World Two: The One With The Family Reunion World Four: The One Where Our Songs Plays
“it´s my [insert family relation
here]´s wedding and seeing all these happy couples is killing me and
all I can
think about is how this was almost us” AU
(Bonus: “I know that it’s two in the
morning and I’m dressed really formally and a little (a lot) bit drunk
but I
couldn’t stop thinking about you after my grandma asked how you were
doing also
can I come in it’s freezing out here”)
Afferrò
un altro calice di champagne dal
vassoio del cameriere che le passò veloce accanto, impegnatissimo per
quella festa
così sontuosa ed importante per il loro hotel.
Dopotutto,
qualsiasi componente della
famiglia Aizawa ci teneva a mostrare la propria opulenza, e sua cugina
Tomoyo
non era stata da meno.
Minto
vagò per la sala da ballo piena di
parenti che non vedeva da una vita, di amici dell’università degli
sposi che
aveva incrociato qualche volta alle uscite congiunte, persone di spicco
della
città che riconosceva solo grazie ai loro altisonanti e notabili nomi.
La
sala si apriva con una bellissima
parete di vetro sul panorama della città illuminata dal tramonto, e lei
sperò
che i piccioncini si spicciassero a finire le foto e tornare qui per
incominciare la cena, perché il suo stomaco brontolava da tre ore e non
era il
caso di continuare a berci sopra a vuoto.
Le
erano sempre piaciuti i matrimoni, le
feste, le occasioni mondane eleganti e felici. Non che dovesse trovare
un
motivo per indossare i vestiti migliori – o trovarne di nuovi – ma
aveva sempre
avuto un punto debole per certe celebrazioni. Almeno, erano
un’occasione per
rivedere le parti della famiglia che preferiva.
Questa
volta, però, era tutto un po’
diverso.
Fino
a sei mesi prima, aveva avuto bene
in mente chi l’avrebbe accompagnata al matrimonio della stagione. Più o
meno. I
problemi c’erano stati, ovviamente, anche se a volte aveva fatto finta
di
ignorarli, ma non aveva mai pensato che sarebbe… andata com’era andata.
Che si
sarebbe ritrovata da sola al matrimonio di sua cugina, circondata da un
numero
di coppie che le sembrava quasi ironico.
Forse
non ci aveva mai fatto tanto caso,
perché per cinque anni non le era mai sembrato altro che la normalità,
l’avere
qualcuno al proprio fianco che sembrava non poter interrompere il
contatto
fisico, lo scambiarsi sguardi vomitevolmente zuccherosi e il
sussurrarsi parole
all’orecchio che scatenavano risate e la curiosità altrui.
Prese
un altro sorso dal calice mentre
virava più a sinistra nella sala, verso il tavolo su cui erano indicati
i posti
assegnati ad ogni ospite. Ripensò alla luce carica di emozione di
Tomoyo mentre
attraversava il corridoio della sala delle cerimonie nel suo
costosissimo
vestito e con quell’enorme diamante al dito, al sorriso estasiato che
aveva
fatto al sì dell’uomo di fronte a
sé.
Ripensò alla stretta al cuore che aveva sentito nel guardarli
scambiarsi gli
anelli come due bambini emozionati, dalla terza fila di panche adornate
di
fiocchi e fiori, mentre senza pensarci si passava il pollice contro il
dito
medio, dove fino a sei mesi prima aveva riposato quell’anello delle
promesse
che lui le aveva regalato quattro anni prima.
E
pensare che quando avevano ricevuto
l’invito per il matrimonio, un anno e mezzo prima, avevano addirittura
commentato insieme su cosa loro due
avrebbero e non avrebbero fatto. Ricordava ancora la sensazione di
euforia che
l’aveva colta, tante piccole bollicine che le erano scoppiate in gola,
mentre
seduta accanto a lui rideva e si lasciava abbracciare, prima che tutto
andasse
in frantumi.
Si
schiarì la gola e sorrise ad
un’invitata che le si era avvicinata per poter consultare la lista dei
posti,
uno dei direttori di sala che cortesemente indicava agli invitati di
poter
prendere posto ai tavoli. Scorse i nomi con un dito dall’elegante
manicure,
sorridendo quando si vide al tavolo tre insieme ai suoi nonni e agli
zii
materni, che non vedeva da Natale. Almeno le avrebbe fatto bene stare
un po’ in
famiglia e distrarsi, nonostante l’ambiente. Anche se tremava al solo
pensiero
di certi discorsi.
L’abbraccio
di sua nonna, avvolta nel
suo vestito migliore e il confortante profumo di sempre, le riscaldò le
guance,
poi la vecchietta la prese per un braccio mentre entrambe si sedevano
al
proprio tavolo, poco distante da quello degli sposi.
«Hai
visto che disastro il vestito della
contessa?» bisbigliò la nonna
«Sessant’anni e ancora non ha imparato nulla!»
