
di me! O pensi che sia già bello che morto?».
Quelle
parole colpirono Semi forti con uno schiaffo in pieno viso. Stavano di nuovo
litigando, quella era la prima volta che parlavano per bene e da soli da quando
avevano discusso negli spogliatoi, dopo la finale, e stavano di nuovo
litigando. E parlando di morte. Perché il discorso finiva sempre lì?
«...è
ovvio che non lo so pensi», borbottò «è per questo che ti dico che non dovresti
sforzarti».
«E
che cosa dovrei fare secondo te? Restare ad ammuffire nel letto in attesa di un
miracolo? Dannazione Semi, tu non hai la minima idea di come mi senta, quindi
per favore risparmiami la tua preoccupazione e il tuo moralismo del cavolo!».
Eita
non sapeva che cosa dire: Shirabu aveva ragione, lui non poteva di certo sapere
come si sentisse, ma era troppo chiedergli di stare attento, di non sforzarsi,
di avere cura di sé per una volta? Come faceva a non rendersi conto che la sua
preoccupazione era sincera, che tutta la squadra era terrorizzata all’idea di
perderlo?
«Fa’
un po’ come ti pare!». Un dolore, improvviso, lo fece gridare alla stregua di
un animale che, ferito, ringhia «Ma quando starai male e ti pentirai di esserti
trascurato tanto, non venire a cercarmi perché allora la mia preoccupazione e
il mio moralismo saranno già finiti da un pezzo!».
Non
lo pensava. Non lo pensava assolutamente - anzi, Semi avrebbe sempre avuto
tempo per Shirabu, perché gli voleva bene, perché era legato a lui da qualcosa
che l’altro non aveva mai realizzato appieno e che adesso lo stava facendo,
paradossalmente, reagire in quel modo.
«Di
certo non sarei corso da te, Semi Eita!», gli rispose Shirabu, gridando più di
lui - la testa aveva preso di nuovo a girare, ma non si sarebbe arreso, non si
sarebbe fatto trovare di nuovo in difficoltà. Si chiese, dopo qualche istante,
perché avesse detto quelle cose: non era abituato a chiedere aiuto, questo era
sicuro, ma non era una cosa che riguardava Semi nello specifico - loro due
avevano sempre avuto un rapporto al limite, qualcosa che oscillava fra la stima
e mal sopportazione, eppure in fondo Shurabu gli voleva bene…
Lo
osservò andare via senza dire altro. Sentì, da fuori, la voce di qualcuno che
chiamava l’alzatore - probabilmente Ushijima lo aveva visto andare via - ma non
colse quello che si dissero. Rimase per qualche minuto di nuovo da solo ed
avrebbe davvero voluto che le sue mani smettessero di tremare, che tutto il suo
corpo si calmasse: aveva ragione, aveva ragione lui e Semi non avrebbe dovuto
dirgli di smetterla di studiare quando non aveva idea del perché lo stesse
facendo. ...quindi perché stava male? Perché si sentiva così… distrutto?
«Cos’è
successo con Semi?».
La
voce di Ushijima lo strappò ai suoi pensieri. Si accorse di stare lì a guardare
le proprie mani tremolanti e non riuscì ad alzare la testa verso il suo compagno: gli avrebbe fatto delle
domande, probabilmente sarebbe stato d’accordo con l’altro alzatore, e lui
davvero non aveva voglia di sentirsi dire che doveva stare attento, che doveva
prendersi cura di sé.
«Era
sconvolto, non ha voluto dirmi niente», continuò Wakatoshi, sedendosi sul letto
accanto a lui, prendendo le sue mani nelle proprie. Shirabu fremette a quel
contatto e fu ad un passo dallo scansarsi.
«Mi
ha trovato a studiare e ha cominciato a farmi una paternale assurda», sbottò,
badando ancora a non guardarlo.
«Avrei
dovuto fartela io, sai. Forse dovresti-».
