Capitolo
I – Fragile.
Era
una notte calda e soffocante e senza vento quella in cui
Valérien,
senza alcun preavviso e senza alcun motivo apparente, entrò
nella
sua tenda e sedette nervosamente al tavolo da campo, torcendosi le
mani senza dire una parola.
Per
qualche strano motivo, Emir non fece alcun gesto per manifestargli
d'essere ancora sveglio nell'immobile notte equatoriale, colla pelle
madida di sudore e le orecchie echeggianti dell'eterno ronzio delle
zanzare. Sapeva che avrebbe dovuto sollevarsi sul letto e domandargli
che cosa ci facesse lì, se fosse successo qualcosa di grave
o se
avesse bisogno di qualcosa... eppure, aspettò ancora,
immobile sulla
branda col capo rivolto dall'altro lato. C'era qualcosa, nel contegno
nervoso di Valérien, che gli suggeriva che ci fosse qualcosa
d'importante e vergognoso che doveva dirgli, e non gli parve
opportuno mettergli fretta. Non si mosse.
«Sei
sveglio?»
«Ehi»
rispose Emir dopo qualche secondo. Si rigirò nella branda.
«Dimmi.»
«È
successa una cosa» si affrettò a dire
Valérien, con un’ansia di
confessione molto simile al sollievo.
Sollevandosi
faticosamente a sedere sul letto, sotto la pesante zanzariera che
avrebbe dovuto garantirgli il sonno, ma che a lui sembrava soltanto
volerlo soffocare, Emir si strofinò più e
più volte gli occhi e
borbottò: «Ti ascolto.»
Come
se non avesse atteso proprio nient’altro sin da quando era
entrato
nella sua tenda, Valérien disse tutto d’un fiato:
«Credo di aver
trovato un Pokémon nella foresta. Devi venire con me a
vederlo.»
Se
Emir era stato assonnato e confuso fino ad allora, il sonno lo
abbandonò bruscamente. Aguzzò gli occhi nel buio,
cercando
d’infliggere lo sguardo nel volto di Valérien
anche attraverso la
notte, e disse ad alta voce: «Che cosa avresti trovato e
dove?»
Valérien
scosse la testa. «Non lo so. Non avevo mai visto un
Pokémon simile.
E poi, l’ho visto solo per pochi
secondi…»
«È
scappato?»
«No.
Ma era Trasformato…»
«Oh…
Valérien.» Se solo non avesse temuto di urtare i
sentimenti di
Valérien, che con tanta innocenza era venuto a infilarsi
nella sua
tenda per cercare il suo consiglio, Emir sarebbe scoppiato a ridere;
ma anche trattenendosi dal ridere di lui, non poté proprio
impedirsi
di dirgli, in tono di lieve rimprovero: «Hai visto un
Ditto!»
«Sapevo
che l’avresti detto» disse Valérien, con
voce improvvisamente
divenuta fredda e delusa, e subito Emir si pentì del tono
che aveva
usato. «So distinguere un Ditto, Emir. Devi credermi,
era…
diverso. Devi venire con me a vederlo, subito.»
Con
un sospiro profondo, Emir scivolò giù dalla
branda e cercò a
tentoni, nel buio, qualcosa di decente da mettersi. «Dove hai
detto
che l’hai trovato?»
«A
mezzo chilometro da qui, nella palude.»
Gli
salirono alle labbra tante proteste da non riuscire a dar voce a
nessuna di esse. Di fronte a una tale spudorata imprudenza
sentì che
gli mancavano le parole: Valérien era un talento della
biologia,
d’accordo, ma era uno di quei geni distratti e svagati
capacissimi
di cacciarsi alla cieca in una situazione pericolosa come quella e di
raccontarlo con la medesima naturalezza. Si sforzò di
mettere a
tacere il rimprovero che sentiva montargli nel petto e
continuò a
vestirsi. «Se veramente hai scoperto un nuovo
Pokémon, sarà il
caso di avvertire gli altri.»
«Credo
che stia male, Emir» disse Valérien. Emir
sentì che la camicia che
aveva preso gli sfuggiva dalle mani nel buio. «Ti prego,
vieni a
vedere.»
Lasciarono
il campo di corsa, arrancando nella foresta quasi a tentoni,
aiutandosi più coi loro ricordi che con la luce delle torce,
i cui
crudi raggi luminosi saettavano tra gli alberi, attirando a ogni
momento nugoli di moscerini e zanzare affamate.
L’aria
era satura persino a quell’ora del profumo dei grossi fiori
tropicali, ma l’odore si attenuò a poco a poco a
misura che essi
si allontanavano dal cuore della foresta e si avvicinavano alla vasta
zona paludosa che finiva per perdersi, quasi insensibilmente, nel
letto del fiume. Ma per quanto greve e pesante fosse il profumo dei
fiori, l’odore marcescente della vegetazione che imputridiva
nel
fango era incomparabilmente più penetrante, ed Emir
pensò di non
aver mai detestato Valérien tanto quanto in quel momento.
Il
suo cuore sobbalzò quando il raggio della torcia
incontrò la prima
turgida infiorescenza maleodorante.
«Valérien,
diavolo! È il nido dei Gloom!»
Avevano
esplorato e mappato quella zona, popolata interamente da Gloom e da
qualche raro e robusto Vileplume, appena il giorno prima, e
l’avevano
reputato fin da subito un luogo di scarso interesse. Se fosse stato
giorno, Emir non dubitava che si sarebbe accorto fin
dall’inizio
della direzione che avevano preso; ma era notte, ed egli non dormiva
in pratica da quaranta ore. Era probabilmente più arrabbiato
con sé
stesso per non essersene accorto che con Valérien per averlo
portato
lì; eppure lo aggredì egualmente, spegnendo con
rabbia la sua
torcia per evitare di disturbare i placidi Gloom addormentati.
«Sei
venuto qui da solo, in piena notte, in un nido di Pokémon
velenosi!
Hai idea di cosa ti sarebbe potuto capitare?»
«Stanno
dormendo!» si difese Valérien.
«Non
avevi neppure un Pokémon per difenderti!»
sbottò Emir, ma ormai
più per dar sfogo alla sua rabbia che perché
quella conversazione
potesse portarli da qualche parte. Valérien era fatto
così, svagato
e distratto e assolutamente irresponsabile, e per quale motivo egli
l’aveva scelto per partecipare a quella spedizione?
L’odore
di carne putrefatta che i Gloom emanavano era troppo intenso e
asfissiante per continuare a discutere sterilmente per il puro gusto
di farlo. Imprecando ancora dentro di sé, Emir si
frugò più volte
nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto per coprirsi il viso e
ordinò: «Andiamo, dai. Visto che siamo arrivati
fin qui, tanto vale
cercare questo Pokémon misterioso e vedere se possiamo fare
qualcosa
per aiutarlo.» Anche
se è
sicuramente un Ditto, ma
questo, incidentalmente, rimase non detto.
«È
qua vicino. Vedi quell’albero caduto?»
Il
fascio luminoso della sua torcia incontrò nel buio la
possenza
immane di un tronco abbattuto che si stendeva nel fango, attorno al
quale una schiera di Gloom aveva trovato riparo per la notte. La
strada, fino a quel punto, sembrava sicura e piuttosto breve: valeva
la pena avvicinarvisi al buio, per ridurre al minimo il rischio di
svegliare i Pokémon addormentati. Non si trattava di
Pokémon
aggressivi, ma spaventarli sarebbe stato troppo semplice: col loro
veleno e il loro soprannumero, quanto tempo avrebbero impiegato a
sopraffarli?
Riaccesero
la torcia solo quando furono così vicino
all’albero da non poter
muovere ancora un solo passo senza rischiare di travolgere i Gloom, e
l’odore era divenuto tanto penetrante da far lacrimare loro
gli
occhi. A un tratto Valérien gli tirò
silenziosamente un braccio,
senza emettere un suono, e gi indicò un punto in cui le
enormi
radici, grottescamente essiccate, si protendevano come silenti
richiami verso il cuore della. Anche lì dormivano dei Gloom,
ma in
numero decisamente scarno: non potevano essere più di cinque
o sei,
e questo rapido calcolo lo rassicurò.
