Prologo
Sai
cosa vuol dire perfettibile?
Glauco, guarda: già
il mare profondo è sconvolto dalle
onde, attorno al
capo Gireo si leva una nube,
presagio di
tempesta: inatteso mi coglie il timore.
Archiloco, fr. 105
West.
Prologo
Suonarono alla porta
nel cuore della notte.
Ma si era mai vista in
tutta Lavandonia una cosa del genere? Che si suonasse così, in piena
notte e senza nessuna plausibile giustificazione, alla porta di
qualcuno che non fosse un medico?
Il signor Fuji si
svegliò col cuore in gola, scoprendosi sorpreso più dalla scoperta
stessa di trovarsi addormentato, nel suo letto, senza alcuna precisa
memoria di esservi andato, che dal fatto che qualcuno avesse deciso
di venire a suonare in piena notte proprio a casa sua.
Il suo sonno pesante
che non accennava a sfumare lo frastornava enormemente, tanto che per
qualche istante, avvolto nella cappa gravosa e appiccicosa della
notte che lo avvolgeva, stentò a riconoscere la sua stanza e
l'orientamento del suo letto. Ma poi il grido disperato del
campanello si ripeté di nuovo, echeggiò carico d'allarme sulla
notte immobile, spazzò via ogni residuo di sonno: d'un tratto il
signor Fuji si ritrovò su letto perfettamente sveglio, con le
orecchie tese e attente, e la mente più lucida che in pieno giorno.
Raggiunta una certa
età, e un'esperienza di vita come la sua, Fuji aveva scoperto ormai
da qualche anno che avere paura non aveva più alcun significato. Non
la considerava imprudenza. Semplicemente, nella prospettiva della sua
vita attuale, egli non riusciva a trovare proprio alcun motivo per
cui qualcuno dovesse fargli del male, e nell'ipotesi, possibile
seppur improbabile, che questo dovesse accadere, egli non vedeva
proprio in che modo gli fosse possibile impedirlo. Ragion per cui,
facendo forza sul bordo del vecchio materasso cedevole dalle molle
cigolanti, che troppe notti insonni e stancanti aveva sostenuto, Fuji
si alzò con calma, indossò la vestaglia e si avviò a tentoni verso
la porta.
Gli squilli del
campanello si erano interrotti, ma neppure volendo sarebbe stato
possibile credere che quel folle qualcuno che, dall'altra
parte, aveva suonato, se ne fosse andato. Al di là della porta
chiusa si udivano i suoni disperati di una bestia braccata che
cercava rifugio, rumore di passi affannati e strascicati sulla
soglia e i gemiti angosciati di qualcuno che si domandava se gli
avrebbero mai aperto...
Accostando l'orecchio
alla porta, Fuji domandò con voce alta e chiara: «Chi è?»
In risposta alla sua
domanda, Fuji udì dall'altra parte la voce del figlio che per tanto
tempo aveva chiamato perduto dire: «Papà... ho combinato un
casino.»
Mentre il latte bolliva
nel forte odore di gas della vecchia cucina antiquata, il signor Fuji
guardò suo figlio negli occhi e gli chiese: «Che cosa è successo?»
Se non fosse stato per
la voce, egli a malapena avrebbe riconosciuto suo figlio. Questo
pensiero lo addolorò più ancora di quanto avrebbe potuto pensare,
per quanto una piccola parte di lui fosse comunque consapevole, con
la placida saggezza dei suoi lunghi anni di solitudine, che non era
colpa sua se suo figlio era cambiato tanto senza che egli potesse
vederlo.
Emir aveva l'aria
sbattuta e sciupata delle persone che lavorano molto più di quanto
non riposino, e precocemente invecchiata. Aveva gli occhi
pesantemente cerchiati, un po' troppo infossati nelle orbite stanche,
e anche i suoi capelli, che erano stati dello stesso nero corvino dei
suoi, sembravano incominciare a conoscere le prime striature di
grigio sulle tempie. Ma quand'era che era invecchiato così? Erano
passati poi così tanti anni dall'ultima volta che si erano visti?
«Non te lo posso dire»
disse meccanicamente Emir, senza guardarlo, e Fuji si limitò ad
annuire in silenzio. Non si era veramente aspettato che gli
rispondesse, dopotutto; ma doveva fare almeno un tentativo. Ora che
gli aveva dato la possibilità di confessare spontaneamente, e che
Emir si era rifiutato, poteva interrogarlo liberamente; perciò,
sedendosi di fronte a lui dall'altro lato del tavolo, domandò: «Hai
ucciso qualcuno?»
Il figlio che aveva
amato e perduto ormai tanti anni prima, il ragazzo che era cresciuto
a Lavandonia, nella sua casa, avrebbe sgranato gli occhi a questa
domanda. Sarebbe balzato in piedi con violenza, cogli occhi pieni di
indignazione e di sgomento, e avrebbe protestato la propria innocenza
a gran voce, incredulo alla sola idea che qualcuno potesse pensare...
ma l'uomo ch'egli aveva davanti, che la Silph gli aveva portato via e
che egli per anni non aveva mai più rivisto, non sembrava provare
poi tanto sdegno all'idea che suo padre lo credesse capace di
uccidere.