«Non
ti azzardare a dire che dovrei prendermela con calma!».
L’animo
di Shirabu ribollì di nuovo di rabbia: cosa, Ushijima s’era semplicemente
trattenuto? Aveva semplicemente evitato di dirgli quello che pensava? Per un
attimo aveva creduto che almeno lui capisse perché stava continuando, perché
non si stava lasciando andare…
«Dico
solo che sei stanco, che la chemioterapia è dura e non ha senso mettersi a
studiare quando...».
«Quando
il prossimo mese non seguirò le lezioni, giusto?».
Ushijima
gli restituì uno sguardo colpevole: ecco perché non gli aveva parlato molto in
quei giorni, ecco perché aveva sempre cercato di interrompere la conversazione
prima che diventasse seria - aveva paura di poter arrivare a quel punto, di
finire a parlare del loro futuro. Non conoscerlo era qualcosa che lo disarmava
e ancora di più lo disarmava rendersi conto che non era nelle sue mani, che non
stava a lui decidere dove la propria vita o quella di Shirabu sarebbero andate.
Non aveva idea di cosa stesse provando il ragazzo, non aveva idea di cosa
stesse provando lui stesso.
«Perché
non riesci a vedere che sto facendo tutto questo per me e per te?».
Shirabu
piangeva - era stanco, non ce la faceva più a lottare contro gli altri, contro
quello che vedevano o credevano di vedere e capire.
«Per
me? Tu non devi fare niente per me, Kenjirou...».
«Sì
invece! Devo dimostrarti di essere uguale a prima, di essere lo stesso ragazzo
che ha imparato ad alzarti perfettamente la palla, lo stesso ragazzo con cui hai
stretto il legame mesi fa, lo stesso che ha ottimi voti a scuola ed è entrato
alla Shiratorizawa superando i test! Se smetto di studiare come ho smesso di
giocare a pallavolo di me non resterà nulla e tu non avrai alcun motivo per
restare con me!».
Aveva
sputato fuori ogni cosa e adesso il ragazzo si sentiva completamente svuotato,
come una marionetta a cui avevano reciso i fili e che per forza di gravità era
trascinata verso il suolo.
«Non
devi dimostrarmi nulla Shirabu, io non ho mai messo in dubbio tutto questo».
«Sì
invece! Lo hai fatto e l’ho fatto anche io ed è normale! Perché stai con una
persona che ti aveva detto di star bene e invece ti ritrovi con qualcuno che
potrebbe… Non pensare che io non senta la tua rabbia o il tuo dolore!».
Ushijima
s’alzò di scatto, sorpreso, quasi si fosse improvvisamente bruciato a contatto
con una fiamma. Aveva cercato di non parlare, di tenersi a distanza fino a che
tutto non si fosse semplicemente calmato e invece non era riuscito a nascondere
nulla, né la sofferenza che gli stava causando il legame, né la rabbia che
provava…
«Hai
ragione, sono arrabbiato e ho provato a nasconderlo, sono arrabbiato perché a
diciassette anni non ci si dovrebbe ammalare di cancro, perché a diciassette
anni non si dovrebbe stare così male. Sono arrabbiato perché-».
«Vattene».
«Smettila!
Smettila di continuare a dirmi di andarmene ogni volta che cominciamo a
parlarne! Smettila!». Ushijima non era abituato a gridare, non con quella
rabbia - non si sentiva se stesso, mentre si allontanava dal letto di Shirabu
per prendere aria e camminare, ma non ce la faceva a reggere ancora quel tono
nella voce del compagno, quella richiesta talmente insensata da dargli alla
testa.
«Non
devi stare con me per pietà o perché te lo impone il legame. Vattene! Sei
arrabbiato e lo capisco, anche io mi odio per quello che mi sta succedendo, ma
tu puoi andartene, non sei costretto a stare qui con me! Anzi, se non te ne
andrai prenderò ad odiarti perché significherebbe che stai con me solo perché
ti faccio pena!».
