Questa storia è frutto di un’ispirazione
fulminante, spero che gli eventuali lettori la gradiranno; i personaggi sono
ovviamente storici, ma non è con la storia che hanno a che fare. Ringrazio
anticipatamente chi vorrà lasciare un commento. I versi in introduzione sono
tratti dalla canzone “Oriente” dei Nomadi, contenuta nel cd “Corpo Estraneo”.
Baci a tutti!
~ Il Richiamo ~
“Amor
Che guardi verso
oriente
Verso il mare
Qual è il nome che
pronunci piano
Prima di dormire”
“Un giorno arriverò al
confine del mondo!” Proclamò Alessandro, indicando l’orizzonte di quell’estate
giovane come le loro vite.
Efestione, seduto sul
prato, gli sorrise con scettica tenerezza. “Pensa se quel confine non
esistesse.” Mormorò poi, ironico. “E se, arrivato alla fine del viaggio, tu ti
ritrovassi al punto di partenza?”
Alessandro si girò verso
di lui, lanciandogli un’occhiata torva con i suoi occhi così particolari, poi
corse verso di lui e gli piombò addosso stendendolo sull’erba.
“Quello che dici è
impossibile.” Gli disse serio. “Dopo quel confine c’è solo il mare, un grande
oceano e io mi ci tufferò, e nuoterò fino al punto in cui confina con il
cielo!”
Efestione sorrise e gli
carezzò i capelli. “La tua impresa, è impossibile, non basterà una vita intera
per raggiungere quel confine.” Affermò con dolcezza.
“Allora morirò
provandoci!” Dichiarò sicuro l’altro ragazzo, fissandolo con decisione;
Efestione lo guardava, come sempre preoccupato della sua irruenza.
All’improvviso, però, il
volto di Alessandro si rabbuiò ed un’ombra d’ansia passò nei suoi occhi
scintillanti.
“Tu verrai… verrai con
me, vero?” Chiese all’amico, afferrandolo per le spalle.
“Ovunque.” Rispose
Efestione; allora Alessandro sorrise e lo abbracciò.
Rimasero sul prato,
mentre il sole cominciava a calare ad occidente, stretti l’uno all’altro,
cullati dal frinire delle cicale, sotto un cielo azzurro cobalto.
No, non dormiva. Stava steso sul letto, con gli occhi
chiusi, a domandarsi come il ricordo di quella remota estate potesse essere
così vivido nella sua mente; rammentava perfino gli odori, e gli sembrava
impossibile.
Eppure era tutto così reale, reale come gli aromi delle
piante medicinali, come l’erba verde e fragrante, bagnata dalla rugiada del
mattino, come la pioggia improvvisa e balsamica, fastidioso come i gelsomini
sotto il sole del pomeriggio.
La sua mente… sempre rivolta al futuro, protesa verso
nuovi confini e orizzonti, alla ricerca perpetua di qualcosa… qualcosa ancora…
Credeva di aver conservato solo ciò che gli serviva per
essere un re ed un generale, dai suoi studi di ragazzo, ma erano rimasti anche
quegl’odori, i gesti, gli oggetti; chissà perché ci pensava ora.
Stava cavalcando tra gloria e conquiste sempre crescenti,
era imperatore, faraone, figlio degli Dei e favorito da essi, nessun nemico era
tanto forte da resistergli, nessuna battaglia troppo ardua per essere vinta;
eppure la sua fame non si placava e cresceva il desiderio di andare avanti, per
guardare in faccia la fine di tutte le cose.
E più andava avanti più la sua inquietudine cresceva, era
impaziente, come se ogni montagna che valicava, fiume che guadava, nemico che
sconfiggeva lo portasse più vicino a ciò che stava cercando. Ma cosa stava
cercando?
La pace sentiva di averla perduta, forse, mai posseduta;
c’era stato un tempo, un luogo, dove avesse trovato la serenità?
Sì, esisteva quel luogo, e quella notte si era trasformato
in un bisogno, che gridava in tutto il suo essere, con voce più alta di
qualsiasi altra, una voce antica e pura, di conforto e salvezza.
Aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu l’opaca luce
aranciata di una lampada, poi la pesante tenda che copriva l’unica finestra di
quella opprimente camera; il vento la faceva gonfiare lievemente e poi la
risucchiava nel vano, tutto con un rumore sordo e ritmico. L’incenso si
consumava nel braciere con un filo di fumo verdastro, in un angolo, diffondendo
nella stanza una fragranza sconosciuta e cupa.
Alessandro girò il capo e guardò la donna che aveva
sposato; sapeva perché l’aveva fatto: lei rappresentava quell’orizzonte che lui
continuava ad inseguire e che balenava nei suoi occhi, neri come laghi di pece,
ardenti nel presente, ma remoti e misteriosi. Irraggiungibili, proprio come
quel confine che, forse, Alessandro non avrebbe afferrato mai.
Lei lo aveva attratto, conquistato, divorato, ed ora,
soltanto dopo poche settimane dalla loro unione, tutto era finito, come un
fuoco arso troppo in fretta, di cui rimaneva solo acre cenere.
Sì, avere una moglie gli era utile, e Roxane era il
compromesso ideale, ma ora era infastidito dal suo sapore che ancora sentiva
sulle labbra, troppo dolce troppo amaro, dal suo corpo abbandonato e languido
nel sonno, accanto a lui, dell’odore di essenze e oli, che formavano strati
sulla sua pelle d’ambra, dalle sue forme femminili che disegnavano curve
sinuose tra le coperte.
Si liberò con uno strattone dal
pesante lenzuolo scuro ricamato d’oro, che lo aveva avvolto troppo
strettamente, poi si mise seduto sul bordo del letto; il vento che filtrava
attraverso la tenda gli portava alle narici l’odore dell’incenso e quello della
sua stessa pelle, e quell’odore non gli piaceva. Sapeva di lei, dei loro corpi
confusi nel sesso, del sudore.
Posò le mani ai lati del suo
corpo, fissando la finestra davanti a se. Non si era mai chiesto se le sue
decisioni fossero giuste o sbagliate, il suo scopo era chiaro nella sua mente,
il disegno preciso; perché farsi domande, quando c’era qualcuno che si fidava di lui? Non avrebbe mai tradito quella
fiducia e, dunque, non avrebbe mai sbagliato.
Ora, però, si poneva domande,
aveva esitazioni e timori nel fare quello di cui non si era mai vergognato.
Quante volte, da ragazzo, ritornato a Pella dopo gli studi con Aristotele, era
sgusciato via dal suo letto, di notte, per rifugiarsi dove c’era la pace e
l’amore?
Quindi perché aver dubbi ora?
Perché c’era questa donna? Questa straniera fatta di fuoco, questa estranea che
bruciava il suo corpo lasciando intatto il suo cuore. Sì, perché il cuore era
protetto, avvolto da un guscio invisibile e impenetrabile, o, addirittura, lui
non aveva più un cuore in petto, perché qualcun altro lo conservava con cura al
posto suo.
Si guardò intorno, rendendosi
conto all’improvviso che, la prigione in cui si stava trattenendo, non era
altro che una gabbia aperta, niente chiavi, né guardie, solo vecchie ombre come
sbarre. E Alessandro non amava le vecchie ombre.
Le scacciò con un gesto della
mano, mentre si alzava. Afferrò qualcosa da mettersi, non era altro che un
panno rosso scuro, come il sangue, ma se lo avvolse sui fianchi ed uscì dalla
stanza.
Quando Alessandro scomparve
attraverso l’arco scuro che conduceva alle scale, Roxane aprì gli occhi; guardava
fisso davanti a se, il posto vuoto lasciato da lui, ma non fece un movimento,
solo, strinse i denti. Sapeva dove stava andando, la battaglia per quella notte
era persa, ma lei non si sarebbe arresa. La guerra era lunga. Forse non avrebbe
avuto di più da Alessandro, magari nemmeno le interessava, ma la posizione
conquistata nessuno gliel’avrebbe portata via. Mai.
Alessandro, nel frattempo,
scendeva in fretta le scale, strette tra le mura scure, sentendosi sempre più
oppresso; quando uscì all’aria aperta gli sembrò di ricominciare a respirare
dopo un’eternità.
Ansimava, appoggiato con la
schiena contro un muro, il cortile era buio e silenzioso; alzò gli occhi, ma
non vide la luna, solo un cielo lontano e pieno di stelle. La voce del bisogno
rombava ora più forte nelle sue vene.
