Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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“Avanti...” disse Rodrigo, guardando di sottecchi il figlio Jofré, cercando di convincersi lui per primo delle proprie parole: “Tuo fratello Juan è stato fuori tutta notte già altre volte... Il fatto che non sia ancora rientrato non significa nulla...”

Tuttavia, mentre diceva quelle parole, il papa non riusciva a smettere di camminare per il suo appartamento, le mani allacciate dietro la schiena e gli occhi vigili, pronti a cogliere ogni minimo movimento della porta, come aspettandosi di veder arrivare il figlio da un momento all'altro.

“Quante volte...” tossì e riprese, scuotendo la testa: “Quante volte è stato via... Mettiamo che sia a casa di qualche donna come la figlia di Antonio Maria della Mirandola... In tal caso potrebbe darsi che, sorpreso dalle luci del mattino, preferisca restar lì fino a sera per uscirne indisturbato...”

“Non è da Juan non mandare a dire che farà tardi.” si ostinò Jofré che sentiva nel cuore uno strano presentimento.

“Aspettiamo fino a sera.” prese tempo Alessandro VI, bloccandosi di colpo e guardando il figlio più giovane: “Se a sera non si vedrà...”

“Ma gli spagnoli – riprese Jofré con un filo di voce, ricordando il momento in cui si era imbattuto con il capannello di soldati che teoricamente dovevano fare continuamente da scorta a Juan – stanno già pensando di mettere al setaccio la città... La moglie di mio fratello non sopporterebbe di sapere che non stanno facendo tutto il possibile per...”

“Dovranno aspettare anche loro fino a sera!” sbottò Rodrigo, che avrebbe tanto voluto fare come gli spagnoli suggerivano: “Non saremo spettacolo senza motivo! Faremmo solo un grande fuoco di una piccola paglia!”

Jofré, che non era del tutto convinto dalla linea d'azione scelta dal padre, si ritirò in buon ordine, lasciando Rodrigo solo con le proprie paure. Anche se aveva fatto lo spavaldo, il papa sentiva dentro di sé un pungolo molto spiacevole. Era come un presentimento. Non voleva ammetterlo, ma nel profondo della sua anima, era sicuro che fosse successo qualcosa di grave.

 

Lucrecia guardò Perotto con occhi preoccupati: “Che significa che Juan non si trova?”

Pedro, che aveva appena avuto un breve colloquio con Cesare, così impegnato nelle ricerche da poter passare dal convento solo per due parole di fretta, tanto di fretta da non trovare nemmeno il tempo per un rapido saluto alla sorella – almeno, questo aveva detto per scusarsi – si massaggiò una mano con l'altra e fece un'espressione triste.

La giovane Borja si aggrappò alla cassettiera della cella che la badessa le aveva concesso. Juan non era estraneo alle notti brave in giro per Roma, ma se Cesare era arrivato al punto di volerla informare della sua sparizione, significava che c'era sotto qualcosa di grosso.

“Vi sentite bene?” chiese subito Perotto, avvicinandosi alla donna e sorreggendola.

Lasciandosi tener su dalle lunghe braccia dell'uomo che suo fratello le aveva scelto come guardia, Lucrecia annuì appena e poi chiese: “Perché mio fratello non ha voluto dirmelo di persona?”

“Ve l'ho già spiegato – fece Calderon, approfittando della loro improvvisa vicinanza per sentire l'aroma dei profumi con cui la figlia del Santo Padre era solita cospargersi la chioma e il collo al mattino – ha detto che era di fretta, perché sta cercando vostro fratello Juan...”

Lucrecia lasciò di scatto le braccia di Perotto e gli voltò la schiena, una mano sulle labbra e gli occhi pensierosi. Non era da Cesare fare così. Per lei, il tempo l'aveva sempre trovato. A maggior ragione, l'avrebbe trovato per una cosa tanto grave.

Un dubbio atroce le attraversò la mente. Pedro si accorse del suo cambiamento, vendendo le sue spalle irrigidirsi e il petto trattenere un respiro per qualche secondo di troppo.