«È
qui» mormorò Valérien, cercando di
schermare in parte la luce
della torcia. «Lo vedi?»
Tutto
ciò che Emirvide, guardando nel disco di luce che si
allargava al
suolo, fu un Gloom addormentato con la faccia rivolta verso il
tronco.
La
rabbia gli montò dentro come una vampata.
«Valérien…»
«Guarda!»
lo implorò Valérien.
Quando
Emir tornò a chinare gli occhi sul tronco, al posto del
Gloom c’era
un Pokémon mai visto prima.
Aveva
un corpo roseo e sinuoso, della grandezza di quello di un bambino, ma
immensamente più fragile, e mostruosamente bello, con zampe
affusolate e una coda molto lunga, sottile, in quel momento
acciambellata sotto di lui. Aveva occhi enormi e spalancati, che
splendevano più azzurri del cielo nel raggio della torcia,
con le
pupille innaturalmente dilatate dalla luce e dal dolore. Eppure, per
quanto Emir si fosse bloccato d’istinto, trattenendo il
respiro e
impedendo a sé stesso di compiere anche il minimo movimento
per non
spaventarlo, dopo qualche istante si rese conto che non aveva affatto
paura.
Il
Pokémon aveva il volto scavato dalla sofferenza e il petto
che si
muoveva a brevi intervalli rapidi e ravvicinati, affannati; ma quando
Emir si chinò in avanti, protendendo le mani verso di lui, e
gli
toccò cautamente il ventre colla punta delle dita, esso non
si
ritrasse, non si spaventò, non fece niente. Rimase
perfettamente
immobile e calmo, come un Pokémon che fosse abituato al
contatto con
l’uomo già da molto tempo, e attese con gli occhi
spalancati come
fanali, ma tranquilli e attenti, e il cuore che batteva fortissimo.
Il
suo pelo era madido di fango e di sudore, la sua pelle bruciava di
febbre; ma quando Emir ritrasse le dita e le accostò a
sé,
affannandosi a cercare una causa visibile, si rese conto che non
erano incrostate solo di fango.
Il
Pokémon che aveva di fronte era ferito, e la ferita puzzava.
Stesero
il Pokémon sul tavolo da campo della sua tenda, sopra uno
dei teli
sterilizzati che sarebbero dovuti servire a imballare i campioni
fossili che la spedizione stava cercando. L’avevano
trasportato fin
lì, arrancando al buio nella foresta, senza provocare
neppure un
gemito nel loro piccolo paziente; ma ora che erano riusciti a
trascinarlo fin lì, a che cosa era servito?
Ciò
che di quella ferita lo spaventava era che sembrava avvelenata, ed
era gonfia di un pus verde e maleodorante dal quale egli si sentiva
nauseato.
Il
dottor Emir Fuji aveva un dottorato in ingegneria genetica, non era
un medico o un chirurgo di specializzazione; nella sua tenda, come
tutti i suoi colleghi, egli aveva una cassetta di pronto soccorso e
tutta una serie di antidoti, ma in quel momento avrebbe potuto avere
a disposizione anche una scatola di aghi e bottoni. Di fronte a una
ferita di tale entità, c’era una sola persona in
tutta l’equipe
di cui egli poteva fidarsi.
Senza
neppure voltarsi verso Valérien, mentre cercava di lavare
via sangue
e sporcizia dalla pelle del Pokémon, Emir disse sordamente:
«Va’
a chiamare Rotwang1,
Valérien.»
«Rotwang?»
La voce di Valérien vacillava d’incertezza in
attesa di una
conferma. «Ma Emir, è tardi…»
Fu
solo all’udire il tremore della sua voce che Emir
realizzò per la
prima volta che Valérien sarebbe dovuto andare prima da
Rotwang,
quella notte, e che non ci era andato perché ne era
terrorizzato.
Possibile che quel dannato tedesco fosse in grado di spaventarlo a
tal punto?
«Valérien,
non è il momento di discutere! Vacci e basta.»
Dopo
un lungo istante di esitazione, tentennando in mezzo alla sua tenda,
Valérien mormorò con voce spezzata:
«Emir, ti prego…»
Con
un’imprecazione terribile, Emir lo spinse da parte e si
precipitò
fuori dalla tenda.
Era
mai possibile che Rotwang fosse in grado di spaventarlo tanto? Certo,
era ovvio che si sarebbe infuriato e li avrebbe mandati al diavolo;
ma chi si credeva di essere? Era un chirurgo, va bene; un bravo
chirurgo, ma poi? Il capo della spedizione era lui, il direttore del
laboratorio era lui: possibile che persino in una situazione
d’emergenza come quella il solo pensiero di Rotwang potesse
paralizzare a tal punto un professionista come Valérien?
Emir
percorse l'accampamento silenzioso e furente come una folata di
vento. Non avrebbe neppure saputo dire per quale motivo, esattamente,
fosse tanto arrabbiato – perché
Valérien aveva avuto paura? O
forse perché piuttosto (ma questo mai egli l'avrebbe
ammesso,
neppure di fronte a sé stesso) perché, per un
breve istante, subito
prima di dare l’ordine di chiamarlo, era stato lui ad aver
paura?
Non
del tutto casualmente, la tenda di Rotwang era la più
lontana dalla
sua. Non ne proveniva la minima luce, e una piccola parte di lui
provò imbarazzo al pensiero di svegliare così
bruscamente qualcuno
che dormiva. Era un pensiero che avrebbe provato in ogni momento, nei
confronti di chiunque – un semplice residuato della buona
educazione impartitagli da sua madre, forse – eppure
quell'unica
esitazione gli diede una fitta di rabbia atroce quando si accorse di
averla provata proprio nei confronti di Rotwang.
A
causa del caldo soffocante della giungla, l'entrata della tenda era
coperta solo da una zanzariera. Emir la strappò quasi via
per la
rabbia e d'improvviso, senza accorgersene, fu dentro.
«Alzati,
Rotwang! Abbiamo bisogno di te.»
Così
com'era ora, in piena notte e nel buio più completo, non
poteva
vedere niente. Ma ebbe la certezza che Rotwang c'era, e che era stato
beatamente addormentato fino a un attimo prima, quando da qualche
parte nel buio di fronte a lui vi furono un sussulto e un grido
soffocato, e in un fruscio di lenzuola arrotolate, sovrastando il
cigolìo della branda arrugginita, il pesante accento tedesco
di
Rotwang ringhiò: «Che cazzo fai, Fuji?»
Rotwang
era lo straniero più maledettamente sboccato che Emir
conoscesse, e
lo era solo con lui: per tutti gli anni che avevano lavorato assieme,
egli non gli aveva mai sentito dire una parolaccia o una
volgarità
che non fosse più o meno direttamene rivolta o riferita a
lui. Per
tutto il resto del tempo, con chiunque altro egli lo avesse sentito
parlare, Rotwang manteneva scrupolosamente il comportamento del
tedesco freddo e sbrigativo, rude ma sostanzialmente corretto che
tanto doveva essere piaciuto alla Silph SpA quando gli avevano
segnalato il suo curriculum con tante raccomandazioni. Emir lo
trovava un atteggiamento ridicolo e puerile, e questo atteggiamento
glielo faceva odiare ancora di più.
«Alzati,
Rotwang! Abbiamo un Pokémon ferito. Sembra grave.
C'è bisogno di te
immediatamente.»
Non
vi furono altri movimenti o scricchiolii provenienti dal buio.
«Dagli
della morfina e lasciami dormire. Sono un chirurgo. Che cosa
pretendi, che venga ad aprirlo in queste condizioni?»
Quella
risposta avrebbe fatto impazzire anche un uomo meno agitato di lui.
«Alzati o ti licenzio, Rotwang. Sai che posso
farlo.»
La
branda scricchiolò. Quel bastardo era tornato a stendersi?
«Okay, Fuji...
licenziami. Secondo te
col materiale che mi hanno dato che diamine dovrei fare? Posso
intontirlo di morfina e cauterizzare la ferita col fuoco, se qualcuno
di voi ha un accendino. Ah, e forse ho del cortisone da qualche
parte. Senti, perché non scrivi alla Silph di assumere un
guaritore
al posto mio? Uno di quelli che guariscono imponendo le mani.