Il suo respiro, infine, tornò
normale, così fece per muoversi, ma si ricordò di qualcosa.
Alzò un braccio e lo avvicinò al
viso, annusando la sua pelle; trovò l’odore rivoltante e offensivo, non poteva
andare in quelle condizioni, non poteva portarla
con se. Si spostò lentamente, circospetto, verso un barile pieno d’acqua
che stava in un angolo, ma si fermò dopo pochi passi.
Cosa stava facendo? Lui era
l’imperatore, perché si stava muovendo come un ladro nella sua proprietà? Nemmeno
nelle limpide notti macedoni, quando tentava di sfuggire all’ossessivo
controllo di sua madre, era stato così attento. Gli venne da ridere.
Raggiunse a lunghi passi il
barile e ne scostò il coperchio; affondò la testa nell’acqua fredda, gettando
poi indietro i capelli, quindi prese un ramaiolo di legno e si gettò l’acqua
sul corpo, bagnandosi completamente. Voleva purificarsi. Usò le mani per lavare
gli odori della prima parte di quella notte, poi si bagnò di nuovo, lentamente,
per ritrovare la sensazione di pulito. Quando ebbe finito si scosse i capelli
bagnati, strizzò il panno e se lo rimise sui fianchi.
Adesso era pronto a rispondere al
richiamo che lo invocava dal silenzio di quella notte.
Oh, se conosceva quella voce!
Aveva imparato ad amarne ogni sfumatura da quando era poco più che un bambino e
la riconosceva anche quando, come adesso, gli parlava da un luogo altro, dalle
profondità di se stesso, senza parole.
Lo aveva cullato, nelle veglie
estive, riscaldato, nelle notti d’inverno, chiamato, nelle stanze dei palazzi,
confortato, prima delle battaglie, eccitato, nei sussurri dell’alcova,
accompagnato sempre, sotto cieli stranieri. Come la persona cui apparteneva.
Nemmeno per un minuto aveva
pensato di poterne fare a meno, non un matrimonio può cambiare le cose. Perché
mangiare non significa nutrirsi. Perché può mancarti il pane, ma non l’unica
cosa che ti tiene in vita.
Si rendeva conto, però, che era
avvenuto un distacco strano, dopo le nozze. Lui lo aveva ignorato, l’altro lo
aveva evitato, come ci fosse una specie di accordo non detto, a proposito di
lasciar andare le cose come venivano, di aspettare.
Ma il richiamo reciproco non si
era mai fermato, lo avevano dominato, costretto nelle viscere, soffocato, ma
lui era là, imperioso, e rialzava sempre la testa. E stanotte la voce era
diventata un grido, un ordine, che aveva strappato Alessandro da ogni catena
che lo aveva trattenuto nei giorni passati. Quella era una battaglia che non
aveva mai voluto combattere, perché la sapeva persa, quindi perché cominciare
ora?
Attraversò un arco e salì altre
scale, conosceva la strada, l’aveva fatta un paio di volte, anche di giorno,
fermandosi sempre, e poi l’aveva ripassata a lungo nella mente.
L’entrata della stanza era coperta da una tenda pesante e
troppo lunga, arrivava a terra formando un complicato drappeggio, lasciando
appena uno spiraglio da cui filtrava una luce azzurra e opaca. Alessandro si
avvicinò, facendo per scostarla, ma si trattenne.
Rimase per un attimo lì, in piedi, immobile, a farsi
cullare dal battito impazzito del suo cuore; era emozionato, quell’emozione che
non ti potrà dare mai una battaglia o una scoperta, ma soltanto il primo bacio,
la prima carezza d’amore, lo sguardo di chi ami. Non erano passati che pochi
giorni, eppure sembrava di essergli lontano da anni. Era imbarazzato di essere
stato lui a cedere, ma sapeva che questa unica debolezza era, in fondo, la
fonte della sua forza, una resa che era vittoria.
Se non avesse scostato quella tenda e non fosse entrato,
non avrebbe ritrovato lo stimolo ad andare avanti; la sorgente della sua
energia vitale era là, solo pochi passi li dividevano.