Alla fine, come nulla fosse, Lucrecia si voltò e gli sorrise: “Sono certa che mio fratello Cesare troverà Juan e lo riporterà sano e salvo nella casa di mio padre. Volete accompagnarmi a pregare per loro?”

Calderon ebbe una breve esitazione e poi disse: “Se volete restare un momento da sola, non è un problema. Capisco la vostra apprensione. Forse preferite pregare per vostro fratello senza nessuno che vi distragga...”

La ragazza sollevò un sopracciglio: “Quando si è preoccupati, non bisognerebbe mai stare da soli, non credete? E poi, è preciso volere di mio fratello Cesare che voi mi seguiate come un'ombra. È per far felice Cesare – le ultime parole le uscirono dalle labbra quasi con astio – che vi chiedo di seguirmi anche a pregare.”

A quell'affermazione, Perotto fece un breve inchino: “Se è per ubbidire a vostro fratello Cesare, allora sono qui per questo.” e poi, in uno slancio di galanteria e sfacciataggine, porse il braccio alla Borja, già temendo di vedersi rifiutato.

Troppo distratta e confusa per far caso alle implicazioni di quel piccolo gesto, Lucrecia accettò il suo invito e si appoggiò a lui per tutta la strada, fino alla cappella.

Quando si inginocchio per pregare, gli dedicò finalmente uno sguardo un po' diverso dal solito, ma poi, come tornando in sé, seppe dire solamente: “Per favore, Pedro, pregate con me.”

Con un sospiro, il giovane le si mise accanto, piegando il capo e giungendo le mani, come stava facendo anche la sua signora. Tuttavia, mentre Lucrecia teneva gli occhi serrati e la mente rivolta a Dio e alla Madonna, le attenzioni di Calderon erano tutte per la donna che stava inginocchiata accanto a lui.

 

La sera era scesa su Roma e il papa aveva dovuto cedere alle pressioni degli spagnoli, lasciandoli liberi di setacciare, armati, tutti i vicoli e i palazzi dell'Urbe.

Era ancora insonne, quasi raggomitolato su uno scranno dalla seduta imbottita, nei suoi appartamenti, con addosso la vestaglia, il vestaglione e un cappello da notte rosso e un po' rovinato.

Si passava distrattamente l'anello piscatorio davanti alle labbra, sentendo il freddo del metallo diminuire ogni volta che vi premeva contro la propria pelle calda per qualche istante di troppo. La sua testa era un groviglio confuso di ipotesi e indizi, di finte rassicurazioni e di pessimismo.

Quando sentì battere alla porta, fu certo che si trattasse proprio di Juan. Sembravano colpi furiosi.

Forse, si disse, suo figlio era adirato con lui per averlo fatto cercare dai soldati di sua moglie Sancha.

Ebbene, se anche fosse stato così, il papa si sarebbe sorbito molto volentieri la sua sceneggiata e poi, con il cuore colmo di gioia, lo avrebbe stretto a sé come il bene più prezioso.

“Avanti!” esclamò, lasciando il suo scranno e correndo verso l'uscio con una candela in mano, in modo da poter vedere bene il volto adorato del figlio.

A entrare, però, non fu Juan, ma una delle guardie di Sancha d'Aragona: “Santo Padre...” disse, deglutendo.

Rodrigo lo fissò, alzando la candela. Il calore che lo aveva preso nell'alzarsi di scatto si stava trasformando in gelo. Quando notò sul viso del soldato qualche goccia di sangue secco, poi, si sentì sprofondare.

“Abbiamo trovato il palafreniere che dicono abbia seguito vostro figlio e il mascherato.” iniziò a dire la guardia, sondando le reazioni del papa man mano: “Lo abbiamo trovato in una strada a fondo cieco... Era ferito...”

Alessandro VI si permise di tornare a respirare al pensiero che, almeno, il sangue sul volto della guardia non era di Juan.

