Capitolo
1° -
Prologo,
Caduti
nell'Inferno
«Siamo Angeli caduti nell’Inferno.
Il Governo
degli Stati Uniti d’America ha analizzato il Campione Zeus
estraendone un gene due volte più potente.
Siamo stati
scelti dal popolo, pescati dalla folla nell’anonimato.
Siamo stati
catturati come bestie e divenuti vittime dei loro scopi.
Siamo e
continueremo ad essere utili alla nazione, ma… quando non
serviremo più, sappiamo tutticon chiarezza cosa ne faranno
di noi.
Non so con
precisione quanti di voi sono come me.
Ma so per
certo che siamo quasi un centinaio e sparsi nel mezzo
dell’epidemia con un obbiettivo preciso:
trovare e
annientare ogni sorta di esponente positivo del Virus.
Abbiamo
accettato questa nostra missione, perseguito con animo il nostro
destino.
Abbiamo creato
una nostra base, un luogo dove riconoscerci e proteggerci.
Lo chiamiamo
il Paradiso, perché in ogni angolo di quartiere di questa
merda di città presiede almeno uno di noi!
Faccio questo
appello a chiunque voglia unirsi alla nostra battaglia.
Angeli o
umani, col gene Zeus nel sangue oppure no non fa alcuna differenza!
Il Virus
è un nemico comune, che ha preso piede oltre le barricate di
Manhattan e sta mietendo milioni di innocenti nelle principali
città americane…
New York per
prima…
Ma adesso San
Francisco e Los Angeles…
Domani
Washington D.C…
Ci
sarà un giorno in cui l’epidemia
toccherà l’oriente e defluirà in
Europa.
Le nostre ali
dovranno impedire tutto questo prima che il genere umano venga spazzato
via dalla faccia della Terra.
Sto
trasmettendo questo appello di fratellanza da una stazione mobile,
accerchiato da un branco di Cacciatori che non aspetta altro che la mia
carne siero positiva…
Oggi
è il 19° giorno dell’infezione.
Io sono il
Dottor Mark Walker.
Voi, e il
luogo nel quale state ascoltando questo messaggio, siete il Paradiso.
Chiudo».
GIORNO
DELL’INFEZIONE 569°
POPOLAZIONE
INFETTA: ---
L’aria divenne tersa, irrespirabile. Il
cielo era scomparso per sempre dietro una nube rosso sangue. I
grattacieli andavano in frantumi col passare del tempo, perdendo pezzo
dopo pezzo travi e componenti di metallo che si rovesciavano a terra
con boati assordanti, mentre i focolari ancora accesi qua e
là continuavano a far danni. I marciapiedi smontati, le
mille crepe nel terreno e i buchi nei palazzi.
Le strade di New York, intasate delle carcasse di
automobili, elicotteri e carri bruciate dall’esplosione,
erano quel giorno deserte.
Un presagio, una visione, un quadro apocalittico
che neppure i capitoli peggiori del Libro dell’Apocalisse.
C’era silenzio, ma non quel genere di
silenzio perché non si ha da fare, da dire o di che pensare.
Era un silenzio voluto, da tanto trattenuto e ostentato.
Mi trascinavo a fatica, un braccio attorno al
ventre e le ginocchia piegate, stanche che avrebbero ceduto a breve, ne
ero certa. I miei passi silenti vagano nella desolazione di Broadway,
dove il caccia The End
era piovuto e precipitato, radendo al suolo il quartiere.
The
End, la fine, la soluzione ai loro problemi; o
più comunemente la bomba nucleare installata
nell’artiglieria di un aereo militare che, precipitato nel
centro di Manhattan aveva spazzato via i palazzi e interrotto
definitivamente l’epidemia.
Gli alveari diffondevano per le strade la loro
puzza morta, assieme ai cadaveri della gente innocente buttati via,
carbonizzati accanto a quelli dei cacciatori
e dei portatori malati.
Ciò che restava attorno a me, dunque,
non poteva essere altro che un campo di rossa desolazione.