Ushijima
lo guardò dritto negli occhi e sentì il dolore del legame crescere a dismisura,
togliergli il fiato, strappargli il cuore dal petto - il disprezzo che Shirabu
provava per se stesso rischiava di soffocare entrambi, come aveva fatto a non
sentirlo prima? E come faceva lui a sistemare le cose? Non era abbastanza: non
era abbastanza forte per entrambi, non era stato capace di amare Kenjirou in
modo tale che mai pensasse di se stesso una cosa tanto brutta o di lui che era
lì per pietà. Aveva sbagliato tutto e quelle parole ne erano la conferma.
«Mi
dispiace, Shirabu. Mi dispiace se non sono forte abbastanza».
Si
sentiva distrutto, si sentiva insufficiente e sentiva di aver deluso il suo
compagno, di averlo fatto soffrire ancora di più, soltanto perché non gli aveva
parlato prima, perché non era stato abbastanza attento da capire che cosa
stesse pensando. Shirabu si odiava e lui avrebbe dovuto capirlo e confortarlo
invece di aver paura di parlare per il timore di dire qualcosa di sbagliato.
Che fine aveva fatto il suo coraggio, la sua leadership? Quando più ce n’era
stato bisogno aveva fallito.
Uscì
dalla stanza voltando le spalle al suo compagno.
Uscì dalla stanza senza vedere le lacrime che avevano preso a bagnare il volto
di Kenjirou, senza vedere il suo braccio sollevato, la mano tesa a volerlo
fermare ma così dannatamente lontana da lui. Uscì dalla stanza perché aveva
bisogno di riprendere fiato, di ricostruire se stesso dalle fondamenta per
essere in grado di sostenere anche lui. Aveva sbagliato ed era stato abbattuto.
Non avrebbe commesso lo stesso errore una seconda volta. Non poteva
permetterselo.
Shirabu
restò a fissare la porta chiudersi e fu certo, invece, di averlo perso.
Il
telefono prese a vibrare nella sua tasca poco dopo che Ushijima aveva varcato
la soglia d’ingresso dell’ospedale - fuori, il sole stava ormai tramontando e
tutto era immerso in quella luce crepuscolare che rende più ciechi di se fosse
notte. Il capitano della Shiratorizawa non s’era mai sentito tanto sconvolto,
forse perché non gli capitava spesso di litigare con qualcuno a cui voleva bene
e soprattutto non aveva mai litigato col suo compagno; per questo non si accorse subito della chiamata in arrivo
e quando lo fece non ebbe voglia di rispondere. Pensò che potesse essere Shirabu
- o sua madre - e sentì di non avere la forza, in quel momento, per poter
parlare, quindi lo ignorò, muovendosi lentamente lungo la strada che
costeggiava l’ospedale.
Quando
la vibrazione, che aveva smesso di solleticargli la gamba, prese nuovamente a
segnalare la chiamata in arrivo, Wakatoshi si fermò e decise di controllare
quantomeno chi lo stesse cercando: dopotutto, sebbene fosse la parte più
importante, la sua vita non si esauriva con Shirabu e semplicemente qualcuno
che non fosse il suo compagno poteva
voler parlare con lui.
Il
nome sul display lo sorprese e Ushijima evitò di chiedersi se fosse la scelta
giusta rispondere, premendo il tasto verde sullo schermo senza pensare.
«Ciao,
papà», salutò - se fosse stato un’altra persona, avrebbe almeno provato a
nascondere la stanchezza o la tristezza che colorava la sua voce, ma Ushijima non
ci pensò perché era estremamente spontaneo in tutto quello che faceva.
«Ciao,
campione». Ushijima aveva provato a far perdere a suo padre quell’abitudine, ma
l’uomo non aveva mai smesso di chiamarlo “campione” dalla prima partita di
pallavolo che aveva vinto, quand’era alle elementari. «Ti...ti senti bene? La
tua voce non ispira nulla di buono».