Buonanotte, Fuji.»
Della
questione del materiale, Rotwang si era lamentato ininterrottamente
per mesi, forse per anni, da quando erano arrivati i primi
consistenti tagli al progetto. Ne aveva sempre dato la colpa a lui, e
per quanto Emir avesse in tutti i modi cercato di dimostrargli che
non era vero, telefonando in sua presenza a Zafferanopoli e anche
scagliandogli fisicamente addosso tutta la documentazione, Rotwang
non gli aveva mai dato retta, forse perché era troppo comodo
per lui
considerarlo allo stesso pari dei dirigenti della Silph.
«C'è
bisogno di te adesso»
insisté Emir, senza accennare a tirarsi indietro di un
passo. «C'è
un sacco di sangue di là. Vieni almeno a dargli
un'occhiata.»
Per
un po' di tempo, Emir non udì più niente, ma
finalmente Rotwang
disse: «Ormai mi hai svegliato. Vengo, ma voglio gli
straordinari in
orario notturno, e mi aiuti a portare la cassa del materiale.»
Era
fatta. Ma per quale motivo Emir aveva avuto tanta paura di Rotwang,
poi? Era insopportabile, certo, e presuntuoso; ma era un medico per
vocazione, malgrado le sue continue frecciatine sullo stipendio, e
non avrebbe mai lasciato un Pokémon in
difficoltà. Era stato
stupido da parte sua aver tanta paura.
Sentì
qualche altro sonoro cigolìo di vecchie molle arrugginite
nell'angolo, poi Rotwang, che si era guardato bene dall'avvertirlo,
accese una lampada da tavolo che lo abbagliò. Il medico
scoppiò a
ridere quando lo sentì imprecare.
«Attento
agli occhi, eh, Fuji?»
Pensando
al Pokémon che agonizzava sul suo tavolo, Emir si trattenne
dal
dirgli in termini molto chiari cosa pensasse del suo atteggiamento.
«Va bene, andiamo, andiamo... stiamo perdendo
tempo.»
«Va
bene, allora... aggiornami.»
Finalmente
quello che parlava con lui era il dottor
Rotwang, il medico di fama mondiale che la Silph aveva fatto di tutto
per accaparrarsi, e non senza motivo.
Quando
i suoi occhi smisero di vedere ovunque macchie colorate, Rotwang era
in piedi davanti a lui, a torso nudo, a cercare da qualche parte
nella tenda i suoi scarponi da escursione, coi lunghi capelli biondi
che gli ricadevano in continuazione sugli occhi via via che cercava
di spostarli. Non l'aveva mai visto a torso nudo: aveva l'aspetto
arrossato e insalubre dei nordeuropei, e la sua pelle odorava di
chissà quale pomata antizanzare.
Per
accelerare i tempi, Emir si affrettò a passargli una camicia
che era
stata abbandonata senza troppa grazia sul tavolo da campo.
«Non ne
so molto neanch'io. L'ha trovato Valérien nella palude,
mezz'ora
fa...»
«Il
Pokémon, cazzo, Fuji, il Pokémon! Che idea devo
farmi se non mi
dici che Pokémon è?» sbottò
Rotwang alzandosi e afferrando con
rabbia la camicia che gli porgeva.
«Non
lo sappiamo che Pokémon è, Rotwang!»
esclamò Emir esasperato. «Se
ti decidessi a venire, lo vedresti coi tuoi occhi. È un
Pokémon
che non ho mai visto, sei contento adesso?»
Rotwang
aggrottò un lungo sopracciglio nero e arcuato, come se si
sforzasse
di non mostrarsi impressionato di fronte a lui. «Ehi, stai
calmo,
Fuji. Che pretendevi, che venissi nudo? Aiutami a portare il
materiale e andiamo.»
Se
avesse dovuto attendere un solo minuto di più, Emir sentiva
che
avrebbe urlato. Ma quest'ultima risoluzione giunse per lui come una
liberazione: dalla penombra della tenda Rotwang fece riemergere la
pesante cassa del materiale della cui inadeguatezza si era tanto
lamentato, e finalmente poterono uscire: là fuori,
all'esterno, la
sua tenda illuminata dall'interno spiccava in mezzo all'accampamento
come una fiaccola.
Trovarono
Valérien in piedi accanto al tavolo a comprimere la ferita,
col
volto sbiancato e pieno di panico; ma non appena entrato, prima
ancora di scaricare a terra la cassa del materiale, fu Rotwang a
prendere il controllo della situazione.
«Spostati,
Lestournelle, devo vedere che cosa devo fare. Voi due aprite la
cassa, mentre io... porca puttana.»
Disteso
sul tavolo, il Pokémon continuava a respirare lentamente,
con brevi
respiri stentati, affannosi, come se anche il minimo movimento del
petto gli cagionasse un dolore atroce, e scrutava tutti loro con
occhi enormi e dilatati dalla sofferenza, eppure ancora immensamente
tranquilli. Non sembrava affatto spaventato dalle loro presenze
angosciate, o confuso, o... al di là del dolore, sembrava
paurosamente calmo, come se sapesse che, da parte loro, non aveva da
aspettarsi alcuna minaccia, ma come se neppure la ferita e il dolore
e l'infezione lo preoccupassero minimamente. Era calmo e forse un
poco triste, e niente di più.
«Merda!»
sbottò Rotwang appoggiandosi pesantemente al tavolo, come se
a
malapena le gambe lo reggessero in piedi; ma neppure a quel gesto la
creatura parve spaventata da lui. Egli aveva scostato la garza con
cui Valérien aveva tamponato fino ad allora la ferita, e
aveva
visto. Emir sapeva quale rapido ragionamento avesse formulato in
quegli istanti il suo cervello, per averlo formulato lui stesso
appena pochi minuti prima: quell'odore... «Dove l'avete
trovato?»
«Al
covo dei Gloom» rispose Valérien lugubremente. Il
nome di quel
Pokémon bastava da solo a confermare l’ipotesi che
quella ferita e
quell’odore suggerivano.
«Perché
non mi hai detto che è avvelenata, Fuji?»
gridò
Rotwang senza neppure
voltarsi verso di lui. Emir non l’aveva sentito mai tanto
arrabbiato.
Cercò
di giustificarsi. «Non ero sicuro di che tipo di ferita
fosse, non
avevo mai visto una…»
«Ma
qualche film lo avrai visto anche tu, oppure no?» lo
interruppe
Rotwang, tornando a comprimere con rabbia la ferita.
«Lestournelle,
ci sono degli strumenti sottovuoto nella mia cassa,
preparameli…
gli avete dato qualcosa?»
Senza
attendere risposta, cominciò a sfilarsi la giacca che si era
gettato
addosso e indicò con un cenno, senza neppure badare che
qualcuno in
quel momento lo stesse davvero guardando, la lampada da campo che
rischiarava la tenda. Senza scomporsi, Emir si affrettò ad
avvicinargliela. In quel momento era il chirurgo a dare ordini nella
sua tenda, ed era del chirurgo ch’egli aveva bisogno.
Faticò
qualche istante a ricordare le parole di Rotwang.
«Io… no. No, non
gli abbiamo dato niente. Ho solo lavato la ferita, per quel poco
che…»
«Lo
vedo» disse Rotwang a bassa voce, guardandolo nella bassa
luce
abbagliante della lampada. Emir pensò di non averlo mai
visto tanto
preoccupato. «Fuji, tu sai fare un’iniezione di
morfina in vena?»
Almeno
di quello era capace. All’interno della cassa tutto era
stipato in
un ordine miracoloso: mentre Valérien sistemava tutti gli
strumenti
chirurgici che aveva trovato, Emir ripescò senza troppo
cercare una
siringa sterilizzata e una fiala di morfina e si precipitò
di nuovo
accanto al tavolo.
Rotwang
stava borbottando qualcosa in tedesco quando gli fu vicino.
«Hai i
guanti? Bravo, molto bene. Ora ti facciamo dormire,
d’accordo?»
disse rivolto al Pokémon, che non aveva l’aria di
capire granché
la sua lingua, ma ricambiò comunque il suo sguardo con
grande
dolcezza. Era mirabilmente bello.