Minto
rise sotto i baffi, approfittando
subito di uno dei bicchieri di aperitivo fruttato disponibili sul
tavolo:
«Nonnina, potresti limitare il gossip a dopo
il primo, almeno?»
«Oh,
sciocchezze, tesoro mio! Non vedi
quanta materia prima abbiamo di cui discutere? E più andremo avanti più
tuo
nonno si lamenterà perché vorrà alzarsi da tavola, quindi diamoci
dentro finché
siamo libere!»
Lei
rise di nuovo e si lasciò cullare
dai vecchi discorsi, salutando i parenti e dispensando eleganti sorrisi
ad ogni
nuova persona che le veniva presentata.
Quando
ormai il sole era quasi del tutto
sparito oltre l’orizzonte, e i piccoli assaggini pre-antipasto non
avevano
fatto altro che aumentare la fame dei commensali, finalmente la coppia
di
neosposi fece il suo trionfale ingresso nella sala da ballo, in un
tripudio di
applausi e fischi.
Minto
li seguì con lo sguardo, contenta
per loro nonostante quel groppo in gola che sembrava non riuscire mai a
scacciare nonostante i svariati sorsi che prendeva, e gioì internamente
nel
vedere i primi, veri antipasti uscire dalla cucina insieme a camerieri
così
inamidati da sfidare le leggi della fisica per servire i piatti.
Il
ronzio dei festeggiamenti, del
chiacchiericcio, la soffusa musica di violini che riempiva la stanza la
cullarono in uno stato di tiepida calma, un po’ come se non ci fosse
lei
davvero nel proprio corpo. Ancora poche ore (sperava, si erano fatte
quasi le
dieci e mezza e ancora aspettavano il secondo) e sarebbe potuta tornare
a casa,
togliersi quelle raffinate ma malefiche scarpe e collassare nel suo
letto
troppo grande per una persona sola, rannicchiata tra le coperte fino
alla
mattina avanzata del giorno dopo.
Lontana
da tutte quelle coppie felici
che le ricordavano solo dove lei avesse fallito.
Una
gentile pressione sul polso la fece
voltare verso una vecchia amica di sua cugina con cui aveva passato
qualche
estate da ragazzina: «Minto-chan, sai che sono venuta a vederti il mese
scorso
all’ultima data dello spettacolo?!»
Lei
sorrise contenta: «Onoka-chan, ma
che dici! Perché non sei venuta a salutarmi?»
«Avrei
voluto ma c’era una mandria di
persone e non sono riuscita a passare in camerino, purtroppo. Però
direi che
vista la folla, sta andando tutto bene, no?»
Minto
annuì soddisfatta, lanciandosi in
chiacchiere su un argomento che non falliva mai di renderla più allegra
– anche
se la minacciosa pietra all’anulare di Onoka continuava ad abbagliarla.
Passarono
i secondi, intervallati da
freschi sorbetti per ripulire il palato e le papille, accompagnati da
sontuosi
contorni e da vini sempre più importanti. Avrebbe dovuto stare a
digiuno per un
mese per poter tornare in forma a settembre, si disse tra sé e sé,
occhieggiando i dolcetti che avrebbero preceduto la torta nuziale.
Continuò
a conversare allegramente,
porgendo la sua attenzione a diverse persone che a quanto pare avevano
sentito
parlare della sua carriera da prima ballerina ancora così in apice,
scambiandosi brindisi ad ogni discorso di testimoni, damigelle e
genitori,
ridendo alle battute confuse e lanciando occhiatine ai due sposi, che
sembravano brillare di luce propria. Doveva almeno ammettere,
trangugiando un
sorso di rosé, che era davvero contenta per loro, perché era da tanto
che non
le capitava di vedere due così innamorati.
Anche
se lei avrebbe ucciso se il suo
idealistico marito le avesse spiaccicato la torta in faccia – e sul
vestito –
come il neosposo di Tomoyo aveva fatto con lei.
Cominciava
a sentire l’ottundimento da
alcol, mischiata alla stanchezza di quella giornata, mentre cedeva alla
golosità e prendeva anche una seconda fetta di quella deliziosa fetta (crema chantilly e gocce di cioccolato,
proprio una delle loro scelte), ricordando a se stessa che
era tanto che
non sgarrava e la sua dieta si era ridotta, ultimamente.
Quando
si aprirono le danze, lei si rese
conto di essere troppo appesantita per poter lasciare la sedia, anche
se il suo
tavolo si svuotò abbastanza velocemente. Per non parlare del fatto che
erano
tutti partiti con i lenti.
Si
rilassò contro la sedia, contenta che
il vestito di chiffon le permettesse ampia libertà, e rivolse un
sorriso alla
nonna che era rimasta lì con lei.
La
signora ricambiò, poi si schiarì la
voce e le posò una mano sulla sua: «Posso farti una domanda, tesoro
mio?»
Minto
avrebbe tanto voluto rispondere di
no: «Dimmi pure, nonna.»
«Dove
l’hai messo quel tuo bel
giovanotto?»