«Sono
solo molto stanco, sto tornando in Accademia», mormorò il ragazzo, riprendendo
a camminare.
«Mi
spiace non essere lì con te».
«Non
importa, non potresti fare molto».
Ushijima
non voleva essere sgarbato: era semplicemente il modo in cui stavano le cose -
dopotutto, anche lui poteva fare ben poco per migliore la situazione.
«È
successo qualcosa?», si sentì chiedere e per qualche istante rifletté su cosa
fosse più conveniente fare: mentire e cercare di mantenere la conversazione ad
un livello che non destasse nuovi sospetti, o più semplicemente fermarsi su una
panchina e confessare ogni cosa. Non gli servì molto per rendersi conto di non
avere la forza di fingere.
«Io
e Shirabu abbiamo litigato. Non...non so come sia successo. Sta soffrendo, si
sente in qualche modo in colpa per la sua stessa malattia ed è convinto che io
gli resti accanto soltanto perché sono legato a lui. Mi ha detto di andarmene».
«E
tu l’hai fatto?»
«Sì».
Wakatoshi
sentì chiaramente il padre sospirare e si chiese per la prima volta se avesse
fatto bene a lasciare Kenjirou.
«È
come dice lui? Resti accanto a Shirabu solamente perché è il tuo compagno?»
«No!
No! Assolutamente no!»
Perché
tutti pensavano che fosse questa la sua sola ragione? Perché nessuno poteva
credere che ad Ushijima stava bene soffrire e stare accanto a Shirabu e
prendere su di sé tutto ciò che gli era concesso di quella malattia
semplicemente per l’amore che provava per Kenjirou? Che il legame non definiva
affatto le sue azioni?
«Allora
va bene, Wakatoshi».
Ushijima
non riusciva davvero a spiegarsi come suo padre potesse essere tanto sicuro di
quell’affermazione, eppure riconosceva il tono di voce con cui gli aveva
parlato: era lo stesso che aveva usato quando gli aveva detto che sarebbe stato
un grande giocatore di pallavolo e che il suo essere mancino gli sarebbe
servito nella vita. E non s’era sbagliato allora.
«Shirabu
è confuso. Da quello che mi hai detto di lui, è una persona molto orgogliosa e
determinata ed ora si trova in una situazione che non può cambiare, non importa
quanto si sforzi. Deve sentirsi disorientato ed arrabbiato...»
«Si
disprezza», aggiunse Wakatoshi, sedendosi su una panchina - aveva l’impressione
di non poter più camminare, quasi come se tutte le emozioni che provava gli
impedissero di concentrarsi su altro «Si disprezza perché non può fare nulla ed
io… io non mi sono accorto di nulla».
«È
questo che ti tormenta?»
Ushijima
ci dovette pensare per qualche istante: che cosa lo feriva davvero?
«Ho
sempre capito Kenjirou al primo sguardo - sia prima che dopo il legame, abbiamo
sempre viaggiato sulla stessa lunghezza d’onda. Non abbiamo mai avuto bisogno
di più parole del necessario o di spiegazioni… Mentre adesso, adesso Kenjirou
sembra sfuggirmi. I nostri silenzi pesano. Non so che fare papà».
L’uomo
sospirò ancora una volta, debolmente.
«A
lui hai detto quello che stai dicendo a me?»
«Non
volevo si preoccupasse anche di questo, non volevo avesse altri pensieri per la
testa...»
«Io
credo-». C’era qualcosa nel tono di voce del padre che Wakatoshi riconobbe
all’istante, una dolcezza che non sentiva da tanto tempo, che l’uomo utilizzava
solo in rari casi «Io ho imparato che nelle relazioni le decisioni prese singolarmente non
portano mai a nulla. Tu dici di non voler dare a Shirabu altri pensieri, ma lui
potrebbe pensare che tu lo stia tagliando fuori, che questo sia un modo per
prepararti a lasciarlo andare».