Mentre
trafficava intorno alla fiala per aprirla, Emir si schiarì
la voce.
«Pensi che…»
«È
merda, Fuji» tagliò corto Rotwang con voce roca.
«Non ti aspettare
niente. Se fosse altrove, amputerei. Ma è
all’addome e vedrò
quello che posso fare coi pochi strumenti che ho.»
Non
c’era altro da dire. Rotwang accarezzò con due
dita il muso del
Pokémon quando l’ago penetrò sotto la
cute: esso spalancò gli
occhi e mugolò piano, ma non accennò neppure ad
agitarsi, e parve
non avere la benché minima paura, come se provasse verso di
loro una
fiducia incondizionata e senza pari. Rotwang ne fu molto colpito.
«Ehi»
borbottò come tra sé, mentre continuava ad
accarezzarlo. «Certo
che sei un tipo tranquillo, tu. Più tardi devi dirmi come ti
chiami.»
Mew,
miagolò
il Pokémon, mentre
la morfina faceva effetto.
Morì
attorno alle undici del mattino.
Rotwang
si era affaccendato attorno al tavolo per tutta la notte, cercando di
salvarlo con quei magri mezzi che aveva, colle labbra tese e fredde e
la fronte profondamente aggrottata, sudata, e poi, attorno alle sei,
quando già i primi raggi di sole avevano cominciato a
penetrare
nella tenda e a confondersi fastidiosamente colla luce della lampada,
si era arreso, si era strappato di dossi i guanti con
un’imprecazione
terribile, e se n’era andato.
Durante
l’operazione erano arrivati anche i loro colleghi. Si erano
svegliati quando avevano sentito l’unico disperato grido che
Mew
avesse emesso quella notte, ed erano accorsi; non avevano fatto molto
rumore, e Rotwang neppure si era voltato a guardarli.
Valérien aveva
riassunto loro l’accaduto, ma quasi a cenni, parlando a
malapena
per evitare di disturbare il chirurgo che agiva, ed essi allora erano
rimasti in piedi, attoniti nella tenda, ad aspettare e a fissare con
occhi increduli il Pokémon che languiva sotto i ferri.
Quando
Rotwang se n’era andato bestemmiando, rendendo anche troppo
chiaro
a tutti che non c’era mai
stata
alcuna speranza, nessuno
aveva detto niente. Emir si era limitato a voltarsi, e nei loro occhi
spauriti, nelle loro bocche stanche aveva vista riflesso il suo
proprio volto.
Non
c’era stato altro da dire. Erano rimasti tutti là
dentro,
nonostante non ci fosse più nulla che potessero fare e
l’aria
della tenda divenisse via via sempre più irrespirabile e
soffocante
a misura che il sole si levava. Si erano limitati a ciondolare
nervosamente attorno al tavolo, chinandosi di tanto in tanto a
osservare quei grandi occhi sofferenti eppure ancora disperatamente
lucidi e calmi, e a non guardarsi mai gli uni con gli altri.
Alla
fine, uno alla volta, se n’erano andati. Vincent era stato il
primo: era sgusciato via in silenzio, con le guance esangui e
l’aria
di qualcuno che potesse svenire da un momento all’altro,
mormorando
qualcosa sull’andare a cercare Rotwang. Portia
l’aveva seguito
poco dopo, senza neppure cercare d’inventare una patetica
scusa,
passando le mani sulle loro spalle come a dar loro forza.
Alle
otto del mattino erano rimasti solo lui e Valérien accanto
al
tavolo, e il Pokémon ancora non accennava a chiudere gli
occhi e a
riposare un poco. Guardava dritto verso di loro, ma nei suoi grandi
occhi sofferenti Emir non aveva scorto altro, al di là del
dolore,
che una grande ineffabile pace, come s’esso sapesse
perfettamente
di doversi trovare lì, in quella tenda angusta, a morire. La
sua
pace lo sconvolgeva oltre ogni dire.
«Vai
a dormire un po’, Valérien» aveva detto
a un certo punto, senza
guardarlo. «Non hai chiuso occhio per tutta la notte, e
poi… non
serve che restiamo entrambi. Hai sentito Rotwang. Non possiamo fare
altro.»
Valérien
non si era mosso.
«Davvero,
vai. Ti chiamo io se… insomma, se fossimo nella tua tenda,
io
tornerei a dormire. Dico davvero.»
«Fa
troppo caldo per dormire» aveva mormorato
Valérien, con l’aria di
voler porre freno alla conversazione, ed Emir alla fine aveva
lasciato perdere. Valérien era poco più che un
ragazzo, ma non era
un bambino, e non ci sarebbe stato modo di convincerlo.
Finalmente,
poco dopo le nove, il Pokémon aveva perso conoscenza, e
infine morì
attorno alle undici, serenamente e senza altre sofferenze superflue,
ed essi rimasero soli.
«È
finita» disse Valérien dopo un po’. Emir
avrebbe voluto poter
sentire sollievo nella sua voce, la consapevolezza di aver fatto
tutto quello che potevano, che quella morte doveva esser
destino…
ma di sollievo non ce n’era.
Dopo
un tempo indefinibilmente lungo da quando il petto di quel
Pokémon
si era alzato per l’ultima volta e poi non si era
più abbassato,
Emir fu il primo ad alzarsi. Non ne poteva più di star
seduto, non
disse neppure nulla. Uscì dalla tenda quasi senza
accorgersene.
Pensò
per un attimo di allontanarsi dal campo, di tornare nella giungla,
anche così, da solo, e cercare di nuovo il nido dei Gloom, e
là
fare qualcosa, qualunque cosa… ma anche se non avesse
cambiato
idea, se non avesse saputo quanto vano e privo di significato e anche
profondamente stupido questo sarebbe stato, sentiva già
anche troppo
bene che le sue gambe stanche non sarebbero state in grado di
portarcelo. Ma nella sua tenda, accanto a quel corpo minuscolo e
immobile che giaceva in piena vista, là dentro Emir non ci
poteva
stare.
Eppure
perché era tanto sconvolto? Quello che era morto era solo un
Pokémon, un Pokémon raro, certo, e mirabilmente
bello: ma come
erano riusciti a trovare lui, ne avrebbero trovati altri esemplari, a
furia di cercare… ma se lo sapeva perfettamente che non era
per
aver perso quella possibilità che era sconvolto! Ma se non
era per
quello, che senso aveva? Forse che non aveva appreso già
abbastanza
bene, in tutti quegli anni in cui aveva lavorato per la Silph, che
era naturale che i Pokémon morissero?
Se
non avesse mai visto quel che aveva visto quella notte, non sarebbe
andato a trovare Rotwang. Ma per quanto quell’uomo lo odiasse
e lo
disprezzasse, quella notte si era vestito e lo aveva seguito, ed era
rimasto per ore a cercare di salvare quel Pokémon moribondo
che lui
e Valérien gli avevano portato, e ora Emir voleva parlargli.
Per
quanto a quell’ora del mattino fosse ancora in ombra,
l’interno
della tenda era già soffocante. Quando Emir si
affacciò cautamente
sulla soglia e guardò dentro, Rotwang era là, a
scartabellare
nervosamente in un grosso libro gettato sul tavolo. Si era tolto la
camicia, forse per il caldo o forse per cercare di rimuovere ogni
residuo di quella notte, ma non si era fatto la barba, e i capelli
gli ricadevano sulle spalle e sugli occhi a ogni suo movimento
rabbioso. Emir dubitava che avesse realmente qualcosa da cercare
là
in mezzo.
Senza
osare di avvicinarsi troppo a lui, Emir mormorò:
«Ehi…»
Rotwang
non si voltò verso di lui, ma egli non dubitò che
lo avesse sentito
dal movimento rigido che ebbero le sue scapole al di sotto della
canottiera sportiva. Non reagì.
«Volevo
solo…»
«L’hai
fatto apposta, vero?» domandò Rotwang senza
guardarlo.
Di
tutte le parole d’accusa che avrebbe potuto rivolgergli,
decisamente questa Emir proprio non se l’aspettava.