Lei
sentì il cuore ghiacciarsi e si
sforzò di non far tremolare la voce: «Le… cose non hanno funzionato
esattamente
secondo i piani, nonnina.»
La
vecchietta la guardò con gli stessi
occhi che aveva lei, carichi di comprensione, prima di darle un
buffetto sulla
mano e alzarsi: «Non esagerare con quelli,» accennò ai bicchieri di
vino.
La
mora annuì e rimase sola al tavolo,
espirò lentamente ed ignorò il consiglio. Era riuscita così bene a
costruirsi
un muretto di grossi mattoni attorno a quel pensiero, ed era bastato il
vento
di quella giornata a tirare giù tutto. Si permise per un attimo di
annegare nei
ricordi felici, il groppo alla gola che continuava a crescere.
Tutt’ora,
le mancava come se fosse aria.
Andava in giro da mesi con un blocco di ghiaccio perenne nello stomaco,
che si
era attutito col tempo, ma tutta quella situazione la stava facendo
sentire
come nei primi giorni da quando avevano deciso di separarsi. Credeva di
stare
meglio, credeva che sarebbe riuscita a tenere la situazione sotto
controllo, ma
non riusciva a toglierselo dalla testa.
Tamburellò
con le dita sul tavolo per
tenerle occupate e impedire loro di afferrare il telefono che aveva
nella
borsetta e scorrere velocemente tutte le foto che non aveva avuto il
coraggio
di eliminare in tutto quel tempo. O fare di peggio.
Si
alzò e si rifugiò in bagno, lontano
dalle risate di tutte quelle coppie felici, sciacquandosi i polsi con
un po’ di
acqua fredda e osservando il proprio riflesso nello specchio, l’ombra
di
preoccupazione sotto gli occhi arrossati. Si intimò di calmarsi e di
riprendere
il contegno, che lui non valeva
certo
il rovinarsi i festeggiamenti per una delle sue amiche più care. Si
sistemò il
trucco con un pezzettino di carta igienica e tornò fuori, agguantò un
bicchiere
di champagne dal tavolo su cui erano riposti e si diresse verso l’open
bar,
dove qualche faccia conosciuta si era radunata.
Voleva
divertirsi, voleva non pensare,
eppure stava fallendo miseramente. Non riusciva a non percepire un
vuoto di fianco
a lei, tra le sue dita, il nome di lui che le pendeva dalla punta della
lingua
come se a pronunciarlo si sarebbe spezzato un incantesimo.
Afferrò
uno shot che venne passato dal barista
e lo buttò giù insieme alle amiche con cui stava ridendo, pretendendo
che il
bruciore negli occhi fosse dato dall’alcol e non dal cuore che non
voleva
saperne di ricucirsi.
Lei,
lei che era sempre stata quella
forte del loro vecchio gruppo di amici, ora si ritrovava quasi a
piangere, dopo
sei mesi, per un deficiente come
lui.
Come
Kisshu.
Kisshu.
Scese
dallo sgabello con gambe tremanti,
dirigendosi verso il suo tavolo. Non si era accorta di quanti bicchieri
avesse
bevuto, ma a giudicare dal suo stato attuale e dall’incertezza delle
sue gambe,
dovevano essere stati parecchi.
Sapeva
che avrebbe dovuto salutare
parecchia gente, ma sapeva anche che nessuno si sarebbe offeso se fosse
semplicemente sparita. La festa, nonostante l’ora tarda, era nel pieno
svolgimento, e non avrebbero sicuramente fatto caso al momento in cui
se ne
sarebbe andata.
Uscì
dall’hotel e fu investita da
un’improvvisa aria fredda, troppo fredda per la sera di giugno. Lei
aveva solo
il vestito lungo addosso, persuasa dal sole che aveva brillato per
tutta la
giornata. Si strinse le braccia intorno al corpo, ringraziando per una
volta di
aver bevuto così tanto da avvertire meno il gelo, e che ci fosse sempre
una
coda di taxi in attesa davanti all’hotel.
Si
infilò dentro il primo disponibile e
gli recitò, la bocca impastata, un indirizzo che conosceva a memoria.
Era stata
la loro casa per un anno,
dopotutto,
anche se era sempre appartenuta a lui.
Realizzò,
in quel momento, che era molto
probabile che lui non fosse a casa – era sabato sera, dopotutto – e
anche se ci
fosse stato, probabilmente stava dormendo. Erano quasi le due di notte,
e non
era assolutamente al corrente del suo… piano?
Le
venne da ridere. Quella che stava
facendo probabilmente era un’enorme idiozia, e lei non avrebbe mai, mai
dovuto
agire di pancia. Eppure non stava fermando il taxi, non gli stava
dicendo di
riportarla indietro al sicuro tra le pareti di casa.
L’inesistente
traffico della notte rese
il tragitto molto più veloce di quanto si ricordasse, o di quanto fosse
pronta.
Ringraziò a bassa voce il conducente, che probabilmente aveva notato il
suo
stato di intossicazione e voleva liberarsi di lei il più velocemente
possibile,
visto come sfrecciò via non appena lei fu scesa.