“Abbiamo provato a interrogarlo, ma non riusciva a parlare. È soffocato nel suo sangue dopo poco e così lo abbiamo guardato e sul suo cadavere abbiamo trovato molte ferite.” continuò il soldato, abbastanza in fretta: “Chiunque l'abbia colpito, è probabile che fosse certo di averlo ucciso sul colpo. È un miracolo, che sia sopravvissuto fino a questa sera...”

“Continuate a cercare.” disse subito il pontefice, con le mani che tremavano e la voce che si era fatta sottile: “Continuate a cercare. Cercate dappertutto. In ogni casa, in ogni taverna, in ogni fosso... Lo dovete trovare. Dovete trovare Juan...”

La guardia annuì, ma, quando provò a chiedere se il papa avesse dei suggerimenti sui posti da ispezionare per primi, si rese conto che non aveva senso provare a parlare con il Borja.

Rodrigo, infatti, sembrava impazzito di dolore, come se aver ritrovato morto il palafreniere fosse la prova che la stessa sorte fosse toccata anche al suo amatissimo Juan.

 

“Vi ringrazio, vi ringrazio...” stava ripetendo una donna anziana, scampata alla peste per puro miracolo, dato che alla sua età non era per nulla facile guarire dal morbo: “Grazie, mia signora, siete così generosa...”

Caterina le chiuse la mano sulla moneta d'oro e poi, vedendo con la coda dell'occhio Bianca e uno dei servi che uscivano dalla casa della vecchia, disse in fretta: “Usatela per quello che mi avete promesso, mi raccomando.”

La donna annuiva ancora e ringraziava di continuo, ma la Contessa la lasciò al suo destino, rivolgendosi alla figlia: “Abbiamo finito, qui?”

Dal giorno prima stavano passando tutta la città al setaccio, per spargere i profumi che lei e Bianca avevano preparato assieme nel laboratorio. Qualche ingrediente, purtroppo, mancava nella dispensa della Tigre, ma il risultato era stato passabile comunque.

“Sì, questa era l'ultima casa del quartiere.” confermò la ragazzina, asciugandosi il sudore dalla fronte con il dorso di una mano e reggendo la pesante dispensiera da cui usciva ancora del fumo con l'altra.

“Va bene... Andiamo a riposarci un po'.” propose la Contessa, accolta da un'espressione sollevata del servo, che portava in spalla due sacchi – ormai mezzi vuoti – di pane da distribuire ai sopravvissuti.

Mentre si avviavano alla rocca, Caterina venne fermata un paio di volte da sudditi che volevano ringraziarla per aver cacciato la peste da Forlì e da un paio d'altri che chiedevano quando le porte sarebbero state riaperte.

Senza indugio la donna aveva risposto che la città sarebbe tornata alla normalità 'per quanto possibile dopo certe perdite' entro due giorni.

Aveva concordato con Giovanni quella data e in fondo era certa che ormai i pericoli fossero quasi nulli, per quanto riguardava un nuovo focolaio. Ciò che la spaventava, a quel punto, era scoprire che cosa era successo oltre le mura in quelle lunghissime settimane.

Quando mancava ormai poco a trovarsi in vista di Ravaldino e della statua di Giacomo, il servo chiese di poter fare una deviazione, e la Tigre glielo permise senza fare domande, prendendo i sacchi e caricandoseli in spalla, sia per sollevare dal peso l'uomo durante quel momento di pausa, sia per timore che sparisse qualche pagnotta di troppo.

“Dovrebbe esserci tuo fratello qui...” soffiò Caterina, mentre camminava accanto alla figlia, sentendo il peso dei sacchi sulla schiena: “Si tira sempre indietro, quando c'è da fare fatica...”

Bianca non commentò, convinta che non fosse il caso di alimentare ulteriormente l'odio tra la madre e Ottaviano, ma, anzi, cercò di rabbonirla cambiando discorso: “Avete visto quanta gente è tornata ad amarvi?” sorrise, aggirando una pozzanghera e accelerando un po' per starle al passo: “Vi amano perché li avete salvati dalla peste...”