«Che
cos’è che avrei fatto apposta, Rotwang?»
domandò stancamente,
appoggiandosi con la mano a una scansia di metallo che conteneva gli
oggetti da lavoro del medico. «Non l’ho trovato
neppure io quel
Pokémon, i meriti della scoperta vanno tutti a
Valérien, perciò se
vuoi accusarmi di…»
«Oh,
non di questo, no» sbottò Rotwang, voltandosi
seccamente verso di
lui. Era mortalmente pallido, ma l’ardore dei suoi occhi
infuocati,
in modo del tutto irrazionale, gli fece paura. «La tua
vanagloria,
per una volta, non c’entra niente… no, tu lo sai
cos’hai fatto,
Fuji! Tu lo sapevi che ormai per quel Pokémon non
c’erano più
speranze, non sarai un chirurgo ma sei un biologo, non un filologo!
Eppure me lo hai messo lo stesso sotto i ferri, anche se in fin dei
conti lo sapevi che non valeva neppure la pena di spostarlo, che
sarebbe stato più pietoso lasciarlo morire dove lo avevi
trovato…»
La
requisitoria di Rotwang non era ancora finita, ed egli addirittura si
era avvicinato di un passo, lo incalzava più da vicino;
furioso
com’era, forse in quel momento non era neppure in grado di
sentirlo, eppure Emir non poté fare a meno di provare a
difendersi.
Quando tentò di parlare, la voce gli uscì di
bocca tremante e
soffocata, come s’egli ne avesse paura, eppure egli
esclamò
egualmente: «Non sapevo che stava morendo, dovevamo almeno
provare…!»
«Ma
ero io a dover provare, non è vero? Ad affondargli le mani
nella
carne e a sentirmelo morire sotto le dita... anche se persino un
bambino si sarebbe accorto che non c'era niente che potessi fare!
Eppure tu e Valérien adesso sarete quelli che hanno cercato
di
salvarlo, mentre io, invece...»
Ma
in quel preciso momento, proprio quando Rotwang stava finalmente per
scaricargli addosso che
cos'era
esattamente
ch'egli sarebbe
stato, d'ora in poi, per colpa sua, la voce acuta e sovreccitata di
Valérien lo interruppe in modo inaspettato. Da qualche
parte,
proprio in mezzo al campo, egli gridò: « Emir!
Emir, presto, vieni
a vedere!
In
circostanze normali, Rotwang si sarebbe certamente infuriato per
esser stato interrotto, anche solo involontariamente, da qualcuno
come Valérien, ed Emir era già rassegnato a
sobbarcarsi anche
questa nuova sfuriata... ma essa non venne. Quel mattino, il dottor
Rotwang doveva essere troppo estenuato, o troppo deluso e
amareggiato, per riuscire ad arrabbiarsi oer qualcosa di tanto
puerile. Al contrario, come accorgendosi di aver esagerato, o
quantomeno d'essersi scoperto un po' tropo, egli
indietreggiò d'un
passo e cercò di ricomporsi.
«Va'
dal tuo amichetto, Fuji» disse a bassa voce, con lo sguardo
diretto
altrove, come a cercar con gli occhi qualcosa d'invisibile
all'interno della tenda. «Temo che abbia un disperato bisogno
di
te.»
La
voce di Valérien suonava carica d'ansia e di preoccupazione
e
vibrante di necessità, eppure, quando istintivamente egli
fece per
uscire dalla tenda, qualcosa dentro di lui lo trattenne, e si
fermò
senza motivo. Si sentiva confuso. Balbettò: «Non
abbiamo ancora
finito di...»
Ma
quando si volse di nuovo verso di lui, Rotwang non lo stava
guardando. Aveva lo sguardo puntato precisamente
nella
sua direzione, certo, ma
i suoi occhi increduli, divenuti enormi, guardavano qualcosa che era
al di là delle sue spalle ed egli sembrava intento a
tutt'altro che
al loro litigio... ma che cos'era che stava guardando?
«Fuji...»
Ma
alle sue spalle, ebbe appena il tempo di pensare, nel fugace attimo
di tempo che il suo corpo impiegò a compiere un quarto di
giro, non
c'era che l'ingresso della tenda, e che cosa mai poteva...
Appena
al di fuori della tenda, a mezz'aria, esattamente di fronte ai suoi
occhi, fluttuava un Pokémon rosa con immani occhi azzurri.
«Mew.»
«È
una femmina» disse nervosamente Valérien dopo un
po'.
«Ti
piace proprio sottolineare l'ovvio, eh, Lestournelle?»
ribatté
Rotwang.
Erano
seduti nella sua tenda, malgrado l'aria già torrida e
soffocante del
sole levato: richiamati dalla voce di Valérien, anche Portia
e
Vincent erano accorsi alla loro volta. Nessuno dei presenti riusciva
neppure a distogliere lo sguardo dal Pokémon che stava
accovacciato
sul tavolo da campo di Rotwang, a sfogliare con le piccole zampe
affusolate il suo libro. Non era stato difficile attirarlo dentro la
tenda: dopo essere arrivata al campo del tutto autonomamente,
sembrava che gli esseri umani le fossero piaciuti molto. Alle caute
carezze di Valérien aveva reagito balzando di gioia a
mezz'aria, e
quando quegli era entrato nella tenda lo aveva seguito e si era messa
a curiosare qua e là con tutta la naturalezza del mondo.
Neppure lei
dimostrava la minima paura degli esseri umani, e in generale,
esattamente come l’altro esemplare, non dimostrava paura
affatto.
«È
venuta a cercare lui» mormorò Portia, ma
più come a voler cercare
una conferma che ad asserire qualcosa volontariamente. Rotwang le
scoccò un'occhiata contrariata, ma evitò di
scagliarsi anche contro
di lei. Di tutto il laboratorio, Portia era l'unica con la quale
avesse in genere un buon rapporto, ed evidentemente non voleva
cambiare le cose proprio quel giorno.
Lui
riposava ancora immobile nella tenda di Emir, sullo stesso tavolo da
campo sul quale era stato operato, e ben presto sarebbe stato
necessario rimuoverlo da lì, e soprattutto, inevitabilmente,
si
sarebbe dovuto analizzarlo e studiarlo... ma il solo pensare a quel
corpo che giaceva immobile e che andava sempre più
raffreddandosi lo
riempiva di nausea e di brividi di freddo, ed Emir si sforzò
di
concentrarsi sul presente e di reprimere da qualche parte in fondo
alla gola il senso di nausea che a ogni momento sentiva risalire.
«Non
possiamo farglielo vedere» disse a mezza voce.
«Dobbiamo tenerla
lontana dalla mia tenda finché non avremo rimosso...
insomma.
Immagino che fosse la sua compagna. Dobbiamo trovare un posto dove
spostare il... il...»
Rotwang
gli rivolse uno sguardo furente al di sotto delle alte sopracciglia
arcuate. Non disse nulla, ma tutto, tutto in lui pareva urlare a gran
voce di trovare il coraggio di chiamarlo per nome – il
cadavere!
Vincent
aveva l'aria di voler aggiungere qualche cosa a quello ch'egli aveva
appena detto, ma dopo un attimo di esitazione decise di lasciar
perdere. Conoscendolo, doveva aver pensato alla necessità di
eseguire un'autopsia, per determinare con certezza le cause della
morte e poter approssimare almeno una conoscenza sommaria della
fisiologia del nuovo Pokémon, ma con Rotwang in quelle
condizioni,
cogli occhi vitrei e arrossati di rabbia e di pianto, non c'era
neppure da prenderlo in considerazione, per il momento.
«Troveremo
sicuramente un posto adatto» si limitò a dire
diplomaticamente.
Di
tutti i presenti, Portia era sicuramente quella più calma e
razionale, che era poi la ragione per cui Emir aveva tanto insistito
per assumere proprio lei nel suo team di ricerca –
poiché di tutti
i membri del suo laboratorio, Portia era anche l'unica che avesse
frequentato, come lui, l'Ateneo di Azzurropoli, sia pur laureandosi
in Biofisica, ed era perciò l'unica ch'egli conoscesse da
prima
della fondazione del laboratorio.