Minto
rimase qualche istante a fissare
la porta blu dall’altra parte della strada, i quattro gradini che
conducevano
ad essa, le finestre con le tende abbassate. Era tutto buio, dentro.
Rabbrividì
di nuovo e prese il
cellulare, sbloccando lo schermo con lentezza infinita. Era arrivata
fino a lì,
che cosa avrebbe dovuto fare ora?
Fece
un respiro profondo e digitò il
numero che sapeva a memoria, mordendosi il labbro mentre si appoggiava
il
telefono all’orecchio. Il rimbombo dello squillo era quasi inquietante
nel
silenzio della notte.
Una
parte di lei avrebbe voluto che non
rispondesse; se ne sarebbe andata, adducendo la telefonata notturna ad
uno
sbaglio, ad una scivolata delle dita mentre ballava alla festa, ad un
niente.
Una parte di lei tremava di paura al pensiero di risentire la sua voce
e
immaginare l’effetto che avrebbe avuto su di lei.
«…
Pronto?»
Le
si mozzò il respiro in gola a sentire
la sua voce, roca e assonnata, dall’altra parte del ricevitore.
«Pronto?»
insistette
lui, non ricevendo alcuna risposta, ma Minto era bloccata, incerta, la
bocca rifiutava
di rispondere ai comandi del cervello.
«Mi
fai gli scherzi telefonici alle due di notte, passerotto?»
Sentì
gli occhi riempirsi
inevitabilmente di lacrime mentre i polmoni strillavano per ricevere
aria.
«Sono…
ehm, sono sotto casa tua.»
Sentì
la staticità all’altro capo della
linea: «Non sono in vena di scherzi a
quest’ora.»
«Ho
freddo.»
«Ma
che cazzo…» lo
sentì scendere frettolosamente dal letto, lo immaginò buttare le
coperte
all’aria e scendere le scale a piedi scalzi attraversare il salotto e
l’ingresso, poi aprire la porta di scatto. Stagliarsi controluce
davanti a lei,
in tuta da ginnastica.
Kisshu
abbassò il cellulare, il bip della
telefonata conclusa che arrivò
fino a lei nel silenzio della notte. Lo osservò squadrarla da capo a
piedi dall’alto
dei gradini, esaminare il lungo vestito di chiffon rosa cipria che
indossava, i
capelli raccolti in maniera elegante.
«Il
matrimonio di Tomoyo?»
Minto
annuì, torturandosi le mani, e
Kisshu piegò la testa da un lato.
«Che
diamine ci fai qui?»
La
ragazza boccheggiò: «Io… io ero al
matrimonio, e…»
«Sei
ubriaca come una ciliegia sotto
spirito.»
Si
sentì arrossire: «Questo non
c’entra.»
«Sei
completamente fuori.»
«Senti,
lo so che sono le due di notte e
che sono ubriaca e sembro una pazza vestita così in giro,» lei non
riuscì a
trattenersi dal sbottare, allargandosi la gonna del vestito come una
bambina
capricciosa, «Ma sono ubriaca ed ero al matrimonio, e saremmo dovuti
andarci
insieme al matrimonio, e mi hanno chiesto di te e io non ho fatto altro
che pensarci,
e quindi sono venuta qui e adesso sto congelando quindi almeno abbi la
decenza
di farmi entrare. Per favore.»
Kisshu
appariva a metà tra il divertito
e il confuso. «È solo che c’è -» gesticolò verso l’interno di casa, e
Minto
sollevò le sopracciglia, comprendendo.
«Oh,
okay, sei con qualcuno, allora non
ti disturbo più.»
«No,
no,» Kisshu si affrettò a scendere
di un gradino, una mano tesa verso di lei «È Pai. Ma non sapevo se tu…»
«Oh,»
Minto pensò brevemente all’austero
fratello maggiore, con cui non era mai riuscita a connettersi
nonostante gli
svariati anni di conoscenza, ma poi un altro soffio di vento le fece
aumentare
la pelle d’oca «Be’ ho freddo.»
Il
ragazzo rise divertito, e si fece da
parte sulla porta, facendole un cenno con la testa verso l’interno: «Ho
capito,
hai freddo. Entra, su.»
Lei
rimase un secondo in più a fissarlo
in controluce, poi sgattaiolò velocemente tra le pareti, rabbrividendo
per il
calore che l’avvolse, e rimase ferma nell’ingresso, ad una solida
distanza di sicurezza
da lui, che continuò a fissarla con aria divertita.
«Su,
forza, credo che tu sappia dov’è il
divano. Vado a farti un caffè così ti riprendi.»
«Sto
benissimo.»
«E
come no.»
Kisshu
si avviò a sinistra verso la
cucina, controllando con la coda dell’occhio la mora che barcollò
incerta fino
al divano color crema e vi si lasciava cadere sopra, agguantando la
coperta di
lana spessa che riposava su un bracciolo e avvolgendovisi.
