COLD
EYES
Ricordi
di un istante
Uscì
dal laboratorio di fretta, rischiando quasi di far cadere al suolo le
cianfrusaglie che reggeva a fatica tra le braccia. Un mucchio di vecchi
esperimenti, di materiali che erano stati abbandonati e appunti su
taccuini che negli anni aveva collezionato.
Si
guardò attorno, facendo quasi fatica a riconoscere gli
stessi corridoi che giorno dopo giorno aveva percorso da tempo
immemore. I soldati che di solito camminavano per quello stesso
percorso oggi stavano correndo. In braccio i fucili, intenti a gridare
a qualche compagno ordini dei superiori.
Era
il caos.
Un
paio di uomini gli sfrecciarono davanti senza nemmeno guardarlo, troppo
impegnati per notare un vecchio scienziato fermo davanti alla porta di
un laboratorio con l’aria di non sapere dove andare. Altri
tre soldati svanirono nella direzione opposta e contemporaneamente ad
essi un altro commilitone comparve gridando da dietro una porta.
Un
collega lo spintonò alle spalle, troppo spaventato per
preoccuparsi del compagno di laboratorio. D’altra parte era
lui che ancora sostava davanti alla porta. Si voltò per
osservarlo un’ultima volta, consapevole quasi per certo che
non lo avrebbe mai più rivisto. Non avrebbe mai
più rivisto nessuna di queste persone, ne aveva quasi la
certezza.
Non
riuscì a riconoscere il socio, l’uomo correva a
capo chino, stringendo a sé tutto quello che era riuscito a
salvare. Anni di ricerca scientifica stipati tutti in un vecchio
cartone che si trascinava via come se fosse qualcosa di prezioso.
Svanì
anch'egli come i soldati, lasciando a chi lo stava osservando solo
l’immagine del camice bianco che sparì dietro un
angolo in mezzo alla folla. Era spaventato, ma lo erano tutti. Anche
lui, che ancora non aveva deciso di muovere un passo dopo essere uscito
dal rifugio del vecchio laboratorio.
“Il
ragazzino sta venendo da questa parte. Dobbiamo fermarlo prima che
raggiunga il Governatore” urlò qualcuno. Una voce
indistinta ed indistinguibile che si sollevò alta sopra una
cacofonia di suoni che rimbombava per i corridoi, dando quasi
l’idea che anche l’edificio stesso volesse
partecipare al panico generale.
Quell’affermazione
sembrò generare paura nella paura, dando un senso
d’urgenza, come se ogni movimento compiuto potesse essere
l’ultimo.
Si
mosse, sapeva dove andare, qual era l'uscita più vicina. Si
voltò in quella direzione e cominciò a correre.
Il suo incedere fu reso goffo dalla fatica di trasportare i suoi averi
e le sue ossa non più nel fiore degli anni sembravano
scricchiolare ad ogni passo. Non si sarebbe fermato…
l’aveva promesso. Sarebbe tornato a casa quel giorno, in un
modo o nell’altro.
Nuove
urla si propagarono tra la folla, ma queste erano intrise di terrore e
adrenalina. L’aria che si respirava portava con sé
l'angosciante odore della polvere da sparo.
Quando
raggiunse la porta che lo avrebbe portato al cancello più
vicino si vide costretto a fermarsi. Una nube di pulviscolo si
sollevò prima che lui potesse compiere il passo decisivo
all’esterno dell’edificio, verso la salvezza.
Si
bloccò sentendo l’urlo di un soldato, mentre
questi fu sbalzato all’indietro sbattendo contro una parete
che aveva alle spalle. “Quel dannato moccioso”
mormorò l’uomo “I proiettili gli
rimbalzano addosso” commentò verso nessuno in
particolare. La manica della sua divisa cominciò a colorarsi
di rosso e il soldato si toccò il punto in cui era stato
colpito con una smorfia di dolore.
Osservando
la scena con il fiato sospeso, gli occhi dell’anziano si
scostarono poi in un punto poco più in là, dove
un gruppo di soldati era rannicchiato al riparo dietro un muro. Erano
una decina, i fucili puntati e le dita sui rispettivi grilletti che
premevano a ritmo regolare.
“Fuoco!
Continuate a sparare!” ordinò un ufficiale,
concentrando la sua attenzione su qualcosa fuori dalla prospettiva
dello scienziato che si era soffermato a guardare. Il comandante era un
uomo grande e grosso al cui cospetto i suoi soldati parevano solo
piccoli insetti. Fu l’istinto che lo fece voltare, tra un
ordine e l’altro. I suoi occhi si spostarono in direzione
della porta davanti alla quale l’uomo in camice bianco stava
osservando la scena.
I
loro occhi si incrociarono per una frazione di secondo, poi il soldato
fu sbalzato all’indietro. “No!”
urlò lo spettatore, mentre vide l’uomo ricadere
inerme al suolo. “NO!” sbraitò di nuovo,
lasciando la presa dei suoi averi che si frantumarono ai suoi piedi,
“NOOO!”. Sotto il soldato cominciò a
crearsi una chiazza di sangue che intrise la divisa marrone. Si mosse
ancora, ma solo per un breve istante.