«La
tua è stata una scoperta eccezionale, Valérien,
indipendentemente
dagli sviluppi.» Le ultime parole furono pronunciate con
tutta la
delicatezza che le era possibile, ed ella sfiorò appena un
ginocchio
di Rotwang mentre parlava; ma quegli non le manifestò il
benché
minimo segno di gratitudine o di conforto a quel gesto. Se ne stava
arroccato sulla sedia pieghevole da campo, colle gambe nervosamente
accavallate e le braccia incrociate sul petto, e i suoi occhi cupi e
arrossati non si distoglievano minimamente dai movimenti del
Pokémon
sul tavolo. «Forse dovremmo tornare alla palude dei Gloom e
controllare meglio. Se quello è l'habitat di questa specie,
potrebbe
essere l'unica occasione che abbiamo per trovare un altro
esemplare.»
In
risposta alla sua proposta, Valérien si decise finalmente a
parlare
per la prima volta da quando era arrivata la seconda esemplare del
nuovo Pokémon. Aveva le guance pallide come di cera e gli
occhi
lucidi di febbre. «Non possiamo essere certi che non ce ne
siano
altri esemplari. Per quanto ne sappiamo, potrebbero vivere in coppie
isolate e la coppia più vicina potrebbe essere dall'altra
parte
della Guyana. O in Patagonia, o nella Terra del Fuoco, o...»
«O
a un paio di chilometri da qui» lo interruppe Portia.
«Valérien,
ora tutti quanti siamo sconvolti, ma se lasciamo perdere ora ce ne
pentiremo per tutta la vita. Forse ancora non ce ne rendiamo bene
conto, ma abbiamo appena scoperto una nuova specie di
Pokémon! Vogliamo davvero preparare armi e bagagli e lasciar
perdere tutto
solo perché siamo stanchi e confusi e perché
è accaduta una
tragedia terribile che nessuno di noi avrebbe in alcun modo potuto
evitare?»
Vedendo
che nessun altro prendeva la parola, Vincent si schiarì
timidamente
la voce. «Sono d'accordo con Portia, ragazzi. La scoperta
è senza
precedenti, e inoltre... beh. Non possiamo continuare a raccogliere
dati sui fossili come se nulla fosse, ora che abbiamo trovato lei;
e la Silph non si accontenterà certo di farci tornare a
Isola
Cannella con un solo esemplare senza che proviamo neppure a trovarne
un altro in questa zona...»
Il
volto di Valérien diventava sempre più pallido e
più spaurito a
ogni parola di Vincent, ed Emir temette che fosse sul punto di
vomitare da un momento all'altro. Ma prima ch'egli avesse modo
d'intervenire e di interromperlo, Vincent riprese:
«Valérien, la
scoperta è tua. Pensa alla tua carriera. Forse ora non te ne
importa, ma lo rimpiangerai tra qualche anno. Riflettici.»
Fino
a quel momento Valérien non si era veramente
reso
conto del fatto che sì,
la scoperta era sua, a lui andava il titolo d'essersi inoltrato in
piena notte nel cuore della giungla e d'essersi imbattuto, per puro
caso, nel Pokémon più raro del mondo...
quell'improvvisa presa di
coscienza gli fece avvampare le guance di confusione, ed egli
distolse lo sguardo.
Per
un po’ nessuno sembrò aver nient'altro da dire.
A
capo della spedizione era Emir, ora toccava a lui prendere una
decisione definitiva, e tutti stavano aspettando che si esprimesse.
Sentendosi addosso le aspettative di tutti, Emir si sforzò
di
concentrarsi e di non pensare in nessun modo al piccolo corpo rosa
che giaceva a pochi metri di distanza da loro, nella sua tenda,
solo...
Da
un punto di vista strettamente razionale, Portia aveva ragione: anche
se ancora non lo avevano realizzato, con ogni probabilità
avevano
appena compiuto la scoperta più importante del secolo dopo
quella
del DNA. La morte del primo esemplare, per quanto sconvolgente e
inaspettata, non si poteva imputare a loro, ed essi avevano fatto
molto più di quel che era possibile fare in quelle
circostanza; o
almeno questo era quel che a ogni momento egli s'imponeva di
sforzarsi di credere. Era in fin dei conti naturale che i
Pokémon
morissero, ripeté con rabbia a se stesso, persino quelli che
sembravano irradiare sacralità con la sola presenza...
E
poi, c'era la Silph. Quella spedizione era costata una cifra
inimmaginabile, persino cogli abominevoli tagli di budget che
l'azienda aveva loro imposto: cercare ancora sarebbe stato
più
conveniente per l'azienda.
Il
caposaldo fondamentale della sua vita era il suo lavoro. Che
cos'avrebbe detto il signor Dale, il suo diretto superiore,
là a
Zafferanopoli, alla notizia che avevano deciso di non cercare altri
esemplari del Pokémon più raro del mondo per
proseguire la raccolta
di dati sugli habitat dei Pokémon preistorici - di cui
disponevano
ormai più o meno a sufficienza – o, peggio ancora,
per tornarsene
a Kanto?
La
nausea che non accennava a passargli premeva ancora da qualche parte
in fondo alla sua gola. Sforzandosi di ignorarla, Emir si
alzò in
piedi: tutti appuntarono all'istante gli occhi su di lui, e persino
Rotwang, che stava guardando con ostinazione la punta dei propri
stivali, gli gettò un'occhiata di sfuggita.
La
voce che uscì dalla sua gola non era realmente la sua
– quando si
doveva decidere, era la Silph a parlare per suo tramite.
«Avete ragione.
Concentreremo le
ricerche sul nido dei Gloom e le allargheremo a macchia d'olio per
cercare qualche tracia, ma penso che dovremmo cominciare da
domani.»
Percepì chiaramente che Rotwang levava gli occhi su di lui,
ma non
si voltò da quella parte. Valérien aveva l'aria
di guardarlo con
grande attenzione, ed egli cercò di concentrarsi su di lui.
«Per
oggi abbiamo già abbastanza carne al fuoco. Dobbiamo cercare
di
dormire un po', io devo telegrafare a Zafferanopoli per comunicare i
cambiamenti di programma e... e le altre cose da fare oggi.»
Gli
sguardi di sollevato assenso dei suoi colleghi lo fecero sentire un
po' meglio: l'aver preso una decisione li aveva sollevati dalla greve
necessità di decidere a loro volta. Annuendo
calorosamente, Portia gli sorrise con aria rassicurante. «Hai
fatto
la cosa giusta, Emir. Non possiamo fare nient'altro.» Persino
Valérien, per quanto ancora pallido, sembrava enormemente
rassicurato dalla sua decisione...
Alla
sua sinistra, ai margini del suo campo visivo, Rotwang
spostò la
sedia nel modo più rumoroso possibile per alzarsi in piedi.
Certo,
non che Emir si fosse mai atteso da lui il minimo segno di
approvazione, e anzi ci sarebbe stato da aspettarsi che reagisse
scontrosamente... ma quel che accadde dopo, molto rapidamente, andava
al di là di ogni sua aspettativa.
Battendo
sonoramente i tacchi, Rotwang alzò il braccio destro e
gridò:
«Heil,
mein Fürher!»
Gli
si gettarono addosso in tre per trattenerlo quando gli si
scagliò
contro. Emir non vedeva nulla, non capiva nulla: sentiva di non
riuscire ad avanzare mentre Vincent e Valérien lo tenevano
per le
braccia, vedeva di fronte a sé solo gli occhi di Rotwang e a
malapena udiva Portia, aggrappata al suo petto, che lo respingeva
gridando: «Lascialo stare, Emir, lascialo stare!»
«Chiedimi
scusa, Rotwang! Chiedimi scusa o io ti giuro che non lavorerai mai
più in tutta Kanto!»
«Lascia
stare, lascia stare, lascia stare... non vedi che occhi che
ha?»
Ma
certo che sì, Emir li vedeva i suoi occhi rossi, stralunati,
iniettati di sangue e dilatati dalla stanchezza, vedeva il suo ghigno
gonfio d'odio e la sua barba non fatta, da pazzo, ma aveva anche
orecchie per sentire, e Rotwang gli aveva appena dato del nazista!