Era
davvero così? Shirabu poteva davvero pensare una cosa del genere? Ushijima non
avrebbe mai creduto che fosse possibile arrivare ad una simile conclusione: non
aveva alcun senso, lui non l’avrebbe mai lasciato, era stato chiaro… Lo era
stato? Glielo aveva fatto capire? Tutto era improvvisamente così confuso…
«La
prossima volta che andrai da lui, parlagli, Wakatoshi. Non tenerti nulla
dentro, di’ le cose come stanno, di’ quello che senti. Shirabu non potrà mai
farti una colpa per questo, per essere stato sincero con lui».
«Non
ne sono sicuro… Posso farti una domanda?». Il silenzio dell’uomo invitò
Ushijima a continuare «Tra te e la mamma… che cosa non ha funzionato? C’erano
silenzi anche fra voi?»
Il
padre di Ushijima restò a riflettere un po’ su quali parole usare.
«Quando
una relazione come la nostra finisce non si tratta mai di una singola cosa. È
stato un insieme di piccoli motivi, finché, alla fine, semplicemente io e tua
madre non avevamo più nulla in comune. Sì, i silenzi sono stati un chiaro
sentore che stava finendo tutto...»
«Ma
il legame...?»
«Non
si è spezzato, se è questo che chiedi. Ma è molto fioco, quasi non riesco più a
distinguere i colori ormai. Wakatoshi, ascoltami: quello che è successo tra me
e tua madre non ha alcuna rilevanza. La tua relazione con Kenjirou è qualcosa
di completamente diverso, e non per il tipo di legame, ma perché voi due siete
persone completamente diverse da me e tua madre. L’ultima cosa che voglio è che
tu ti senta in qualche modo condizionato da come è finita fra noi...»
In
realtà Ushijima non aveva mai pensato di poter essere in qualche modo
condizionato dal divorzio dei suoi genitori; non aveva mai messo a paragone la
sua relazione con quello che era successo. Ma voleva capire, voleva individuare
i segnali giusti prima che le cose potessero peggiorare, prima che Shirabu
potesse non avere più nulla in comune con lui. Era solo disorientato, per la
prima volta nella sua vita.
Il
padre restò a parlare con lui ancora per molto tempo, ma Wakatoshi non trovò la
soluzione che cercava nelle sue parole; certo, servirono a confortarlo e gli
fecero bene, ma non sciolsero i suoi dubbi e quando, a sera inoltrata, tornò in
Accademia, ancora si chiedeva in che modo poteva far capire a Shirabu quello
che provava davvero.
***
Kenjirou
aveva aspettato un messaggio di Ushijima per tutta la mattina. Quella notte non
era riuscito ad addormentarsi e si era perso nei suoi pensieri e nel suo
dolore, cercando di non farsi sentire dalla madre che dormiva accanto a lui se
qualche volta un singhiozzo scappava al suo controllo e riempiva la stanza.
S’era chiesto come avessero fatto i suoi genitori a restare insieme per così
tanto tempo: in quel momento, l’amore gli pareva qualcosa di complesso e
instabile. E i suoi genitori non avevano mai avuto un legame, s’erano trovati
ed avevano scelto di stare insieme, senza aver bisogno di sentirsi uniti da
qualcosa che non fosse il loro affetto reciproco.
Lui,
invece, aveva un legame e comunque era riuscito a litigare col suo compagno,
con la persona che forse più amava al mondo. Non era certo di come fosse
successo, non era certo del perché Ushijima si fosse allontanato. O meglio,
sapeva il perché, sapeva che era colpa sua, eppure Wakatoshi non aveva detto
nulla, non gli aveva gridato contro, non se l’era presa con lui.
Mi spiace se non sono forte
abbastanza.