Emir scosse lentamente
la testa. «No, papà, non... non è niente del genere. Non è quel
tipo di cosa.»
Chissà per quale
motivo, se non si trattava di omicidio, Fuji non riusciva a trovare
altro a cui pensare di tanto grave da spingere suo figlio a venir lì
di corsa, in piena notte, cogli abiti ancora impolverati e i capelli
spettinati dal viaggio. In un certo senso si sentì rassicurato. In
nessun caso avrebbe mai protetto suo figlio per qualcosa di tanto
orribile, ma in quanto al resto non gli veniva in mente nient'altro
di così terribile da doverlo denunciare immediatamente alla polizia.
E poi, se suo figlio pensava che fosse meglio tenerlo all'oscuro di
tutto, poteva darsi che fosse davvero meglio così. Emir era sempre
stato più portato di lui per capire certe cose, quando si trattava
di leggi e cavilli legali, ed egli era certo di non poterla spuntare
in nessun modo discutendo con lui. E poi, se non era un assassino...
Si alzò per spegnere
il gas quando il latte cominciò a borbottare e gli mise davanti una
vecchia tazza di latta, senza troppi complimenti. Non aveva altro da
offrirgli che latte bollito e pane secco, che alla sua età, con le
budella stanche e lente e il senso del gusto divenuto più un
fastidio che un piacere, costituivano il suo principale nutrimento,
malgrado tutti gli incoraggiamenti dei ragazzi e le prescrizioni del
medico; ma Emir non vi prestò alcuna attenzione. Soffiò sul latte
amaro e vi spezzò il pane, e mangiò e bevve senza parlare né
guardarlo come se da giorni non mangiasse né bevesse.
«Pensi che possa
esistere qualche valido motivo per cui costituirti?» chiese dopo un
po' in tono indifferente. Sapeva bene che non sarebbe servito a
niente, ma anche quello, dopotutto, era un tentativo che non poteva
esimersi dal fare.
«Non è una cosa per
cui ci si possa costituire» rispose Emir, soppesando cautamente ogni
singola parola. Esitò un poco, giocherellando coi grossi bocconi
irregolari di pane che galleggiavano inconsapevoli sulla superficie
del latte, e proseguì a voce bassa, osando appena guardarlo per
soppesare la sua reazione al di sotto delle alte sopracciglia nere:
«È stata una cosa illegale, papà, ma era una cosa giusta. Non
so come altro spiegartelo senza renderti mio complice, ma ti prego,
papà, devi credermi... mi costituirei se avessi fatto la cosa
sbagliata. Lo sai anche tu che lo farei» aggiunse ansiosamente, e
Fuji annuì per tranquillizzarlo, senza esserne veramente convinto.
Non era più tanto sicuro di sapere che cosa suo figlio fosse o meno
in grado di fare, per la verità, ma Emir gli sembrava già
abbastanza agitato senza bisogno di mettere in dubbio la sua
moralità.
Tamburellò per un poco
con le dita sul tavolo. «Va bene, Emir. Ma se non vuoi dirmi che
cos'hai fatto e non vuoi che ti aiuti... allora perché sei venuto
qui?»
Vi fu un lampo
d'incomprensione negli occhi di Emir quando sollevò lo sguardo versi
di lui, e la sua voce conobbe un attimo di esitazione, come se non si
fosse aspettato che proprio lui, suo padre, gli rivolgesse questa
domanda, e se ne scoprisse ferito.
«Ho bisogno di un
alibi» disse nervosamente, ma con l'aria di chi stesse inventando
una bugia così, su due piedi, perché non riusciva a trovare alcun
miglior motivo per trovarsi lì, a Lavandonia, con suo padre. Ma ai
suoi occhi, che di suo figlio conoscevano con precisione anche la più
mutevole piega del viso, era anche troppo evidente che Emir non aveva
neppure pensato alla necessità di un alibi, quando era venuto lì.
Ma ora che l'aveva detto quell'esigenza si era fatta concreta e
pressante, ed Emir vi si aggrappò. «Se fosse necessario, diresti
che ero qui ieri sera?»
Eppure anche quella
domanda, che pure sarebbe stata fondamentale per un uomo che avesse
appena commesso un crimine, Emir l'aveva posta senza alcuna ansietà
né angoscia, come se non volesse altro che sondare il terreno, e
Fuji non si ritenne obbligato a rispondere così, a scatola chiusa.
«Sembri così stanco,
Emir» mormorò. «Perché non vai di là a stenderti un po'?»
Quando suo figlio si fu
addormentato sul divano, Fuji si soffermò a lungo a guardarlo.
Si era buttato a
dormire così com'era, ancora vestito e impolverato dal viaggio, ed
era sprofondato nel sonno immediatamente, ma di un sonno greve e
pesante, completamente esausto, come ai tempi dei suoi studi
frenetici e appassionati. Ma quelle rughe sottili e premature ch'egli
vedeva affiorare al di sotto del braccio con cui Emir si era coperto
gli occhi, quelle non erano del figlio che gli era appartenuto. Era
stata la Silph a invecchiarlo così? L'uomo che dormiva sul suo
divano, coperto solo della vecchia giacca a vento con cui aveva
viaggiato, era pietosamente magro, di una magrezza insalubre,
consunta, e dimostrava più anni di quanti ne avesse.