“È solo il sollievo di essere ancora vivi, che li fa parlare così.” ribatté Caterina, vedendo con sollievo il ponte avvicinarsi: “Aspetta che la città sia tornata alla normalità da un mese o due, e allora si ricorderanno solo dei parenti e degli amici morti di peste e dei guadagni mancati per colpa delle porte chiuse. E allora vedrai che torneranno a parlare male di me e mi daranno di nuovo la colpa per questa dannata epidemia.”

La ragazzina abbassò lo sguardo, un po' mortificata da come la madre aveva subito spento il suo tentativo.

La Tigre se ne rese conto, ma non aveva alcuna voglia di tornare sui suoi passi. Era convinta da tempo della volubilità del volgo ed era bene che anche sua figlia capisse che cosa significava dipendere dai favori di una massa informe come il popolo.

“Che cosa avete dato, prima, a quella donna? Quella dell'ultima casa?” chiese Bianca, come ricordandosi improvvisamente di quella scena che aveva visto solo di sfuggita.

“Una moneta d'oro.” spiegò la madre, senza aggiungere altro.

La figlia, però, era curiosa. Dopotutto, quella vecchia non era nemmeno tra le popolane che più apprezzavano sua madre, dunque perché farle un dono tanto generoso in un momento simile di crisi?

“E come mai le avete dato una moneta d'oro?” chiese Bianca, spostando il dispensiere da un braccio all'altro per alleviare un po' il dolore del muscolo contratto.

Caterina, in un primissimo momento, fu infastidita da quella domanda, ma poi, incontrando gli occhi blu della figlia, che sembravano in cerca di una verità profonda, come quelli di uno studente che si sforza di capire una nuova legge di natura, la Tigre sospirò e disse, in fretta: “Ho scoperto che quella donna aveva dovuto vendere la nipote a uno dei bordelli della città, per fame. Quella ragazzina è anche più giovane di te. Che sia finita là dentro per fame è una cosa inammissibile. Ho dato a sua nonna i soldi per riscattarla.”

“Siete stata molto generosa.” commentò Bianca, che in quel momento pensò anche alle schiave liberate che lavoravano alla rocca come donne libere.

“Tanto dubito che quella vecchia usi il denaro che le ho dato nel modo giusto...” sbuffò la Contessa, scuotendo il capo: “Scommetto che la userà per prendersi del cibo o dei vestiti nuovi per sostituire gli stracci che porta...”

“E in tal caso?” chiese la figlia, restando come sempre un po' stupita nell'atteggiamento cinico che la madre aveva nei confronti dei propri sudditi.

“In tal caso, se tra un po' saprò che non l'ha ancora riscattata, comprerò io la sua libertà e la farò venire alla rocca, come ho fatto con le schiave.” ammise la Tigre, che aveva elaborato quel piano fin da subito.

Con quella logica, se ne rendeva conto molto bene, avrebbe dovuto liberare la quasi totalità dei giovani – ragazze e ragazzi – che prestavano servizi ai lupanari di Forlì e anche di Imola. Quella, però, sarebbe stata davvero una spesa titanica e, a lungo andare, l'avrebbe anche resa molto impopolare.

“Più tardi, prima di tornare in città – disse la Sforza, mentre lei e Bianca passavano sotto al portone, affiancando le guardie – incontrerò il castellano per riempire i registri con le ultime paghe da dare ai monatti e ai medici che ho assunto. Ti va di venire anche tu?”

La giovane Riario, come sempre un po' sorpresa nel vedersi coinvolgere in quel genere di attività, rispose all'istante: “Certo, con molto piacere.”

“Bene, così avrò modo di farti capire perché è giusto pagare tanto la gente per fare lavori che non vuole fare nessuno, ma che servono a tutti.” sospirò la Contessa, che, però, si era già distratta nel vedere Giovanni che l'attendeva, affacciato alla finestra del primo piano.

Era rimasto a Ravaldino per portarsi avanti con i lavori di contabilità, ma non vedeva l'ora che la moglie tornasse e sperava che, nel pomeriggio, lo portasse con lei in città.