«Chiedimi scusa!»
«Pensi
di poter dare ordini qua dentro, mein
Fürher?
Guarda che con voi
eravamo alleati solo durante la guerra!»
«Rotwang,
finiscila anche tu!» sbottò Vincent. «Se
pensi di poter dire tutto
quello che ti pare perché le cose sono andate come sono
andate,
allora...»
Ma
di questo nuovo scambio di battute Emir non vide mai la fine. Portia
e Valérien lo trascinarono fuori dalla tenda che ancora
scalciava,
immobilizzandogli le braccia dietro la schiena, mentre Vincent
restava là a inveire e a urlarsi addosso con Rotwang i
peggiori
insulti possibili, e quasi senza accorgersene egli si
ritrovò fuori,
contro un albero, a dimenarsi e a farneticare che era calmo e che non
voleva picchiare nessuno e che soltanto lo lasciassero tornare
là
dentro a discutere e a chiarire in maniera civile...
«Richard
non
è civile in qusto momento, Emir!» lo riprese
Portia, staccandosi da
lui solo quando fu ragionevolmente certa che non intendesse correre
di nuovo dentro, o che quantomento fossero abbastanza lontani dalla
tenda perché avessero modo di riprenderlo, se ci avesse
provato.
«Gli è morto un Pokémon sotto i ferri!
Come puoi pensare che sia
in sé?»
Sentendosi
ancora profondamente scosso, Emir reagì. «Io non
l'ho provocato,
Portia! L'avete visto tutti che non lo stavo neppure
guardando...»
«Voi
due vi provocate solo a starvi vicini! Pensi d'aver bisogno di dire
qualcosa per farlo infuriare?» lo rimproverò
Portia. Era tanto
esasperata da cacciarsi le mani tra i capelli spettinati, raccolti in
uno chignon precipitoso che andava ormai sciogliendosi.
«Emir,
Richard ti odia perché odia la Silph e tu sei il direttore.
Odierebbe chiunque al tuo posto.»
«No,
mi odia perché è un bastado che odia tutto il
mondo eccetto te! E
poi se le cose non gli vanno bene può sempre...
può sempre...»
Per
tutta risposta Portia si esibì in un plateale, provocatorio
battito
di mani. Emir ne rimase così attonito da ammutolire
all'istante; al
suo fianco anche Valérien, che gli aveva lasciato andare le
braccia
ma che ancora seguiva i suoi movimenti con l'aria apprensiva di
qualcuno che si aspettasse di vederlo scappare da un momento
all'altro, la scrutava come impietrito.
«Davvero
una bella mossa, Emir! Suggeriscigli di licenziarsi e lasciaci senza
un medico... coi tagli a questo progetto, chissà mai chi ci
manderebbero da Zafferanopoli al suo posto, anche ammesso che ci
manderebbero qualcuno. Vuoi compromettere tutto il progetto?»
Per
il progetto che il laboratorio stava portando avanti da quasi quattro
anni, purtroppo, Rotwang era
indispensabile.
Emir ne
avrebbe fatto a meno dannatamente volentieri, ma il progetto di
rigenerazione e clonazione di Pokémon estinti a partire dai
loro
fossili richiedeva necessariamente un medico; e Rotwang, che
possedeva due specializzazioni, era entrato a far parte dell'equipe
di laboratorio non tanto come chirurgo, per quanto fosse eccezionale,
quanto come medico genetista.
«Rotwang
è sostituibile» balbettò Emir pur di
non darle ragione.
Di
fronte alla plateale falsità di quell'affermazione, le
labbra di
Portia si strinsero nervosamente. «Ah, davvero?»
Naturale
che non lo era, dato che la tesi specialistica di quel dannato
tedesco era un tomo di duecento pagine su una patologia mitocondriale
che poteva aver accelerato l'estinzione dei Kabutops nel Paleozoico,
e dato che quell'uomo aveva seguito passo per passo tutti gli
sviluppi del progetto... assieme a lui, Rotwang era forse l'unico
altro al mondo a conoscere realmente
a menadito tutti gli aspetti dei loro esperimenti...
Nonostante
ciò, disposto a negare qualsiasi evidenza che gli capitasse
davanti,
Emir s'impettì e rispose: «Certo che lo
è.»
«Emir,
ti prego, non esagerare» mormorò timidamente
Valérien.
«Pensala
come vuoi, Emir» disse infine Portia. Non sembrava in grado
di
sostenere oltre quella conversazione. «Il direttore sei tu.
Se pensi
che Rotwang ti abbia offeso in modo insormontabile, prendi pure i
provvedimenti che devi... ma ricordati degli ultimi tagli, e
soprattutto ricordati che gli è appena morto un paziente.
Cerca di
pensare a come ti saresti sentito tu se avessi dovuto mettergli le
mani addosso, pur sapendo di non avere gli strumenti per
farlo...»
Il
tremendo rumore metallico dei ferri gli riempì i pensieri in
modo
assordante. Dell'operazione vera e propria egli non aveva visto
più
o meno niente, era rimasto dietro le spalle di Rotwang a passargli i
ferri via via che quegli glieli richiedeva e aveva spostato un paio
di volte la lampada, a seconda della zona da illuminare – ma
quel
rumore tremendo che era come lo sferruzzare di ferri da calza su
carni vive era bastato da solo a colmarlo di brividi di freddo.
Certo, Rotwang le mani addosso aveva dovuto mettergliele da solo, e
da solo aveva dovuto fronteggiare le carni marcescenti di quel
Pokémon mirabilmente bello che gli si era affidato con la
fiducia
incrollabile e incondizionata di un bambino...
Che
Portia avesse o meno percepito la sua esitazione, ebbe almeno la
compassione di non fargliela pesare. Quando parlò, la sua
voce suonò
molto dolce. «Dovreste riposarvi un po' adesso, tutti e due.
Dovreste dormire almeno un paio d'ore.»
«Non
posso tornare di là» disse meccanicamente Emir.
«Forse
dovremmo prima sistemare...» balbettò
simultaneamente Valérien. Lo
spettro di quel piccolo Pokémon morto aleggiava ancora non
detto.
Portia
non si dimostrò disposta a trattare. «Ce ne
occuperemo io e
Vincent. Voi due avete già fatto più di quello
che avreste dovuto.
Valérien, anche tu, dico davvero... sembri febbricitante.
Devi
dormire anche tu.»
Per
quanto fosse egoista e meschino, il pensiero di non dover toccare
quel corpo lo fece sentire assurdamente sollevato. Era la stessa
sensazione infantile e immatura di quand'era bambino e suo padre si
addossava qualche compito al suo posto, che si trattasse di lavare i
piatti o di risolvere qualche guaio che aveva combinato.
«Emir»
insisté Portia, con voce sorprendentemente dolce e ferma.
«La mia
tenda è ancora un po' all'ombra. Vai a stenderti
là mentre io
aspetto Vincent, ti prego.»
Il
vociare che si levava dalla tenda di Rotwang si era progressivamente
attutito: conoscendo quei due, il loro litigio doveva essere
terminato subito dopo che entrambi si erano sfogati, e ora
chissà,
forse ne stavano discutendo pacificamente. Quei due non si odiavano
davvero, erano solo abbastanza testardi da scontrarsi e litigare e
poi rappacificarsi per ogni questione di disaccordo, e probabilmente
Vincent ne sarebbe venuto fuori ben presto.
Portia
aveva vinto. Sentendosi profondamente grato in cuor suo nei suoi
confronti, Emir si limitò a ringraziarla con lo sguardo. Non
c'era
altro da dire. Sotto la spinta inflessibile dei suoi occhi imperiosi,
sia lui che Valérien si allontanarono in silenzio.
Valérien
avrebbe voluto parlare ancora, chiedergli qualcosa, forse
inconsciamente avrebbe voluto venir rassicurato, ma in quel momento
Emir riusciva a malapena a guardarlo. Valérien si era
appoggiato a
lui sin dalla sua prima settimana a Isola Cannella, aveva guardato a
lui come a un mentore prima ancora che a un collega o a un amico, ed
Emir gli era sempre stato grato per la sua amicizia e la sua
devozione... ma ora non si sentiva in grado di confortare nessuno.