Indossavo i miei vestiti ancora integri, ma in me
si muoveva una sgradevole sensazione di dolore che partiva dai muscoli
delle gambe e arrivava sino alla base del collo. Ansimai, ma in fine
non riuscii a resistere oltre, e fermandomi nel centro di quel campo
desolato e polveroso, mi accasciai a terra.
La mia guancia premeva contro il sangue di corpi
sventrati e ustionati senza pietà, avvertivo sulle labbra il
freddo del metallo di forse alcuni frammenti di un’auto
volata chissà dove per l’esplosione.
Non tentai subito di alzarmi, godendomi quel poco
di riposo che mi era concesso. Mi girai di fianco, rovesciandomi a
pancia in su e soffocando in gola un tenue lamento.
I miei sensi vigili, svegli, amplificati
captarono subito la sua presenza. Mi stava osservando, nascosto
lì dove lui pensava non potessi vederlo.
E invece si sbagliava di grosso.
Sapevo benissimo che era lassù, sulla
cima di quelle rovine dell’Empire, in piedi sul pizzo di una
trave.
A quel punto provai ad alzarmi e, poggiando un
gomito a terra e facendo leva su di esso, mi misi a sedere il
più comoda possibile tra le macerie. Dopodiché
alzai il mento e guardai dove la sua figura nera, piccola e ben eretta
copriva i raggi del sole del tramonto, allungando la sua ombra sino ai
miei piedi.
Il fumo andava diradarsi. Erano trascorse poche
ore dall’esplosione, ma l’energia nucleare e tutti
i suoi gas più tossici si spostavano svelti sospinti da una
brezza bollente, quasi desertica.
I miei capelli scuri e ondulati mi ricadevano in
boccoli sporchi e unti sulle spalle. Il mio viso tondo, giovane, aveva
perso tutta la sua fanciullezza. Persino il mio sguardo, i miei occhi
marroni avevano perduto la loro lucentezza arrossandosi in un modo
spettrale e permettendo la comparsa di quelle occhiaie che consumavano
le mie guance bianche.
La mia pelle chiarissima, cadaverica quasi. Mi
guardai le mani che avevano impercettibilmente cominciato a tremare, ed
io con loro.
Non capii cosa mi stesse succedendo, non capivo
un bel niente. Mi sentivo debole, stanca… Andai subito nel
pallone dei sensi, non riuscendo a mettere a fuoco la vista e
percependo il fiato mancarmi nei polmoni.
Sciocchi umani illusi che avevano pensato bene di
sganciare una bomba nucleare per sbarazzarsi sia degli zombie
assatanati che di noi…
Risentivo degli effetti del nucleare sulla mia
pelle, ne avvertivo la consistenza e il malessere non riuscendo a
controllare i mie poteri. E pensare che un tempo, perché
c’era stato un tempo, giusto dieci giorni prima, in cui ero
riuscita a tener testa al più temuto di tutti i portatori
sani…
Era cominciato tutto pochi giorni prima, prima
che The End
si schiantasse sulla città a recasse fuori tutto e tutti,
abbandonando New York in quello stato.
Lo guardai con entrambi gli occhi
spalancati; “mi dispiace..” dissi
muovendo le labbra in mute parole, ma lui, da lassù, non mi
diede alcuna risposta.
Si limitò a gettarsi nel vuoto, con un
salto nel vento che gli sollevò appena i lembi del giubbetto
e la maglia bianca sotto di esso.
Un istante più tardi, la sua figura
composta e leggiadra si schiantò con ferocia al suolo,
sollevando uno strato di polvere che mi travolse a tutto spiano,
assieme al boato dell’asfalto che andava in frantumi.
Il ragazzo, lo vidi, si tirò su
lentamente continuando a fissarmi da lontano.
Chinai la testa, colpevole e assoggettata,
sfuggendo ai suoi occhi di un azzurro quasi grigio, innaturale.
Metà del suo viso era celato sotto il chiaro cappuccio, le
braccia lungo i fianchi, ad una decina di metri da me.