Non
aveva calcolato che avrebbe avuto lo
stesso familiare odore che aveva seppellito nei meandri della mente a
forza. Se
la strinse di più attorno al corpo e ci affondò il naso, la stanza che
girava
appena nei suoi occhi, e si costrinse a rimanere seduta e composta onde
a
evitare di peggiorare la situazione.
«Lo
sai che stai canticchiando?»
Kisshu
le comparve di fronte – o meglio,
una tazza bianca fumante di caffè le comparve nel ristretto campo
visivo,
l’effetto dell’alcol si stava accumulando tutto in quel momento –
irriverente,
e lei strinse tra le mani infreddolite quell’invitante calore.
«Succede,»
replicò lei impassibile
prendendo un sorso.
Lui
rise ancora: «Deve essere stato un
gran bel matrimonio.»
«Eh,
le rose bianche sono
sopravvalutate.»
Il
ragazzo ridacchiò e si sedette sul
tappeto di fronte a lei, poggiò la propria tazza per terra e si
avvicinò
lentamente: «Ora non calciarmi, ma credo che staresti meglio senza
questi
trampoli.»
Minto
sussultò appena quando le sue dita
si chiusero attorno alla sua caviglia, slacciandole veloci il laccetto
dei
sandali e liberando il piede da quella gabbia. Si affrettò poi a
rannicchiarsi
ancora di più sotto la coperta, lui che rimase seduto dov’era.
«Va
un po’ meglio?»
«No.
Ma il caffè è buono.»
«Grazie.»
Cadde
il silenzio nella stanza,
interrotto solo dal loro vago sorseggiare. Minto si rese conto, un
momento di
lucidità nella nebbia che le stava invadendo il cervello, che
nonostante tutto
non c’era l’imbarazzo che si era aspettata, in quel silenzio… o forse
era
davvero solo l’alcol.
«Per
riscaldarti avrei dell’ottimo
cognac, ma non credo sarebbe il caso visto come sei ridotta,» ridacchiò
lui.
«Se
non uccide, fortifica,» commentò
lei.
«Vero?»
«Vogliamo
provare?»
«Non
ci pensare nemmeno, sto già temendo
per la salute del mio divano.»
«Sono
abbastanza capace di prendermi
cura di me stessa e non rovinare le cose, sai.»
«Oh
sì, mi ricordo ancora quanto hai
pianto per quella sciarpa che hai rovinato.»
«Non
era una sciarpa, era un foulard di Hermes.»
«Come
vuoi tu.»
Minto
prese un altro sorso: «Mi stupisce
che questa casa abbia una parvenza di umanità e ordine.»
«Sai,
a viverci da soli si fa la metà
del casino.»
«Mmmhm,»
lei fece un impercettibile
movimento del sopracciglio, poi lo guardò corrucciata, «Io
non ho mai fatto casino!»
«No,
no,» ridacchiò divertito lui.
«Idiota.»
Ripiombò
il silenzio, il caffè che
andava spaventosamente diminuendo, fornendo sempre meno riparo a Minto.
Udì il
ragazzo sbuffare, e da sopra l’orlo della tazza lo vide passarsi una
mano tra i
capelli, scompigliandoli di più di quanto non avesse già fatto il
cuscino.
Sapeva che momento stava per arrivare.
«Senti,
belle le chiacchiere eh, ma ora
mi potresti spiegare cosa diamine ci fai qua a quest’ora?»
«…
come sei volgare.»
«Minto.»
Lei
prese un respiro e si strinse nelle
spalle: «Niente. Ti ho pensato. Anche la nonna mi ha chiesto di te.»
«Strano
posto per pensarmi, dopo tutto
sto tempo.»
«Be’,
no… non proprio.»
Si
scambiarono un’occhiata, il cuore di
Minto che prima batté violento contro il petto e poi si afflosciò
leggermente,
più in basso verso lo stomaco. Appoggiò la tazza sul tavolo di legno
accanto al
divano, si schiarì la gola.
«Ti
ricordi di quando… quando sono
andata con Tomoyo a provare i vestiti da sposa e ti ho detto che -»
Vide
il suo viso contrarsi in una smorfia
dispiaciuta mentre fissava il pavimento e si scostava i capelli dalla
fronte:
«Non ho molta voglia di fare un viaggetto tra i ricordi, Minto.»
Lei
si accovacciò ancora di più su se
stessa, come un uccellino nel nido, e sbottò: «Sì beh, nemmeno io, però
è
successo tutta la cazzo di sera, quindi eccoci qua.»
«Eccoci
qua un corno! Arrivi
all’improvviso nel mezzo della notte senza spiegare, poi continui a non
spiegarti, ho smesso di stare dietro ai tuoi cambiamenti di umore, sai!»
«Cosa
dovrei spiegarti, eh? Vorresti che
ti dicessi uuuh Kisshuuu ti prego
torniamo insiemeee, inginocchiando in lacrime di fronte a te?»