Alessandro oltrepassò al tenda, e scoprì che quella notte
c’era la luna.
Era bassa, a oriente, evidentemente le alte mura del
cortile la coprivano, ma quella stanza era esposta ad est e non c’erano tende
alla finestra; dunque, quei luminosi tre quarti di luna, rischiaravano la
camera, disegnando ombre opache tra gli oggetti. Qualcuno dormiva, dandogli le
spalle, con addosso una coperta scura, ricamata d’argento come fosse trapuntata
di stelle.
Alessandro si avvicinò al letto, disegnando con lo sguardo
quel corpo così familiare, conosciuto, esplorato, ma sempre nuovo, sempre così
diverso nelle sue esigenze, nei suoi desideri.
Adesso che era arrivato lì, non sapeva cosa dire, cosa
fare, come se fosse la prima volta; pensandoci bene, nemmeno la prima volta era
stato così indeciso.
La situazione venne risolta per lui. Efestione sospirò
profondamente, poi si voltò verso di lui. Non dormiva, lo aveva sentito, era
ben sveglio e ora lo guardava, come in attesa.
Alessandro l’osservò, nelle luce pallida della luna; era
scoperto fino alla vita, teneva un braccio sollevato all’altezza della testa e,
anche nella penombra, si distinguevano le parti più chiare della sua pelle,
dove non era arrivato il sole. Bellissimo, più di come lo ricordava, più di
quanto aveva pensato vedendolo quella mattina. I capelli castani un po’
scomposti, i grandi occhi scuri che lo fissavano attenti.
“Mi hai chiamato?” Riuscì infine a mormorare Alessandro,
aggrottando la fronte.
Le labbra di Efestione si piegarono in un lieve e dolce
sorriso, mentre osservava l’espressione incerta e colpevole di Alessandro; non
era facile vederlo in difficoltà e questa cosa gli faceva tenerezza. Allo
stesso tempo, si sentiva così colmo di felicità da poter scoppiare, era
tornato, tornato da lui… il cuore gli batteva nella gola, fermandogli il
respiro.
Il viso di Alessandro era accarezzato dai raggi della
luna, i capelli biondi bagnati e tirati indietro facevano risaltare i suoi
occhi chiari; di notte non si poteva notare la loro particolarità, Efestione,
però, conosceva bene quegl’occhi, da alcuni giudicati inquietanti, ma che lui
amava. Erano diversi. Il destro era certamente azzurro, con sfumature dorate, mentre
il sinistro era grigio con lampi blu. Questo metteva a disagio le persone, ma a
lui non era mai successo, fin dall’inizio, mai.
Perché loro si appartenevano da prima, da un tempo che
nemmeno lui sapeva, e Alessandro non era ancora nato che lui già aveva dentro
quegl’occhi; la sua vita era cominciata il giorno in cui aveva incontrato il
suo sguardo. Avrebbe dovuto sapere che nulla avrebbe mai tenuto Alessandro
lontano da lui, ma aveva ceduto ai dubbi, a tratti alla disperazione, in quei
giorni di lontananza; adesso però, davanti a quegl’occhi, era così chiara la
verità.
Efestione scostò le coperte. “Sapevo che mi avresti
sentito, mio dolce Alessandro.” Gli rispose dolcemente; l’altro s’infilò nel
letto e lo abbracciò forte, nascondendo il viso contro il suo collo.
La memoria dei giorni, degli anni, passati tornò immediata
alla mente di Alessandro; Efestione sapeva di buono, sapeva di casa, era la sua
casa. Sentì le sue mani calde carezzargli la schiena, scorrere sulla pelle resa
fredda dall’acqua usata per lavarsi, e si rilassò contro il suo corpo caldo, in
un tepore familiare e confortante.
Efestione gli passò le dita tra i capelli bagnati e
Alessandro sollevò il capo, si guardarono negl’occhi; in quello sguardo il
tempo si era fermato: erano fanciulli, adolescenti, uomini allo stesso tempo,
erano sempre esistiti, erano sempre stati insieme e lo sarebbero rimasti per
l’eternità.
Si scambiarono un bacio lento e dolce, non c’era bisogno
di altre parole, il richiamo dell’amore aveva già parlato per loro e quella era
l’unica risposta che voleva.