Mi accorsi che stava venendomi in contro troppo
tardi, perché tentai la fuga voltandomi tutt’altra
parte e tirandomi in piedi.
-Vattene, lasciami stare!- gridai.
Mecer continuò ad avanzare nella mia
direzione, ed io a sfuggire dalla sua.
-Cosa vuoi? Cosa vuoi ancora da noi?!- gli urlai
contro girandomi a guardarlo, continuando ad indietreggiare frettolosa.
–Basta, hai vinto! Lasciami in pace!-.
M’inquietava parecchio vederlo venire
verso di me così tranquillo, quasi fosse certo che in un
modo o nell’altro sarei morta comunque; per mano sua o no.
-Vattene, basta… ti prego…-
mormorai flebile. –Mi dispiace, mi dispiace Alex…-
aggiunsi.
Inciampai su qualcosa alle mie spalle e caddi a
terra di schiena.
Serrai i denti e tenni il dolore per me e per me
soltanto.
Zeus era proprio davanti a me: mi guardava con
null’altro in volto che non fosse un’immensa
serietà e pena che non mi aspettavo.
-Alzati- disse.
Esitai, incredula di tali parole.
-Ho detto alzati- ripeté.
Cercai e tentoni qualcosa a cui appoggiarmi, ma
prima ancora che potessi solo realizzare del tutto che la sua
intenzione non era di farmi ulteriormente del male, lo vidi porgermi la
mano.
Mi stupii non poco di quel gesto, e
ciò fece nascere nel mio interlocutore qualcosa che gli
diede parecchio fastidio.
Ritrasse il braccio, tornando a fissarmi con odio.
-Ti hanno mandato loro?- chiese.
-Loro chi?- domandai arrogante, ma a quanto mi
parve non fu contento della mia risposta.
Alex mi afferrò con violenza per la
giacca e mi sollevò così da terra, tenendomi
stretta con entrambi i pugni.
-Smettila di mentirmi, Emily! Ti hanno mandata
loro! Per uccidermi!- ruggì.
I miei piedi galleggiavano nel vuoto, mentre non
opponevo alcuna resistenza alla sua presa.
–Sì…- assentii.
Vidi i suoi occhi balenare di una luce diversa,
triste, e le sue labbra schiudersi incredule. -…Emily-
chiamò ancora il mio nome, allentando la stretta dei pugni
sul mio cappotto. –Perché, Emily?! Non siamo
uguali te ed io?! Non lo siamo?!- mi chiese avvicinando il viso al mio.
-No, Alex. Non lo siamo!- quanto mi
costò pronunciare queste parole… -Non lo siamo
mai stati e mai lo saremo, mi dispiace…- sussurrai,
poggiando delicatamente le mie dita su una sua mano.
–Credimi, mi dispiace davvero… tantissimo- cercai
il suo sguardo che invece mi sfuggì, e ciò che
vidi fu solamente la rabbia tornare ad attraversare gli zigomi del suo
volto.
-Adesso…- balbettai. –Adesso
mettimi giù, per favore…- sibilai.
–Alex…- tentai di chiamarlo, ma mi accorsi con non
poco stupore del vuoto nei suoi occhi, che già vagavano nei
ricordi confusi e annebbiati, ma piacevoli, che aveva di me e delle
poche e meritate esperienze trascorse assieme.
-Alex… ti prego- singhiozzai
debolmente, e una lacrima d’argento mi scese lungo la guancia.
Il modo in cui mi guardava, come speranzoso che
fosse tutta una balla, come in attesa che gli dicessi: “ah,
piaciuto lo scherzo?”… cosa che non feci, che non
potei fare, che nessuno mi aveva chiesto o ordinato di fare.
-Mettimi giù, Alex!- gemetti tra le
lacrime, cominciando a calciare il vuoto sotto i miei piedi e dimenarmi
forsennata.
Il ragazzo mi afferrò con una sola
mano sollevandomi più in alto, allontanandomi dal suo viso.
-Come vuoi!- sbraitò.
Mantenne la parola, ma non precisamente nel modo
che mi aspettavo.
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