La Leonessa lasciò i suoi sacchi di pane a Mongardini, che era arrivato per accoglierla e chiederle come stesse procedendo la bonifica della città, e poi guardò un momento la figlia: “Allora ti aspetto tra un'ora dal castellano.”

Bianca fece un breve inchino e poi, con le braccia un po' affaticate per il peso del dispensiere portato in giro per tutta mattina, salutò la madre, che stava già andando a passo svelto verso le scale per raggiungere il Medici, dicendo: “Non tarderò.”

 

“Avanti!” fece il soldato, dando uno spintone all'uomo che aveva portato con sé: “Ripeti al Santo Padre quello che hai detto a noi.”

Alessandro VI, dopo una notte passata insonne tra i tormenti e una giornata arrivata già al pomeriggio senza che riuscisse a toccare cibo, puntava gli occhi a turno sulla guardia e su quello che gli era stato presentato come Giorgio, barcaiolo dalmata, la cui barchetta era ormeggiata sulle sponde del Tevere da qualche giorno.

“L'altra notte – cominciò a dire con un accento molto confuso il poveraccio, dal volto sporco e dai capelli increspati e lunghi – mentre cercavo di dormire sulla mia barca ho visto due tizi che si mettevano a girare lì vicino...”

Il papa, tenendo le mani strette l'una nell'altra non si diede nemmeno pena di chiedere dove fosse di preciso il 'lì' indicato dal barcaiolo, ma lo invitò a continuare.

Il cielo grigio – così scuro da indurre il Santo Padre a far accendere tutte le candele e le torce del palazzo – che incombeva su Roma oltre le ampie finestre del suo appartamento rappresentavano alla perfezione anche lo stato d'animo del pontefice. Quelle nuvole, però, non avevano ancora deciso se sciogliersi in lacrime di disperazione o accendersi in lampi di rabbia.

“Arrivavano dalla via dell'ospedale degli Schiavoni.” riprese Giorgio, accigliandosi nel ricordare e poi tossendo un paio di volte prima di riprendere, come maggior sicurezza: “Erano in due, sì, due uomini e hanno passato palmo a palmo la zona. Sono spariti un po' e poi sono tornati, per rifare la medesima cosa.”

“E questo che c'entra con...” prese a dire il papa, ma fu la guardia a chiedergli tacitamente di attendere, alzando appena una mano.

Rodrigo, normalmente, non avrebbe sopportato tanta faccia tosta da parte di un soldatucolo spagnolo, ma quella volta seguì il consiglio e si tacque.

“Poi quelli si sono fermati, come statue, sapete. Io ormai non riuscivo a dormire e così mi sono messo a vedere che succedeva – proseguì il barcaiolo, sentendosi più importante che mai, visto che perfino il papa in persona pendeva dalle sue labbra – e a quel punto è arrivato un altro uomo, che, porco mondo, non l'ho visto bene, che c'era buio, ma ci ho guardato con attenzione, sapete?”

Giorgio prese fiato e allargò un po' le braccia, prima di arrivare al momento cruciale del suo racconto, quello che aveva fatto sobbalzare le guardie che per prime lo avevano interrogato, ancora sul fiume: “Era su un cavallo bianco e dietro di sé, sulla groppa della bestia, c'aveva un cadavere, di un uomo alto, tanto che aveva due che l'aiutavano, tenendolo da un lato e dall'altro per non far scivolare giù il corpo.”

Alessandro VI sentì il cuore perdere un colpo. Guardò smarrito il soldato e poi si voltò verso il coppiere che era rimasto nella stanza per caso, quando era arrivato quel testimone.

Entrambi evitarono i suoi occhi e Rodrigo si sentì terribilmente solo e smarrito. Avrebbe voluto avere Vannozza al suo fianco...

'Non è detto che sia il corpo di Juan' si disse, mentre raddrizzava un po' le spalle e faceva segno a Giorgio di andare avanti.