L’anziano
cominciò a correre come mai aveva fatto in vita sua.
Incurante dei pericoli, delle urla e di altri proiettili che sembravano
rimbalzare come palline da ping pong. La sua incolumità non
era più importante.
Quando
raggiunse il soldato s’inginocchiò accanto a lui
afferrandogli il capo, “No, no, no”
mormorò poggiando la sua fronte su quella
dell’uomo morente. Lui gli tese una mano, mentre in silenzio
le sue labbra cercarono di pronunciare parole che si persero nel nulla.
Lo scienziato afferrò la mano sanguinante del soldato e la
strinse con forza.
Lo
guardò un’ultima volta, osservando il volto del
militare i cui occhi erano glaciali, di un pallido azzurro, ed in un
ultimo tentativo di aggrapparsi alla vita osservò
l’uomo inginocchiato al suo fianco. Infine, con lentezza, le
sue pupille si spensero quando la forza lo abbandonò
definitivamente.
Lo
scienziato rimase lì, immobile. Il suo camice ora diventato
rosso, il capo ancora appoggiato sulla fronte dell’uomo morto
e la mano aggrappata con forza a quella dell’ufficiale.
“Mi
dispiace, Dott. Gelo” farfugliò uno dei soldati
che nel frattempo aveva smesso di sparare.
***
Si
svegliò di soprassalto, annaspando in cerca
d’aria. Faticò a respirare per un attimo che parve
infinito. Dolorosamente, come se fosse appena riemerso dalle acque
profonde dopo un lungo periodo sotto la superficie.
Quel
ricordo aveva il brutto vizio di tornargli alla mente quando meno se lo
aspettava, quando non voleva. Approfittando della sua
vulnerabilità durante il sonno, esso si era fatto strada tra
i suoi pensieri, sapendo che da sveglio faceva sempre di tutto pur di
allontanare dalla memoria quei momenti vividi.
Si
portò una mano al volto e non fu sorpreso di scoprire di
avere il viso bagnato. Aveva pianto e stava ancora piangendo, mentre le
lacrime scendevano lente sui suoi vecchi e scarni zigomi, fermandosi
tra i folti baffi bianchi.
Era
da solo nel suo rifugio, nascosto tra le montagne del nord. Nessuno
alla quale chiedere conforto, non che lo volesse.
I
suoi occhi si scostarono su una fotografia incorniciata sul comodino
accanto al suo letto. Si soffermò ad osservarla per un
istante, poi decise di afferrarla per poterla ammirare più
da vicino.
Stava
sorridendo, in quella foto, una timida increspatura delle sue labbra
celate dai baffi che al tempo stavano cominciando a sbiancare. Accanto
a lui il soldato del Red Ribbon con indosso la sua nuova divisa da
ufficiale, la promozione risaliva a pochi giorni prima e con orgoglio
l’uomo indossava la sua uniforme. Gli era stata fatta su
misura, poiché la sua stazza era imponente. Alto con grosse
spalle larghe, il doppio rispetto allo scienziato accanto a lui
nell’immagine e che teneva stretto con una delle sue enormi
mani. Nonostante la sua grandezza e il fisico allenato, il suo viso era
gentile e nella foto un sorriso genuino gli abbelliva
l’espressione. I suoi occhi color del ghiaccio sembravano
scintillare ancora di vita, così come il giorno in cui
quella fotografia era stata scattata.
Sarebbero
potuti andare a festeggiare la promozione del soldato ovunque. Gelo gli
aveva dato la scelta e gli aveva promesso che lo avrebbe seguito senza
esitazione. Lui aveva optato per un semplice picnic a pochi chilometri
di distanza dalla base militare nella quale un giorno avrebbe esalato
l’ultimo respiro.
Il
Dott. Gelo scese dalla branda, incamminandosi a piedi scalzi verso la
scalinata che portava al piano di sotto.
Il
laboratorio era così come l’aveva lasciato, buio,
tetro e disseminato di cianfrusaglie sparse sul pavimento. Da qualche
parte nella grande stanza, un computer rimasto acceso emesse un
sommesso bip,
quasi a volergli dare il benvenuto.
Camminò
evitando vecchi scheletri di esperimenti, scartati perché
non corrispondevano alle sue esigenze. Una mano metallica, una testa
fatta di chip, una pallida armatura verde e il torso dai cavi bruciati.
Si fermò solo quando raggiunse il tavolo da lavoro. Su di
esso giaceva lo scheletro incompleto di un cyborg i cui circuiti erano
ancora scoperti.
Gelo
lo guardò, per un attimo. Solo in quel momento si rese conto
che non aveva ancora abbandonato la fotografia. L’istinto
gliel’aveva fatta stringere con forza e si era dimenticato di
riporla da dove l’aveva presa. La fissò con
l’intensità del suo dolore.
Con
uno sforzo poggiò l'istantanea sul banco da lavoro e dopo
averle dato un’ultima occhiata decise di rimettersi
all’opera.
CONTINUA…
Originariamente
doveva essere una one-shot, ma sarei stata costretta a tagliare molti
elementi della storia. Così ho optato per una
“breve long-shot”. XD
Spero
di avervi incuriosito con questo primo capitolo.
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