I
primi raggi di sole stavano facendo la loro comparsa. Con l'autunno che
incombeva le giornate stavano cominciando ad essere brevi, ed il sole
ad alzarsi tardi.
Me
ne stavo seduto al solito tavolo del solito bar. La tazza di caffè
fumante dinanzi a me ed il giornale sulla sinistra di esso. Cominciai a
girare distrattamente il cucchiaino nella tazzina, mentre il mio
sguardo vagava distratto nel locale. Le scuole avevano da poco riaperto
i battenti e, diversamente dai mesi estivi, a quell'ora si potevano
vedere gli studenti, quelli più mattinieri, fare colazione. Sembravano
tutti uguali, tutti con lo sguardo di condannati a morte al patibolo.
Ogni tanto mi soffermavo ad ascoltare alcune conversazioni. C'erano
ragazzi che discutevano di tesi, di interrogazioni e, ovviamente,
coppiette innamorate che si scambiavano paroline dolci. Debbo ammettere
che effettivamente un po' di gelosia la provavo, sebbene fossi oramai
abituato alla vita da solo, mi mancava anche solamente poter
abbracciare qualcuno la sera dopo una giornata di lavoro, poter cenare
in compagnia ed avere qualcuno su cui poter contare al cento per cento
nei momenti di difficoltà. La mia solitudine mi aveva portato a non
essere più felice, a non uscire più con gli amici, o meglio, a non
avere più degli amici. Nella mia testa esistevano solo colleghi e
conoscenti del bar, nulla di più. Non ero più capace di legarmi a
qualcuno, nemmeno sentimentalmente. Era come se la fiamma che ardeva
dentro di me, si fosse affievolita e mano a mano diventata carbone
ardente, fino ad essere un ammasso di cenere grigia.
Posai
il cucchiaino sul piattino, sollevai la tazzina e bevvi tutto d'un
sorso il caffè, oramai tiepido. Una leggera smorfia di disgusto si
formò sul mio volto. Amaro. La mia sbadataggine me l'aveva giocata di
nuovo. Avevo dimenticato di mettere lo zucchero. Insomma, quella
giornata non era cominciata di certo nel migliore dei modi.
Mi
alzai e con un gesto della mano afferrai la giacca che precedentemente
avevo sistemato sullo schienale della sedia. Mi avvicinai alla cassa,
«Tranquillo Salvo, oggi offre la casa.», la barista se ne stava con i
gomiti appoggiati al bancone e con un sorrisone a trentadue denti
rivolto verso di me. Si vociferava tra i ragazzi che frequentavano
assiduamente quel locale, che i suoi sentimenti per me non si fossero
placati, anche dopo averla lasciata, io d'altro canto non mi ero mai
mostrato interessato nei suoi confronti, anche se sapere che stava
ancora male mi lasciava con l'amaro in bocca. La ragazza non era male,
anzi, i suoi capelli biondi, legati sempre in uno chignon spettinato e
il viso leggermente truccato, in passato avevamo avuto una relazione,
sembrava filare tutto liscio come l'olio, pensavamo addirittura ad
andare a convivere e ad avere figli. Ma dopo tutto quello che successe
mi feci sopraffare dalla depressione, allontanando tutti i miei cari.
Non volevo darle una delusione, non volevo farla soffrire di nuovo,
quindi ogni qualvolta mi chiedeva di uscire o semplicemente decideva di
offrirmi la colazione, ero sempre pronto a rifiutare. «No, tieni.»
posai le monete sul bancone, il mio tono era freddo e distaccato, notai
una nota di tristezza nel suo sguardo quando il suo sguardo si posò sui
soldi. Tirai un forte sospiro. «Non offrirmi la colazione. Più tardi
magari mi offri il pranzo, no?» questa volta il mio sguardo era puntato
dritto sul suo viso, ed un sorriso divertito si formò sul mio volto.
Alla mia affermazione la ragazza accennò una risata divertita
«Contaci!» esclamò mentre si apprestava a posare due brioches in un
piattino. Sorrisi abbassando lo sguardo, poi mi avviai verso l'uscita
del bar.
Un
leggero vento gelido mi scompigliò i capelli, dovetti indossare la
giacca per non rimanere congelato. Buttai una rapida occhiata
sull'orologio al polso. Le 7.00. Avevo ancora un'ora libera, ed essendo
abbastanza vicino all'ufficio decisi così di fare una passeggiata.
Camminavo lento lungo le strade del centro città. Sebbene ci fossi nato
e cresciuto, Napoli mi stupiva ogni giorno di più. Già dalle prime ore
del mattino i negozi aprivano le serrande, le strade già affollate da
studenti che si affrettavano per non perdere la navetta che li avrebbe
portati in università, altri che si lanciavano letteralmente
sull'autobus per non arrivare in ritardo a scuola, da chi si accinge ad
andare a lavoro ed anche da turisti, di tutte le etnie, che scattavano
foto a qualsiasi cosa gli fosse capitato sott'occhio che li colpiva. Le
prime bancarelle stavano comparendo lungo le strade. Mi fermai su una
panchina, l'unica che trovai libera. Mi accesi una sigaretta ed aspirai
a pieni polmoni la prima boccata di fumo. Mi rilassai, consapevole che
quella sarebbe stata la prima ed ultima sigaretta prima della pausa
pranzo, e di tempo ne mancava, quindi come tutte le mattine tendevo a
prendermela comoda e a gustarmela.
