Carlotta de Corday d’Armont.

di _Agrifoglio_
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Carlotta de Corday d’Armont
 
Mi ritrovai ritta, dinanzi ad un lago vermiglio,
lorda del sangue traditore che avevo versato,
gli occhi sbarrati e la testa colpita dai fendenti
dei mille pensieri che danzavano una macabra ridda.
Immagine cruenta e pagana di una furia ultrice,
io, nobile normanna, dai pochi denari e dai molti ideali,
stirpe rivoluzionaria di una schiatta ultrarealista,
erede del lirismo tragico del mio trisavolo,
scrutavo il corpo senza vita del sicario dei Girondini,
ulcerato dalle piaghe che l’avevano tormentato,
testimonianza, impressa nella carne, di un’anima putrida.
Più non gli sarebbe servita quella strana vasca
che il mio gesto aveva tinto di umor purpureo.
Nessun nuovo sollievo da piaghe, pruriti ed eczemi.
All’inferno avrebbe reso conto del suo tradimento.
Fate di me quel che volete, il mio dovere l’ho fatto”,
pensai, con aria assente, quando mi trascinarono via.
Mi fece tenerezza la premurosa sollecitudine del boia
e la paterna compassione per i miei venticinque anni,
quando, fino all’ultimo, tentò, per troppa misericordia, 
di occultarmi, con la sua mole, la ghigliottina.
Avrei dovuto vederla, prima o poi, mai ne avevo vista una
ed ero, pur sempre, una spietata assassina. 




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