«Abbassa
la voce,» ringhiò a denti
stretti lui, lanciando un’occhiata su per le scale, «E no, non ho detto
quello,
ma dovresti anche capire il mio punto di vista.»
«Cinque
anni a cercare di capire il tuo
punto di vista, ma zero.»
«Bene,
abbiamo capito il problema.»
Lei
si tolse di getto la coperta di
dosso, alzandosi in piedi: «Meglio che me ne vada.»
Kisshu,
ancora dal pavimento, la guardò
scettico, tendendo le mani verso di lei nel vederla traballare: «Dove
vuoi
andare, non vedi che non ti reggi in piedi?»
«Chiamerò
un taxi. Non ho bisogno della
tua pietà.»
Lui
si alzò, irritato: «Minto. Siediti.»
La
mora rimase ferma dov’era, le braccia
incrociate al petto e un’espressione contrita in volto, ma almeno non
si mosse.
Kisshu sospirò di nuovo, scuotendo la testa.
«Come
siamo sopravvissuti, cinque anni,
non lo so.»
Lei
si morse un labbro: «Non sarei
dovuta venire.»
Evitò
lo sguardo che sentiva perforarle
il viso: «Non fa niente, ormai sei qui e non te ne vai in queste
condizioni.»
«Non
ho bisogno che ti preoccupi per
me.»
«Evidentemente
sì.»
Le
passò accanto, recuperò la coperta e
gliel’avvolse sulle spalle con lentezza. Minto rabbrividì a quel
contatto, al
sentire di nuovo il suo profumo così vicino a lei, e cedette. Fece un
passo
avanti e appoggiò la fronte al petto di lui, le mani che sgusciarono
dal plaid
per attaccarsi alla sua maglietta. Lo sentì irrigidirsi e poi esalare,
mentre
le sue braccia la stringevano piano.
Minto
sentì il groppo che aveva avuto in
gola per tutti quei mesi risalire piano piano e scoppiare, la mascella
che le
doleva e un sospiro tremolante che le scappò dalle labbra mentre
chiudeva gli
occhi.
«Sssh,»
Kisshu le diede un bacio sulla
sommità della testa, iniziando a cullarla sul posto lentamente e
accarezzandole
la schiena, «Non piangere, passerotto, va tutto bene.»
«Mi
manchi,» si lasciò scappare in un sussurro
lei, prima che potesse anche solo registrare cosa stesse dicendo.
Lo
avvertì annuire mentre l’abbracciava
ancora un po’ di più, continuando a dondolare piano in silenzio.
Quando
Minto si fu calmata, Kisshu
allentò un poco la presa per controllare che fosse ancora sveglia, e
rise nel
vederla combattere per tenere le palpebre aperte.
«Ho
fatto il bravo fratellino e ho
lasciato a Pai la camera da letto,» sussurrò, «Mi ero addormentato nel
divano
dello studio, ma puoi andarci tu, così domattina ci sarà meno casino.
Io
rimango qua.»
La
mora annuì sbadigliando, lo guardò da
sotto le ciglia scure: «Posso prendere una tua tuta dal cesto dei panni
puliti?»
Kisshu
rise: «È ancora tutto appeso, sai
dove trovarlo.»
Minto
fece un altro cenno con la testa,
si tolse la coperta di dosso e la piegò accuratamente, poi si avviò per
le
scale, una mano attaccata alla ringhiera e l’altra contro al muro per
la
massima stabilità.
Kisshu
rimase fermo a fissarla finché
non si fu accertato che fosse arrivata nella stanza sana e salva; poi
si gettò
sul divano, si schiaffò le mani in faccia, e cercò di riaddormentarsi.
**
Cercò
a tentoni nel buio il cellulare,
che sentiva vibrare sommessamente in tono lamentoso. La testa le
pulsava così
tanto che era difficile concentrarsi, ma finalmente riuscì ad
agguantare la
pochette, litigare con la chiusura e tirare fuori il telefono.
Solo
la luce dello schermo le diede
fastidio – erano già le dieci e mezza, com’era possibile? - e gemette scontenta nel
vedere che le erano
semplicemente arrivati una sequela di messaggi nel gruppo con le sue
amiche,
intente a fare gossip sulla serata passata.
Cosa
che lei non aveva la minima idea di
fare.
Si
voltò sulla schiena con un altro
mugolio di vergogna mentre ripercorreva i tasselli interrotti del suo
weekend.
Si sarebbe voluta seppellire. Ed era ancora ubriaca, ne era certa.
Si
tirò giù dal letto a fatica,
desiderosa soltanto di annegare nel caffè e di addentare qualcosa di
solido,
visto che la cena immensa della sera prima sembrava averle fatto
ingigantire lo
stomaco. Si mosse lentamente nel buio, non volendo accendere nessuna
luce, e si
rinfilò malamente il vestito da cerimonia, tenendo necessariamente le
scarpe in
mano. In bagno non ebbe nemmeno il coraggio di guardarsi allo specchio
mentre si
sciacquava la faccia e la bocca, cercando di riappacificare il più
possibile i
suoi capelli.