Spensi
la cicca di sigaretta sui bordi della panchina e, noncurante, la
lanciai in terra. Una dura, stancante e noiosa giornata di lavoro stava
per cominciare.
Non
appena misi piede in ufficio notai l'aria pesante che si respirava,
come tutti i giorni se non altro.
Le
pareti di un bianco ingiallito, risaltato dalle luci dei neon ancora
accesi, erano mesi che dovevano essere ridipinte e, proprio accanto
alla porta d'entrata vi era il mio ufficio, dietro il vetro. Il mio
collega, non appena mi vide entrare, si apprestò a racimolare i fogli
sulla scrivania e a metterli in ordine su di un lato, chiuse la partita
di solitario che non aveva ancora completato. Bè, il turno di notte
alla fine ha i suoi vantaggi. Lo salutai con un gesto della mano e mi
accomodai sulla poltrona girevole in pelle. Salutai il collega
all'altra scrivania che, con un gesto veloce della mano ricambiò il mio
saluto tornando ai suoi affari.
Sebbene
in passato avessi occupato una posizione abbastanza importante in
caserma, avevo rinunciato al lavoro sul campo da tempo, non riuscendo a
sopportare la pressione e dopo la mia lieve depressione, preferivo
starmene per gli affari miei in ufficio a compilare denunce, o al
massimo sbrigare le faccende burocratiche per i permessi di
soggiorno.
La
mattinata scorreva tranquilla, nessuna chiamata, nessun rinnovo
permessi o cose simili. Le due ore successive le passai a fissare il
computer cercando di risolvere una partita a solitario, non ero molto
bravo a giocare a carte. Tutte le chiamate che arrivarono quella
mattina, le prese solo il mio collega, quasi pensai che fosse stato
meglio che a quel punto fossi rimasto a casa.
«Pronto?
Oh, cazzo, si, avviso subito il comandante.» sentii dire dal mio
collega, il suo tono di voce parve preoccupato. Si apprestò ad andare
nell'ufficio del superiore, facendo slalom tra le scrivanie. Fortuna
volle che il comandante stesse proprio venendo da noi, a controllare il
nostro operato. «Comandante, ho ricevuto una segnalazione dai colleghi
della territoriale.» fece una pausa, aspettando l'ok per continuare. Il
comandante fece un gesto del capo «Stanotte, verso le due del mattino
hanno trovato il cadavere senza vita di una ragazza in evidente stato
di decomposizione. Secondo i risultati del test del DNA...» si bloccò,
lo vidi con la coda dell'occhio girare lo sguardo verso di me, poi con
tono basso continuò il suo discorso «Sembra che appartenga ad una delle
ragazze scomparse tre anni fa.». A quelle parole mi si gelò
il sangue nelle vene, voltai di scatto lo sguardo verso di loro. «A chi
appartiene il cadavere?» chiesi, alzandomi di scatto. Le mani strette
in due pugni ed i miei occhi puntati su di loro. «Francesca De rosa,
una delle ultime ragazze che sparirono in quel periodo, ne abbiamo la
certezza grazie ai genitori che lasciarono di loro spontanea volontà un
loro campione di DNA e grazie a quello sono riusciti a risalire a lei.
Per il momento sappiamo solo questo, stiamo aspettando il rapporto.».
Mi
morsi un labbro, abbassai lo sguardo e mi feci cadere di peso sulla
poltrona. «Esposito, la prego di venire nel mio ufficio.» disse il
comandante che fino a quel momento era stato in silenzio. Immaginavo
cosa avesse da chiedermi. Mi alzai e, tenendo lo sguardo basso, fisso
sul pavimento, lo seguii.
Chiusi
la porta alle mie spalle e rimasi in piedi dinanzi alla scrivania. A
quel punto il superiore aprì le finestre e con un gesto della mano mi
invitò a sedermi. Ubbidii. Posò davanti a me un pacchetto di sigarette
«Prenda pure.». Aspettai che lui per primo accendesse la sigaretta, poi
lo seguii. «Per questo caso, Esposito, voglio che lei collabori, sa più
di noi sulla faccenda, e, anche se è abbastanza coinvolto, lei è il
solo che può aiutarci.». Ascoltai con distrazione le sue parole. Alzai
lo sguardo. Il suo volto era puntato verso di me in attesa di un
risposta. Tirai giù un boccone e strizzai gli occhi cercando di
trattenere le emozioni. «E va bene.» dissi infine, posando il mio
sguardo sulla finestra. Sebbene me lo avesse chiesto, sapevo che fosse
un ordine e da buon agente mi toccava rispettare gli ordini del mio
comandante.
Mi
congedai non appena finita la sigaretta. Mi catapultai negli
spogliatoi, l'unico posto dove non potevo essere disturbato. Mi sedetti
portandomi le mani sul viso, cercando di fermare le lacrime che mano a
mano scendevano e rigavano veloci il mio viso.
Non
poteva essere. Non dopo tutto questo tempo.
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Hola!
Eccomi ritornata dopo tipo due anni con una nuova storia. Ci terrei
tanto a sapere cosa ne pensate di questo primo capitolo! La
pubblicazione dei capitoli successivi non ha un tempo preciso, mi
impegnerò al massimo per pubblicarne almeno uno a settimana.
Se
volete seguirmi sono su twitter: animelegate
e
su instagram: adaponticelli
Vi
mando un forte bacione e al prossimo capitolo! ♥
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