“L'uomo a cavallo è andato fino alla riva, non tanto lontano dalla mia barca, sapete? Ecco, ha voltato la sua bestia e ha fatto prendere il cadavere dai due che lo aiutavano e quelli l'hanno lanciato subito nel Tevere.” spiegò il barcaiolo, arrivando addirittura a mimare il lancio con le braccia, mentre vedeva il volto largo del papa farsi cereo alla luce delle candele: “E dopo il tonfo in acqua, quello ha cavallo ha chiesto: ma l'avete gettato bene? E quelli: signor sì! Allora, mentre quello a cavallo si metteva a controllare guardando il fiume, io dalla mia barchetta ho fatto altrettanto e ho visto un largo mantello gonfio d'aria che non accennava a riempirsi d'acqua e sparire. Così quello ha ordinato che lo facessero sparire e hanno cominciato a lanciare pietre sul mantello, che alla fine per il peso è sprofondato in acqua. E poi se ne sono andati.”

“Se è vero che avete visto una cosa simile...” cominciò il papa, con un tono strano, che ai presenti parve quasi ironico: “Perché non lo siete venuto a denunciare subito? Perché avete aspettato che qualcuno vi venisse a cercare per interrogarvi? Io credo, piuttosto, che voi siate solo in cerca di dar spettacolo...”

“Dalla mia barca – ribatté Giorgio, assumendo un'espressione seria che lo fece quasi sembrare un uomo rispettabile – ho visto gettare dalla riva nel Tevere almeno un centinaio di cadaveri, da che sono a Roma. E voi che siete il padrone di Roma, lo sapete che è così, lo sapete che non passa notte senza che qualcuno venga ucciso e fatto sparire in quelle acque. Perché avrei dovuto scomodarmi, quindi? Avrei fatto meglio a dire che non aveva visto nulla...” borbottò sul finale, apparendo quasi offeso.

“Portatelo via.” ordinò alla guardia spagnola: “E fate venire qui il mio bargello.”

Portato via il barcaiolo, il soldato tornò con il bargello di Roma. Alessandro VI aveva congedato il coppiere e si era messo in un angolo, la schiena contro il muro e le labbra sporte in fuori.

Quando vide il bargello fece un sospiro profondo e ordinò: “Fate setacciare il fiume. Palmo a palmo, con le reti e i bastoni.”

“Ma, Santità...” disse il bargello, corrucciandosi: “C'è quasi buio e presto sarà notte e...”

“Non mi interessa!” urlò Alessandro VI, staccandosi dal muro e riempiendo la distanza tra sé e l'uomo in pochi passi: “Voi controllerete il Tevere da una sponda all'altra, passo dopo passo, e troverete mio f...” la voce di Rodrigo si spense all'istante, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime.

Il bargello non sapeva come gestire quel cambiamento improvviso, ma il Borja si riscosse in fretta e ululò: “Muovetevi!”

 

“Tua figlia è davvero brava coi numeri.” disse Giovanni, chiudendo un momento il libro che stava leggendo.

Anche se era già abbastanza tardi, né lui né la moglie sembravano intenzionati a chiudere occhio.

L'apertura delle porte era imminente ed entrambi, anche se per motivi in parte diversi, avevano la mente troppo impegnata, per riuscire a dormire.

Così, senza che nessuno dei due dicesse apertamente all'altro di preferire la luce accesa, per evitare ai pensieri di incupirsi troppo, sia la Sforza sia il Medici avevano preso qualcosa da leggere e si erano sistemati nel letto l'uno accanto all'altra.

Caterina chiuse il suo volumetto di poesie latine e tenne il segno con le dita, prima di concordare con il fiorentino: “Hai ragione, Bianca è sempre stata abbastanza portata per la matematica. È un peccato che preferisca altre cose...”

Giovanni appoggiò il proprio libro in terra accanto al letto e si voltò verso la moglie: “Che cosa vorresti, per lei?”

“Al momento, per lei, vorrei solo scoprire che Astorre Manfredi è morto di peste, così potrei finalmente ritenerla del tutto libera dal vincolo matrimoniale che ha con lui.” rispose la Contessa, mettendo anche lei da parte il tomo che stava leggendo.