Sbuffando
esausta – e chiedendosi perché
le importasse così tanto del suo aspetto quando sarebbe svanita nel
primo taxi
disponibile e si sarebbe eclissata nella sua vasca da bagno per le
successive
due ore – scese le scale quasi di corsa, per poi fermarsi a tre gradini
dalla
fine.
Doveva
decisamente essere ancora ubriaca,
visto che si era totalmente
dimenticata che anche Pai fosse stato ospite quella sera; lo stesso Pai
che ora
le stava fortunatamente dando le spalle mentre seguiva il fratello
verso la
soglia della cucina.
«Quand’è
che te ne vai?» stava dicendo
infatti il minore «Mi sembra di avere mamma sul collo con tutte le tue
domande!»
«Se
tu rispondessi, forse sarebbe
diverso.»
«Potrò
farmi i fatti miei in casa mia?»
«Ammetti
che sei strano.»
Minto
cercò di voltarsi il più
silenziosamente possibile, pensando di nascondersi di nuovo nello
studio finché
non le avrebbero notificato il via libera; ovviamente, la fortuna non
era dalla
sua parte, perché tra il tessuto lungo e setoso del vestito, la
pochette, i
tacchi, il telefono, e la sbronza, le sue mani non erano in grado di
tenere
tutto e al tempo stesso cercare l’equilibrio contro al muro, e la
borsetta le
sfuggì dalla presa, cadendo per i gradini restanti e rivelando il suo
contenuto.
Nonché
attirando l’attenzione dei due
presenti, che si voltarono di scatto verso di lei mentre lei si
irrigidì, una
smorfia in volto.
Kisshu
alzò gli occhi al cielo, quasi schiaffeggiandosi
una mano in faccia, mentre Pai prima osservò la ragazza, poi il
fratello, poi
di nuovo la ragazza, poi ancora il fratello.
«Be’,
almeno tu dormivi sul divano.»
Minto
lo trucidò con lo sguardo, e il
ragazzo sospirò, scuotendo la testa: «Vado a farmi un giro, cercate di
non
lasciare un campo di battaglia truculento per quando torno.»
La
mora rimase sui suoi gradini finché
la porta d’ingresso non fu chiusa, Kisshu che ritornò in cucina.
«Gli
sono scoppiate le tubature di
casa,» lo sentì spiegare, «Ha bisogno di un posto comodo per andare a
lavorare
la mattina, mentre Retasu è tornata a casa dai suoi.»
«Lo
so,» commentò piatta lei, scendendo
infine e raggiungendo la soglia dopo aver raccattato le sue cose.
Kisshu
annuì e si concentrò su una
padella in cui stava cuocendo delle uova strapazzate: «Su, siediti. C’è
un po’
di autentico cibo da sbronza made in Kisshu. Il caffè è già nella
tazza, stavo
venendo a vedere se eri sopravvissuta.»
Lei
sibilò un imbecille ma si accomodò
lo stesso, strofinandosi le braccia più
per il disagio che per il freddo, tuffandosi nel caffè come se fosse
stato un
salvavita. Il ragazzo riempì il piatto davanti a lei con le uova e dei
pancakes, del toast e delle marmellate, e del succo di arancia. Minto,
a quello
spettacolo, alzò un sopracciglio.
«È
la prima volta che imbandisci così la
tavola,» commentò.
«È
la prima volta che sei tu a correre
dietro a me e non viceversa.»
Minto
quasi si strozzò col pezzetto di
pane che stava masticando: «… non ti sto correndo dietro,» borbottò tra
un
sorso di succo e l’altro.
«Ah
no?» Kisshu si sedette di fronte a
lei, incrociò le braccia sul tavolo, «E il teatrino di ieri sera allora
cos’è
stato?»
La
ragazza continuò a masticare in
silenzio, gli occhi piantati sul proprio piatto: «Non lo so,» ammise
infine.
Lui
rise sprezzante, batté le nocche sul
tavolo: «Tu pensi che per me sia facile?»
«Cosa?»
«Tutto.
Questo. Tu,» elencò lui, «Averti
qui ora.»
«Posso
sempre andarmene.»
«Non
senza una spiegazione.»
Minto
appoggiò lentamente la forchetta
accanto al piatto, intimando di calmarsi mentre piano piano la nebbia
nella sua
mente si diradava.
«Senti,
non ce l’ho una spiegazione,
okay? Te l’ho detto, ero al matrimonio e mi sono resa conto che… che
sentivo la
tua mancanza.»
«Perché
ora? Perché non tre mesi fa, o
sei?»
«Potrei
farti la stessa domanda.»
«Ho
fatto il cavalier servente
abbastanza volte, principessina.»
Lei
si rifugiò nel caffè: «Non te l’ho
mai chiesto…»
«Una
volta sapevi farla la ballista.»