Lasciando
Valérien dietro di sé, Emir entrò
nella tenda di Portia, dove
ancora ristagnava la confusione frenetica di quella notte. La sua
branda era ancora disfatta.
Emir
vi si gettò sopra a peso morto, completamente vestito,
affondò la
faccia nel rigido cuscino scomodo sul quale ancora aleggiava il
profumo dei capelli di Portia, e chiudendo gli occhi si
sforzò
d'immaginare che fosse quello della pelle di sua madre.
Dopo
cena, non precisamente di sua volontà, andò a
trovare Rotwang.
Non
si prese troppo disturbo di avvertirlo prima di entrare. Il medico
era steso sulla sua branda, con l'aria di qualcuno che avesse un gran
bisogno di dormire e lavarsi e farsi la barba, e stava leggendo lo
stesso libro che Emir gli aveva visto sul tavolo quel giorno.
Rotwang
non distolse gli occhi dalle pagine, ma non c'erano dubbi che lo
avesse sentito entrare, e ora stava aspettando che parlasse. Emir si
schiarì la voce.
«Sono
venuto a dirti che non ce l'ho con te per quello che hai detto oggi.
Eri in un momento di forte stress e posso immaginare ciò che
ti
passava per la testa.» Non erano esattamente parole sue, ma
dal suo
punto di vista stava facendo anche troppo.
Senza
neppure degnarsi di abbassare il libro, Rotwang gli gettò
un'occhiata obliqua. «Visto che sei qui, mi dispiace che tu
abbia
pensato che volessi paragonarti a Hitler. Non era mia
intenzione.»
«Oh.»
Questo Emir proprio non se l'aspettava. Era una pallida parvenza di
scuse, quella – il massimo che ci si potesse aspettare da
Rotwang,
poi? Ma mentre egli si affannava a cercare qualcosa da rispondere a
quelle parole, l'altro proseguì: «Volevo solo
accusarti di essere
genericamente un dittatore, ma... sai com'è. Io sono
tedesco.»
Non
uccidere Rotwang, non uccidere Rotwang. Cercando
di reprimere il profondo desiderio di colpirlo il più
violentemente
possibile con la costola del libro, Emir si appoggiò al
tavolo da
campo per trattenersi e domandò molto lentamente:
«Perché volevi
accusarmi di essere un dittatore?»
Rotwang
girò provocatoriamente pagina, per quanto fosse chiaro, dal
modo in
cui si muovevano i suoi occhi, che non stava leggendo. «Lo
sai
perché.»
«Rotwang,
non c'erano alternative. Veramente pretendevi che lasciassimo quel
Pokémon a morire nella giungla solo perché non
potevamo essere
certi che potesse sopravvivere? Non hai giurato di prestare la tua
opera in qualunque circostanza o qualcosa del genere?»
«Lo
sai anche tu che non è per questo.»
Emir
stava davvero per perdere la pazienza. «Beh, se è
perché lavoro
per la Silph, mi pare che i nostri contratti si assomiglino molto.
Anche tu lavori per la Silph, nessuno ti ha obbligato. Mi odi solo
perché sono il direttore?»
Finalmente
Rotwang si degnò di mettere da parte il libro e si mise a
sedere sul
letto per guardarlo negli occhi. Erano arrossati non solo di
stanchezza, incavati, profondamente addolorati. «Ti odio
perché sei
un venduto.»
Fu
in quel momento, in cui egli cercava l'ennesima risposta da
contrapporre all'ennesima accusa, che lo sguardo gli cadde davvero
sulla copertina del libro, ed egli lesse: Anatomia
Pokémon. Rotwang non stava
leggendo per passare il tempo o per aggiornarsi, si rese conto
d'improvviso. Stava cercando di capire dove aveva sbagliato e se
c'era ancora qualcosa che avrebbe potuto fare per salvare quel
Pokémon.
Rotwang
lo stava fissando dalla branda con tutta l'aria di qualcuno che
avesse solo voglia di litigare e non vedesse l'ora di farsene offrire
l'occasione. Non è che Emir ne avesse meno voglia di lui,
per la
verità, ma d'improvviso gli parve che non ne valesse la
pena, almeno
quella volta, e che litigare richiedesse troppe energie. Per quel
giorno i suoi bollenti spiriti tedeschi avrebbero dovuto
accontentarsi del litigio con Vincent.
Sentendosi
addosso un po' meno voglia di ucciderlo di prima, Emir trasse un
sospiro profondo e disse: «Hai ragione, sono un venduto,
tutto
quello che vuoi. Comunque, senti... ero venuto a dirti che le mie
minacce di licenziarti non significavano niente. Se poi vuoi dare le
dimissioni perché non ti trovi d'accordo con la politica
aziendale,
su questo non posso pronunciarmi.»
Gli
occhi di Rotwang si fecero più sottili, forse amareggiati
perché la
sua provocazione era caduta nel vuoto. Si lasciò ricadere
pesantemente sulla branda, con aria scocciata, e tornò a
sollevare
provocatoriamente il libro davanti agli occhi. «No, Fuji,
grazie
tante. Per quanto io sappia quanto ti piacerebbe liberarti di me,
temo che sarò costretto a importi la mia presenza ancora per
qualche
tempo.»
Non
c'era niente da fare, Rotwang era quello che era. Poteva essere
abbattuto, certo, ed Emir poteva sentirsi sinceramente dispiaciuto
per lui, ma questo era quanto. Quell'uomo si stava divertendo a
prendersi gioco di lui perché lo odiava, persino in quel
momento in
cui Emir aveva cercato di mettere da parte il rancore e di tendergli
una mano pur sapendo di avere ragione.
Eppure
questa domanda proprio doveva fargliela, era più forte di
lui,
proprio sulla punta della sua lingua. Quando ormai era già
sul punto
di lasciar perdere tutto e uscire dalla tenda, questa domanda lo
trattenne: tornò indietro, si avvicinò alla
branda e chiese: «Se
sei così arrabbiato con la Silph, perché non te
ne vai?»
Rotwang
si strinse oltraggiosamente nelle spalle. «Non so. Forse
perché ho
qualcosa d'importante da fare qui.»
«Qualcosa
tipo?» Emir cominciava a spazientirsi.
«Forse
non ti riguarda, mio caro direttore.»
«Già...
forse no.»
Una
parte di lui avrebbe voluto davvero aiutare Rotwang a liberarsi di
tutto quel dolore, o almeno a urlarlo, a esprimerlo, ma sembrava non
essercene modo, forse perché non aveva sufficienti mezzi, o
sufficiente partecipazione, per superare la barriera del suo
risentimento.
Ci
aveva provato. Emir sollevò la zanzariera e uscì
dalla tenda e
lasciò che Rotwang rimanesse là dentro, a
fronteggiare da solo la
morte di quel Pokémon.
5
luglio, Guyana. Abbiamo trovato un nuovo Pokémon nel cuore
della
giungla.
Buonasera!
Ricopiare
questo capitolo è stato un parto, dato che quasi ogni scena
era
scritta in due o tre modi diversi su fogli diversi, e ho dovuto
selezionare una frase alla volta da ciascuno dei fogli. Penso di aver
capito come si sente un filologo, da questo punto di vista.
So
che le scelte che ho compiuto in questo capitolo sono state un
po’
estreme, forse inaspettate, ma spero proprio di non aver deluso le
aspettative di nessuno, e anzi mi auguro di aver suscitato un
po’
di curiosità.
Come
mio solito, desidero ringraziare infinitamente cristal_93,
KomadoriZ71 e Peppe_97_Rinaldi per le loro recensioni al prologo.
Un
bacio enorme e alla prossima!
Afaneia
1Il
nome del dottor Rotwang è ovviamente un tributo
all’omonimo
personaggio del mio film preferito, Metropolis
di Fritz Lang; anche l’aspetto fisico del dottore
è vagamente
ispirato a lui, semplicemente perché Rudolf Klein-Rogge era
un
attore meraviglioso, interprete di personaggi destinati a rimanere
nella storia del cinema, come Rotwang o il dottor Mabuse (e anche
perché ho strani gusti in fatto di uomini, ma questo
è secondario).
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