Era andata a finire
proprio come egli stesso aveva predetto, ormai sei anni prima, il
giorno che avevano litigato ed Emir se n'era andato: la Silph lo aveva
sedotto e incoraggiato e poi se n'era impadronita e lo aveva
distrutto, e in tutto questo egli aveva sempre avuto
ragione... Emir era tornato da lui umilmente come il figliol prodigo,
ammettendo il proprio errore col candore di un bambino, e alla fine
aveva dovuto tacitamente riconoscere la verità, ammettere ch'egli
aveva sempre avuto ragione... eppure, questo pensiero non suscitava
in lui neppure la minima traccia del compiacimento che si era
aspettato. Forse era troppo vecchio, o troppo disilluso, per sentirsi
ancora compiaciuto riguardo a qualcosa.
Erano quasi le cinque e
mezza del mattino: se anche egli non avesse avuto così tanti
pensieri per la testa, in quel momento, non avrebbe avuto comunque
alcun senso tornarsene a letto.
Cercò qualcosa da
fare. Si preparò molto lentamente e in grande silenzio, per non fare
troppo rumore e per lasciar passare un po' di tempo. Lavò i piatti,
ma quando pensò all'idea di far colazione, scoprì che il solo
pensiero del cibo lo infastidiva. Andò a cercare una coperta dal
vecchio armadio di rovere un po' tarlato per coprirne il figlio,
scostando delicatamente la giacca a vento impolverata, e si rasserenò
un po' quando si accorse che Emir continuava a dormire profondamente
malgrado i suoi movimenti. Forse dormendo avrebbe potuto dimenticarsi
per qualche ora di ciò che aveva fatto.
Ma anche dopo aver
fatto tutte queste cose, e averle fatte con la massima calma
possibile, il signor Fuji si ritrovò a non aver più niente da fare
per attendere il giorno e il risveglio di suo figlio. Ancora non
accennava neppure ad albeggiare, e anche ammettendo che qualcuno dei
volontari decidesse di alzarsi particolarmente presto e di passare da
lui prima della scuola, mancavano a ogni buon conto almeno una o due
ore. Quanto a sedersi ad aspettare senza far niente, questo era
proprio qualcosa ch'egli non aveva mai tollerato di fare e non lo
prese neppure in considerazione. Era ancora troppo presto perché
l'edicola in fondo alla strada fosse aperta? Valeva la pena di fare
un tentativo.
La strada era aspersa
di quell'uniforme luce grigia e livida delle giornate che si
prospettano belle ma che ancora non hanno avuto tempo di schiudersi
al giorno. L'edicola non era ancora propriamente aperta, ma il
giornalaio, ch'egli era abituato a considerare un amico per il
semplice fatto che apparteneva alla sua stessa generazione, stava
sistemando i grandi pacchi di quotidiani della giornata. Era già
mattino, ma si salutarono egualmente in silenzio, parlando colla voce
bassa che ispirava loro la sensazione persistente che non ancora
fosse esattamente giorno.
Sulla via del ritorno
verso casa, Fuji aprì il giornale e lesse: Isola Cannella –
Scompare Mew, l'esemplare unico al mondo del Laboratorio Pokémon. La
Silph SpA offre ricompensa milionaria per il ritrovamento.
Ciao a tutti!
Sono veramente contenta
di poter finalmente dare alla luce questo progetto sul quale sto
lavorando ormai da almeno un anno e mezzo, la cui genesi è
perfettamente riassumibile con queste parole: questo è quello che
viene fuori quando vaghi per un paio d'ore nei sotterranei della
Villa Pokémon dell'Isola Cannella per trovare un Ditto per eseguire
un secondo Mew Trick.
Occorre prima di tutto
chiarire un assioma fondamentale: per una mia precisa scelta, questa
storia si baserà quasi esclusivamente (salvo laddove non sia
possibile fare altrimenti) sui videogiochi di prima generazione, con
qualche accenno alla seconda che costituisce con essa una sorta di
unicum geografico e narrativo. Non è una scelta dettata da imperizia
o ignoranza dei giochi successivi, ma è mio preciso intento cercare
di rendere il più possibile quell'atmosfera che ha vissuto chi, come
me, giocava a Pokémon Rosso o Blu ai tempi della loro uscita. Kanto
non era una regione magica e ricca di leggende come quelle
successive: era una regione collocata nel nostro mondo, impegnata
nella lotta all'inquinamento e nella ricerca scientifica e genetica.
Cercherò di attenermi a questa versione il più possibile, spiegando
capitolo per capitolo le scelte fatte; naturalmente avrò piacere di
discutere di queste scelte con chiunque abbia domande o sia
interessato a confrontarsi al riguardo.
Per il momento non mi
rimane davvero altro da dire, spero che non mi sia sfuggito nulla!
Un caro abbraccio a
tutti
Afaneia
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