Minto
assaporò il bruciore sulla lingua,
il calore del caffè che le rinvigoriva le membra stanche e le assopiva
lo
stomaco irrigidito. Ora che poteva vedere le cose con più chiarezza,
alla luce
del sole, si chiese che cosa avesse sperato di ottenere con quella
visita
improvvisa. O aveva mai davvero sperato di ottenere qualcosa? Forse, la
soluzione migliore era pensare che fosse stato tutto solamente un
momento di
debolezza fini a se stessi, quelli che lei non voleva mai, quelli che
doveva
evitare con tutto il cuore.
Appoggiò
la tazza sulla tovaglietta di
cotone così da non lasciare aloni sul tavolo e si alzò in piedi: «Ho
finito di
disturbarti. Scusa per ieri sera, l’ultima cortesia che ti chiederei è
di
chiamarmi un taxi.»
Kisshu
rise sprezzante e batté una mano
sul tavolo: «D’accordo, vattene allora, credo che tu sia abbastanza
grande e
vaccinata per cercare da sola la carrozza.»
Lei
alzò il mento impettita, cercando di
nascondere quel freddo che si era reimpossessato del suo petto, e fece
per
uscire dalla cucina.
«Sei
incredibile, sai?» le esclamò lui
dietro, arrabbiato, «Pensi sempre che basta la tua presenza perché
tutti si
inginocchino al tuo cospetto, senza che tu debba dire o fare nulla! Sei
arrivata qua e ora te ne vai come se niente fosse, come se non valessi
un
cazzo, e non hai nemmeno il coraggio di
parlarmi. E sai qual è la cosa che mi fa più incazzare? Che io te lo
permetto
anche! Mi prendo cura di te, ti preparo la colazione solo per avere
come
ringraziamento la tua solita faccia di marmo che io
meno di tutti mi merito! Avrei dovuto rimandarti indietro col tuo fottuto taxi ieri notte, e
invece no, perché pensavo che – ah, fanculo.»
Minto
rimase ferma sulla soglia,
dandogli le spalle, stringendo le labbra.
«Solo
tu puoi permetterti di agire
d’istinto?» mormorò poi infine, odiando il tremolio nella sua voce.
«Cazzo,
Minto, almeno il mio istinto è
facile da spiegare.»
Lei
si asciugò una lacrima solitaria che
era sfuggita al suo controllo, girò solo il viso verso di lui: «Anche
se fossi
venuta qui con… uno scopo,» sussurrò, «Credo che sia chiaro che non
avrebbe
comunque funzionato.»
Kisshu
si alzò dalla sedia e incrociò le
braccia al petto: «No, passerotto, funziona quando si mettono le cose
in
chiaro.»
La
mora annuì ancora, raccattò le sue
ultime cose e si avviò in silenzio verso la porta. Ne aveva aperto uno
spiraglio, la luce del Sole abbagliante contro di lei, quando la voce
di Kisshu
la raggiunse di nuovo.
«Mi
dispiace, Minto,» lei non si voltò,
ma sapeva che si stava passando le dita tra i capelli, scuotendo la
testa e
fissando per terra, come tutte le volte che avevano discusso, «Ma ho
smesso di
essere l’unico che scende a compromessi.»
Minto
strinse le dita attorno al
pomello, immaginando la stessa espressione in volto di sei mesi prima,
l’ultima
volta che si erano visti, quando le parole non erano state tanto
diverse e il
pugno nello stomaco lo stesso di quel momento. E sapeva, lo sapeva,
anche se
non riusciva mai ad ammetterlo a se stessa, che lui avesse ragione.
«Scusa
se ti ho disturbato,» mormorò,
sovrastando il groppo che le chiudeva la gola, il terrore nel petto al
ricordo
di quegli ultimi sei mesi e a ciò che avrebbe avuto davanti, e
l’incredibile
voglia di tornare indietro, tra le sue braccia, «Mi ha fatto piacere
rivederti.
Ciao.»
Non aspettò risposta,
girò il pomello e
corse fuori, il rumore della porta che sbatté forte quanto il battito
del cuore
che le affondò nel petto.
§§
La cosa piu triste di questa
FF forse è che in realtà finiva bene, poi ho cambiato il finale per
farlo stare nella serie :3
Ciao fanciullee :D Sto
combattendo contro un internet lentissimo per riuscire a pubblicare
anche il terzo mondo che le nostre coppiette dubbiose stanno scoprendo!
Più vado avanti più diventa crudele, lo so, ma in fondo è divertente :3
Provate a mettervi nei panni di Ria che aveva pure letto la versione
originale felice, e ora mi sta odiando ahahah
Se volete sapere come sarebbe
dovuta finire in realtà, fatemelo sapere così magari la metto in pagina
FB :=) Il prossimo mondo tocca a Ichigo, ma ahimè la devo ancora
scrivere ^^'''''' Ne ho un'altra pronta ma per questioni di par
condicio sto cercando di alternare :)
Spero che anche questa vi sia
piaciuta, fatemi sapere, ovviamente ringrazio tantissimo tutti coloro
ceh stanno seguendo la serie :D
Un bacione grande!
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