Abbastanza
per cosa? Per stare con lui che era malato? Per reggere il dolore della chemio
che sentiva attraverso il legame? Per reggere il fatto che sarebbe potuto morire?
Shirabu
aveva resistito all’impulso di scrivergli, di chiamarlo per chiedergli a cosa
stesse pensando, a cosa si riferissero le sue parole. Aveva resistito perché
era dannatamente orgoglioso e perché, in fondo, non voleva che parlassero di
cose del genere per messaggio o comunque a telefono. Ma non aveva chiuso occhio
e nella solitudine della stanza buia, per la prima volta, era riuscito a
distinguere bene la propria stanchezza ed il dolore da ciò che stava provando
Ushijima, dal suo dolore che era diverso, sottile e onnipresente. S’era sentito
meschino per non essersene accorto prima.
Per
questo, passata l’ora di pranzo, Kenjirou aveva cominciato ad attendere sempre
con maggiore trepidazione l’arrivo di Wakatoshi. Man mano che i minuti
passavano, era diventato sempre più irrequieto e smanioso e pur confinato nel
suo letto tutto il suo corpo voleva muoversi ed avvicinarsi alla porta, uscire
magari dalla stanza per poterlo scorgere prima, fin da quando sarebbe sbucato
in fondo al corridoio.
«Kenjirou».
La
vocetta melodiosa che intonò il suo nome non era quella di Ushijima. Ushijima
aveva un timbro di voce basso e quasi sempre serio, non strapazzava le parole,
non dava ad esse accenti o pronunce strane. Quello era un vizio che aveva
sempre avuto Tendou e a cui Shirabu ancora faticava ad abituarsi.
«Ehi!»,
lo salutò, scorgendo dietro di lui Reon e un pallidissimo Goshiki - per un
attimo l’alzatore si chiese chi dei due fosse effettivamente il ricoverato.
Tuttavia,
dietro di loro, non c’era nessuno. Ushijima non era venuto.
Kenjirou
cercò di trattenere la delusione e il panico che improvvisamente gli avevano
preso il petto. Cercò di restare calmo, si disse che potevano esserci diverse
spiegazioni per quell’assenza o quel ritardo, che non voleva dire nulla. Che
Ushijima non lo avrebbe lasciato in quel modo, perché sapeva che si sarebbe
quantomeno meritato una spiegazione precisa, un dialogo sincero.
«Dopotutto,
qua dentro non è così male! Insomma, puoi stare a letto fino a tardi, hai un
sacco di persone che corrono se le chiami e finalmente mangi qualcosa di
diverso dai soliti pasti della nostra mensa!», stava dicendo intanto Satori,
guardandosi intorno «E guarda che vista!». Si sporse dalla finestra - la stanza
di Shirabu era al terzo piano, quindi da lì si poteva vedere bene la silhouette
della cittadina.
«Già,
chi sta meglio di me?» Nonostante tutto, la risposta di Kenjirou suonò
sinceramente ironica, perché Tendou aveva la capacità di risvegliare l’allegria
in chiunque - checché ne dicessero i loro avversari o chiunque non lo
conosceva, era un ragazzo estremamente simpatico e solare, qualcuno con cui era
facile avere a che fare e che non riusciva mai a metterti a disagio a meno che
non lo volesse.
«Come
ti senti?», gli chiese Reon, sedendosi accanto a lui, sulla sedia che di solito
occupava sua madre.
Shirabu
sospirò, alzando le spalle senza saper bene come rispondere. Era strano avere
il cancro perché non faceva male in modo diretto. Il trattamento di chemio
faceva male, gli effetti collaterali facevano male, ma quella massa di cellule
impazzite che aveva nel polmone non portava un dolore tutto suo, qualcosa
contro cui accanirsi e Shirabu non sapeva come reagire.
«Sono
un po’ stanco, ma sto meglio dei giorni scorsi».