“In tal modo, Faenza sarebbe anche senza una guida.” convenne il Popolano, puntellandosi sul gomito per guardarla meglio: “In quel caso l'attaccheresti?”

“Sempre che non ci siano già i veneziani...” premise lei, con un sospiro: “Ma tanto è inutile parlarne. Astorre Manfredi se la sarà cavata di sicuro. Castagnino l'avrà chiuso in un forziere come fosse una pietra preziosa minacciata da un saccheggio...”

“E, se così fosse, penseresti che abbia fatto male?” domandò Giovanni, leggendo nel tono usato dalla moglie qualcosa che andava oltre la disillusione politica.

Alle sue orecchie, sembrava proprio un rimprovero per un'eccesiva accortezza.

A Caterina non sfuggì la velocità con cui le sopracciglia del marito si sollevavano. Sapeva che il modo in cui lei stessa aveva permesso ai suoi figli – almeno ai più grandi – di esporsi al contagio sarebbe stato giudicato male dalla maggior parte degli altri signori italiani.

Però non trovava nemmeno giusto che il signore di uno Stato si nascondesse durante un momento del genere. I suoi figli dovevano imparare e non scappare davanti a quel genere di prove.

“Nessuno di noi ha preso la peste.” disse la Tigre, come se quella semplice verità bastasse a fare cadere tutto l'eventuale impianto accusatorio di Giovanni.

“Si ha avuto fortuna, tutto qui.” minimizzò il fiorentino, che in quel momento si stava facendo delle domande a cui aveva paura di trovare una risposta.

La condotta di Caterina era quella in quasi ogni ambito. Benché fosse evidente che volesse proteggere i suoi figli – perfino Ottaviano e Cesare – finiva sempre per esporli a qualche rischio potenzialmente letale.

Giovanni non poteva evitare di chiedersi se sua moglie avrebbe fatto così con un figlio loro.

“Non è stata solo fortuna.” lo contraddisse con un mezzo sorriso la Leonessa, cercandogli la mano e stringendola nella sua: “I miei figli non hanno preso nulla, perché hanno anche il mio sangue.”

Il Medici non avrebbe voluto, ma sentiva il bisogno di insistere, così attaccò con un'argomentazione che un po' lo fece vergognare di sé, ma che sperava potesse smuovere in qualche modo la moglie: “Anche tuo figlio Livio aveva il tuo sangue, però è morto.”

A quelle parole, Caterina lasciò la mano di Giovanni all'istante e scattò a sedere: “Livio era debole di costituzione. Lo è stato sempre, fin da quando è nato.” si morse il labbro e concluse, come a volersene addossare la colpa: “Mentre lo aspettavo, ero in guerra. Secondo il dottore, poi, avevo anche avuto un attacco di malaria e...”

“Non volevo farti male, parlando di lui.” precisò il Popolano, che si era messo seduto come lei e cercava di avvicinarsi, vedendosi però sempre respinto con dei piccoli movimenti di evitamento da parte della moglie: “Volevo solo... Sai che io potrei non vivere a lungo.”

La Leonessa stava per ribattere, ma Giovanni la fermò e chiuse il discorso: “Se Dio ci darà un figlio, vorrei essere sicuro che tu farai del tuo meglio per proteggerlo.”

Quell'affermazione ebbe il potere di sciogliere un po' la Contessa che, seppur ancora scossa dall'aver risvegliato il fantasma di Livio così all'improvviso, si rilassò e si rimise coricata.

Quando anche il marito si risistemò sotto le lenzuola, Caterina lo abbracciò e, tenendo le labbra contro il suo orecchio, sussurrò: “Se avremo un figlio, ti prometto che lotterò come un tigre, con le zanne e gli artigli, per proteggerlo in tutti i modi in cui potrò farlo.”

Rincuorato dalle parole della sua donna, Giovanni la strinse a sé con forza e sospirò: “Grazie. Ti amo.”

 




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