«Ushijima
ci ha chiesto di aspettare un po’ prima di venirti a trovare proprio per questo
- fosse stato per noi, saremmo venuti al tuo primo giorno di ciclo».
Anche
parlare con Reon era facile, dopotutto. Aveva un riguardo ed una dolcezza nel
modo in cui si interessava degli altri che non era mai ingombrante o fuori
posto, che riscaldava.
«Meglio
così», annuì l’alzatore - non avrebbe voluto farsi vedere in quello stato da
loro, sarebbe stato patetico. «Il primino che ha?» Si rivolse a Goshiki come se
non fosse presente, era il suo modo di stuzzicarlo.
Ma
Goshiki sussultò come se gli avessero dato una scossa e alzò la testa a fissare
Shirabu che aveva praticamente di fronte - per la prima volta si prese il tempo
necessario a guardarlo per bene: riconobbe i capelli un po’ più spettinati del
solito, il viso leggermente più pallido ma poco sciupato, il corpo che,
nascosto dalle lenzuola appariva più piccolo perché meno visibile ed immerso in
tanto bianco. A Goshiki parve che il compagno di squadra potesse scomparire da
un momento all’altro e ne fu terrorizzato.
«I-io...»,
balbettò «Io- Shirabu...».
Poi
non poté trattenersi oltre, ma con uno slancio che fece traballare la sedia su
cui era seduto si lanciò verso Shirabu, stringendolo in un abbraccio che fece
sussultare l’altro per la sorpresa. Goshiki piangeva con la testa nascosta
contro la spalla del più grande e Kenjirou sarebbe stato davvero seccato da
quella reazione se prima non gli si fosse stretto il petto per l’emozione.
Perché
stretto così a lui, aggrappato quasi al suo corpo, Goshiki gli stava sussurrando
di non lasciarlo, di non morire. Ed era una preghiera sottile e straziante,
nulla a che vedere col modo in cui, il giorno prima, gli aveva gridato addosso
Semi. Contro quell’affetto anche Kenjirou non poté fare nulla. Rispose
all’abbraccio come meglio poteva, avvolgendo le sue spalle larghe con le
proprie braccia e realizzando quanto fosse grosso il primino solo mentre in
quel modo misurava il suo corpo.
«Hai
intenzione di piangere finché non starò bene?», gli chiese - ma non c’era
cattiveria in quelle parole e la risata trattenuta che ne colorava
l’intonazione era sincera.
Sentì
l’altro scuotere le testa contro il suo petto in segno di diniego e gli
accarezzò i capelli. Stava cominciando a realizzare, Shirabu, che il cancro non
era qualcosa che accadeva solo a lui - o solo a Ushijima: quella malattia era
qualcosa che accadeva a tutti i suoi amici, a tutta la sua squadra ed ognuno,
in un modo o nell’altro, stava facendo il proprio meglio per reggere quella
situazione.
«Mi
dispiace...» sussurrò Goshiki, quando finalmente fu pronto a lasciarlo andare
«È solo che ho paura».
In
qualche modo Shirabu invidiava la facilità con cui Tsutomu si esponeva parlando
dei propri sentimenti, la libertà che sentiva di avere nel poter dire che era
spaventato, che non era forte abbastanza da reggere quella situazione senza
piangere. Per Shirabu le reazioni emotive di quel genere erano sempre stato un
segno di debolezza, qualcosa che a lui non era concesso, che non poteva
permettersi - aveva dovuto essere forte per entrare alla Shiratorizawa, aveva
dovuto essere forte per entrare nella squadra di pallavolo, per guadagnarsi poi
un posto tra i titolari, per poter alzare al meglio a Ushijima. Non aveva mai
avuto tempo per piangere, lui.
«Non
fa nulla, Goshiki», gli sorrise - per la prima volta si sentì almeno un po’ in
pace con se stesso. «Mi fa piacere che siate venuti a trovarmi, la squadra mi
manca molto».